Rassegna stampa ragionata sul Medio Oriente e sul mondo musulmano

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:02:28

Di cosa parliamo questa settimana:

 

  • In Nagorno-Karabakh è stato firmato un accordo da cui emerge il ruolo centrale che ha avuto sul campo la Turchia, che però continua ad avere grosse difficoltà dal punto di vista economico-finanziario
  • Cosa cambierà nei rapporti tra Stati Uniti e Medio Oriente con l’elezione di Biden  
  • Terrorismo islamista: in Francia e in Austria il dibattito è ancora acceso, mentre i jihadisti continuano a mietere vittime anche in altre parti del mondo.
  • Nuove tensioni in Etiopia

 

La tregua in Nagorno-Karabach

Secondo il Washington Post nel conflitto in Nagorno-Karabach si è avuto un assaggio di quelle che saranno le guerre del futuro, con il pesante utilizzo di droni a costo relativamente basso. Il conflitto si è interrotto martedì, quando Armenia, Russia e Azerbaijan hanno firmato una tregua. Come spiega Marta Ottaviani su Avvenire, «per molti analisti la parte davvero difficile nel conflitto del Nagorno-Karabakh inizia ora». Il primo ministro armeno Nikol Pashiyan l’ha definita una scelta «dolorosa», mentre l’Azerbaijan ottiene il controllo della città di Susha e di altre parti di territorio conteso. Qualche giorno prima della notizia dell’accordo, in un’intervista alla BBC, il presidente Ilham Aliyev dell’Azerbaijan aveva detto che per Yerevan «le opportunità per un compromesso si stanno riducendo». E così è stato. Gli armeni, delusi e arrabbiati per una tregua che è più l’ammissione di una sconfitta, si sono scagliati contro i palazzi governativi e a migliaia hanno poi chiesto le dimissioni di Pashiyan.

 

L’elemento importante è il coinvolgimento russo: mentre tutti mettevano in evidenza il coinvolgimento militare della Turchia a favore dell’Azerbaijan, la Russia è rimasta in disparte e ha tirato le fila del conflitto da dietro le quinte. La tregua è infatti stata preceduta da una telefonata tra Putin ed Erdogan, mentre il Carnegie Endowment for International Peace spiega perché la Russia non si sia schierata subito a favore dell’Armenia contro Baku: «A differenza di altre ex repubbliche sovietiche con conflitti congelati (Georgia, Ucraina, Moldavia), l’Azerbaigian non si è posto come Stato nemico della Russia. Non ha mai avuto un governo che abbia trasformato la retorica anti-russa in una questione chiave della politica estera, o che abbia dichiarato l’emancipazione dalla Russia il suo obiettivo principale».

 

La fisionomia del Caucaso meridionale cambia quindi con il nuovo accordo, in base al quale altre zone dovranno andare all’Azerbaijan che, come scrive Al Monitor, appare vincitore sia sul campo che a livello diplomatico: «L’Azerbaigian e la Turchia sono stati i vincitori sul campo, ma la Russia e l’Azerbaigian sono emersi come vincitori al tavolo delle trattative. Le conquiste diplomatiche della Turchia sembrano incerte. Il presidente azero Ilham Aliyev ha menzionato un ruolo per la Turchia nel monitoraggio del cessate il fuoco, ma Mosca è stata rapida nell’affermare che solo le forze di pace russe saranno dispiegate»

 

Cambiati i rapporti di forza sul campo, il conflitto tornerebbe ora a congelarsi. Tuttavia secondo Pierre Haski, anche Erdogan esce da vincitore politico, tesi con cui concorda anche Thomas de Waal. Se la Russia avrà la possibilità di ottenere la presenza di forze armate lì dove stava perdendo influenza, la Turchia «si è assicurata la promessa di un corridoio di trasporto che allarga drasticamente i propri orizzonti orientali, dalla Turchia orientale al Mar Caspio passando per l’exclave azera di Nakhichevan - di fatto una nuova rotta commerciale fino all’Asia centrale».

 

Ma al di là delle considerazioni geopolitiche, questa guerra è anche «un tentativo di eliminare gli armeni, un altro, l’ennesimo di distruggere questa piccola tribù cristiana che per i suoi nemici è gente che non ha nessuna importanza, e la cui storia è finita, le cui guerre sono già state tutte combattute e perse». O per utilizzare altre parole sempre di Domenico Quirico, «un ostacolo ai piani imperialisti turchi mentre l’Europa con tutto l’Occidente sta a guardare».

 

Turchia economicamente in bilico

 

Nei giorni scorsi Erdogan ha sostituito il governatore della Banca centrale Murat Uysal e successivamente – a sorpresa - il genero del presidente turco, Berat Albayrak, «zar dell'economia del Paese» (Bloomberg), si è dimesso da ministro delle Finanze. Il valore della lira è poi salito, dimostrando l’apprezzamento degli investitori stranieri per la scelta, anche se è difficile predire il corso che prenderanno le politiche economiche turche. Albayrak era stato identificato come possibile successore di Erdogan, ma al suo posto martedì è stato nominato Lutfi Elvan.

 

Tuttavia secondo Haaretz cambiare ministro delle Finanze o governatore della Banca centrale servirà a poco «finché il presidente metterà in atto le sue politiche distruttive». Infatti, continua poi il giornale israeliano, «la Turchia è assediata da nemici che frustrano la sua inevitabile ascesa al potere. Un modo per farlo è impedirle di rivendicare le acque marittime di altri Paesi; un altro è distruggere l’economia. La realtà dei fatti è che Erdogan ha reso la Turchia così poco attraente – non solo per le sue bizzarre teorie economiche, ma anche per una diplomazia di terra bruciata che l’ha lasciata senza amici e vulnerabile alle sanzioni – che gli investimenti stranieri sono praticamente scomparsi. La politica economica dal 2018 è stata addirittura concepita per escluderli».

 

Cambi repentini forse giustificati dall’approssimarsi della nuova amministrazione americana, che sarà molto meno ben disposta nei confronti di Erdogan, leggiamo su Formiche. In questo momento la Halkbank, «la seconda banca pubblica del Paese, colta con le mani nel sacco a fare da tramite per transazioni con le quali si aggiravano le sanzioni contro l’Iran» è in stato di accusa da parte della procura di New York per frode e riciclaggio di denaro. L’inchiesta potrebbe incriminare uomini molto vicini al presidente e portare a sanzioni da parte americana: «Tutti motivi per i quali occorre mostrare un cambio di passo e chinare parzialmente la testa, sacrificando anche il proprio genero».

 

Cosa aspettarsi dalla politica estera della futura amministrazione Biden in Medio Oriente

 

Cosa si aspetta la stampa internazionale dalla politica estera di Biden nell’area MENA? Sicuramente nessuno grande scossone, ma qualche aggiustamento nei confronti di alcuni Paesi chiave, tra cui l’Arabia Saudita, Israele, l’Iran e l’Iraq.

 

Come scrive Limes, «certamente, il nuovo presidente dovrà fare i conti con gli effetti della gestione Trump. Questi ultimi, a parte alcune eccezioni degne di nota, hanno a che fare però più con la retorica che con i fatti. Il tycoon non ha stravolto la visione politica americana nella regione, ma in alcuni casi ha accelerato processi che, in sordina, erano stati avviati da tempo». Sarà quindi un «cambiamento nella continuità», secondo il sintetico ma efficace titolo de L’Orient-Le Jour, visto che Biden erediterà una regione non troppo diversa da quella che conosceva quando era vice-presidente, tranne forse per quanto riguarda il ritiro dall’accordo sul nucleare iraniano, e i rapporti che Trump ha stretto con Netanyahu e Mohammad bin Salman. Ma bisogna ricordare che la normalizzazione dei rapporti tra Israele, il Golfo e il Sudan aveva trovato il favore di Biden.

 

Cambierà probabilmente il tipo di approccio, che sarà più diplomatico, ma allo stesso tempo non si può dire che il Medio Oriente sarà una priorità per la nuova amministrazione. Del resto, come aveva titolato un paio di mesi fa Foreign Policy, «con Biden il Medio Oriente sarebbe solo un’altra regione», riferendosi alla progressiva perdita di importanza dei teatri mediorientali per la politica estera americana.

 

Sarebbe tuttavia sbagliato, avverte The National, aspettarsi un ritorno all’era Obama, soprattutto perché l’ex presidente e il presidente eletto vengono da background politici completamente diversi: «Gli orientamenti interventisti liberali del Presidente eletto sono modellati dai suoi molti anni di lavoro nella Commissione per le relazioni estere del Senato degli Stati Uniti. [...] Ciò è in netto contrasto con Obama, i suoi consiglieri più anziani e il percorso che hanno fatto alla Casa Bianca. Mentre Biden è l’ultimo insider in servizio al Senato degli Stati Uniti dal 1973, Obama è stato l’ultimo outsider – un giovane e poco conosciuto senatore dell’Illinois salito alla presidenza con la promessa di un cambiamento radicale. I suoi stretti collaboratori, in particolare l’ex vice consigliere per la sicurezza nazionale Ben Rhodes, hanno compensato la loro mancanza di esperienza in politica estera con l’adozione di politiche dogmatiche, che hanno innalzato il consenso bipartisan di lunga data verso regimi disonesti come l’Iran e Cuba».

 

Nel frattempo Trump ha cambiato i vertici del Pentagono, decisione che fa pensare alla volontà di un ritiro immediato dalla Siria e dall’Afghanistan, addirittura in tempo per Natale come Trump aveva promesso in campagna elettorale, scrive il Foglio. Così il presidente uscente, presentando il fatto compiuto, complicherebbe non di poco la possibilità di manovra in questi teatri a Biden, che da tradizione si insedierà alla Casa Bianca a gennaio.

 

Come sta andando la lotta al terrorismo

 

Da anti-europeista ad alleato della Francia nella lotta contro «un nemico comune» e il «separatismo»: è così che il quotidiano francese Le Monde dipinge il cancelliere austriaco Sebastian Kurtz, che martedì è stato ricevuto dall’Eliseo per discutere di una maggiore cooperazione dei servizi di intelligence europei e del rafforzamento del controllo alle frontiere.

 

Oltreoceano il New York Times vede nell’incontro tra Macron e Kurtz non tanto una battaglia contro l’islamismo o l’Islam politico, quanto una possibilità di rafforzarsi politicamente a livello interno, soprattutto per quanto riguarda Macron, già proiettato alle elezioni del 2022 che lo vedranno probabilmente scontrarsi con la leader dell’estrema destra Marine Le Pen. «Dato il livello di emozione che è stato creato, ha la sensazione di dover dimostrare ai francesi che sta facendo del suo meglio», ha detto Dominique Moïsi riferendosi al presidente francese. Dal canto suo Kurtz, che fino all’anno scorso era al governo con l’estrema destra austriaca e ora con i Verdi, migliora la propria reputazione ponendosi come interlocutore di un leader europeo come Macron.

 

Tuttavia in Francia il dibattito sulla laïcité continua: in una lettera al Financial Times Olivier Roy analizza i punti di debolezza della proposta di legge di Macron. Il disegno di legge si basa sull’assunto che il terrorismo sia alimentato dalla diffusione del salafismo nei quartieri più disagiati, e sulla necessità di rafforzare i «valori della repubblica». Tuttavia uno studio dello stesso Roy mette in evidenza che gli attentatori nella maggior parte dei casi non hanno niente a che fare con il salafismo, ma si radicalizzano in internet e in contesti sociali di bassa criminalità. Per quanto riguarda i valori repubblicani, lo studioso si domanda a cosa si riferisca esattamente Macron, perché in fondo «la vera questione […] è ciò che resta della libertà religiosa nella nostra repubblica secolarizzata».

 

Il dibattito in Austria forse non è così avanzato, ma Kurtz, che aveva inizialmente utilizzato parole conciliatorie, ha poi presentato un pacchetto legislativo che verrà discusso dal Parlamento prima della fine dell’anno e che «stabilirebbe un nuovo reato penale per chi “crea il terreno fertile” per il terrorismo».

 

Anche in altre parti del mondo si registrano attentati: a Gedda, in Arabia Saudita, almeno tre persone sono rimaste ferite per un attacco durante una cerimonia di commemorazione della Prima guerra mondiale in cui erano presenti diverse personalità diplomatiche. Dopo l’attentato a Nizza, la Francia aveva notificato ai propri cittadini presenti in Arabia Saudita di stare «in massima allerta».

 

Ma è in Mozambico che si sono verificati alcuni degli attacchi più brutali: secondo alcune fonti locali, una cinquantina di persone sono state decapitate da parte di «ribelli islamisti collegati allo Stato islamico», scrive Deutsche Welle, che spiega poi come la provincia di Capo Delgado sia il fulcro di una ribellione islamista da almeno tre anni. La CNN ricorda inoltre che «l’insurrezione ha compiuto attacchi sempre più sofisticati negli ultimi mesi, invadendo gran parte dell’estremo nord di Cabo Delgado, [...] sede di un giacimento di gas naturale da 60 miliardi di dollari che è ampiamente sorvegliato dalle forze armate e dalla sicurezza privata mozambicana».

 

In un paragrafo

 

Nuove tensioni in Etiopia

 

Il presidente etiope Abiy Ahmed ha ordinato un’offensiva contro il Fronte popolare di liberazione del Tigray (TPLF) e secondo Amnesty International centinaia di civili sono stati uccisi, mentre migliaia di persone sono fuggite verso il Sudan per scampare a quella che potrebbe diventare una guerra secessionista. L’aggressione da parte de governo federale giunge dopo una serie di provocazioni e aspirazioni all’indipendenza: il TPLF, il principale partito politico che rappresenta l’etnia tigrina, ritiene illegittimo il governo centrale di Abiy Ahmed, che dal 2018 ha epurato i centri di potere dall’élite tigrina. Venti di guerra in una regione che ha già visto violenti conflitti in passato. Al momento l’Eritrea non è coinvolta, ma «la regione […] osserva gli eventi con inquietudine crescente».

 

In breve

 

La decisione di chiudere alcuni campi di sfollamento in Iraq potrebbe lasciare fino a 100.000 persone senza riparo e assistenza (Washington Post).

 

Khalifa bin Salman Al Khalifa, primo ministro del Bahrein, è morto all’età di 84 anni (Al Jazeera).

 

L’avvocata Hanan Barasi è stata uccisa a Bengasi (The Libya Observer); in Libia si è deciso di tenere elezioni fra 18 mesi (Reuters).

 

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