Rassegna stampa ragionata sul Medio Oriente e sul mondo musulmano

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:03:17

Pompeo dichiara gli houthi gruppo terroristico…

 

Secondo il Washington Post, la decisione statunitense di includere gli houthi nella lista delle organizzazioni terroristiche, annunciata dal segretario di stato americano Mike Pompeo, potrebbe avere «effetti devastanti» per lo Yemen. Gli houthi sono un gruppo ribelle appoggiato dall’Iran e, nonostante anni di conflitto contro la coalizione a guida saudita, controlla ancora la parte settentrionale del Paese.

 

A livello pratico la designazione degli houthi come gruppo terroristico potrebbe impedire a diverse organizzazioni internazionali di raggiungere le aree controllate dai ribelli, pena sanzioni legali. La maggior parte degli yemeniti (colpiti da ripetute carestie ed epidemie di colera) vive proprio nelle aree sotto il controllo dei ribelli.

 

Alcuni esponenti del partito repubblicano hanno criticato la mossa di Pompeo, il quale ha poi dichiarato che l’Iran potrebbe avere legami con Al-Qaeda. Un’asserzione che secondo diversi analisti è priva di fondamento. Non è tuttavia da escludere il fatto che una potenza sciita come l'Iran possa avere legami con organizzazioni sunnite. Sembra quindi che l’amministrazione americana uscente stia solo cercando di rendere sempre più difficile a Biden una ripresa dei negoziati con Teheran.

 

…mentre Biden sceglie i propri collaboratori…

 

Intanto Biden ha nominato William Burns, diplomatico di lungo corso, capo della CIA. Burns è presidente del Carnegie Endowment for International Peace, dopo essere stato ambasciatore in Giordania e Russia, e negoziatore per l’accordo sul nucleare iraniano dal quale gli Stati Uniti si sono ritirati nel 2018.

 

La decisione di selezionare un diplomatico, e non un membro dell’intelligence, a capo della CIA potrebbe indicare la direzione che prenderà l’amministrazione Biden in politica estera, in particolare nei confronti dell’Iran. Burns è autore di due editoriali usciti a fine 2019 sull’Atlantic e sul New York Times. In quest’ultimo, scritto insieme a Jake Sullivan, (ora consigliere per la sicurezza nazionale di Biden), critica la politica di Trump nei confronti di Teheran.

 

Scrivono inoltre Burns e Sullivan: «Dovremmo cogliere l’occasione della crisi nel Golfo e spingere con forza per porre fine alla guerra in Yemen. Questo conflitto non è solo una tragedia umanitaria di proporzioni epiche, ma anche una catastrofe strategica per i nostri partner del Golfo e una macchia sulla politica estera americana». Burns aveva anche criticato il piano di pace israelo-palestinese di Trump, e l’approccio di Obama nei confronti del presidente siriano Bashar al-Assad.

 

A coordinare la politica estera americana in Medio Oriente ci sarà anche Brett McGurk, inviato speciale nella coalizione contro l’ISIS sia durante l’ultima amministrazione Obama che durante il governo Trump. Rassegnò le dimissioni alla fine del 2018 quando Trump decise di ritirare le truppe americane dalla Siria.

 

…e la Turchia sta in allerta

 

La scelta ha subito messo in allerta la Turchia, di cui McGurk è stato più volte critico. Scrive Axios che McGurk è stato sostenitore della collaborazione americana con le Forze siriane democratiche (Syrian Democratic Forces, SDF), composte soprattutto da combattenti curdi, e considerate dalla Turchia alla stregua del PKK, il Partito curdo dei lavoratori. McGurk, inoltre, coordinerà la politica americana in diversi teatri del Medio Oriente dove Ankara ha svariati interessi.

 

Nel sito turco filo-governativo TRT World è apparso un editoriale in cui si afferma che McGurk abbia usato il paradigma del «terrore per combattere il terrore», finanziando organizzazioni estremiste per combattere alti gruppi di terroristi: «Questa propensione ideologica a vedere il mondo in diverse sfumature di terrorismo, piuttosto che attraverso la soluzione dei problemi basata su alleanze provate e solide, ha influenzato le sue decisioni prese per conto del governo degli Stati Uniti. Non solo si è assicurato personalmente che i fondi e le armi statunitensi cadessero nelle mani delle organizzazioni terroristiche in Siria, ma le sue azioni hanno anche rafforzato una pletora di milizie sciite settarie sostenute dall’Iran in Iraq. Queste decisioni hanno portato a dirette violazioni dei diritti umani e a crimini di guerra».

 

La Turchia non gradisce quindi la nomina di McGurk a consigliere per la politica estera americana, che potrebbe ostacolare l’espansione geopolitica verso la quale è proiettata Ankara, di cui parla il Financial Times. Soner Cagaptay sostiene che dopo il tentato colpo di Stato del 2016 ci sia stata una rottura tra l’Occidente e la Turchia, la quale ha cambiato postura sul piano internazionale. Newlines magazine invece racconta cosa significhi l’immagine della “mela rossa”, usata dal presidente turco come simbolo delle proprie mire espansionistiche.

 

Ma Erdogan ha anche una serie di problemi di politica interna a cui pensare. Nelle scorse settimane ci sono state delle proteste all’Università Boğaziçi dopo la scelta del nuovo del rettore, Melih Bulu, da parte del governo. Il Guardian spiega che «la decisione è stata accolta con indignazione dal corpo studentesco e dai membri della facoltà, che hanno interpretato la nomina di Bulu come un tentativo di limitare le libertà accademiche, affermando che il nuovo rettore è stato il primo ad essere scelto al di fuori della comunità universitaria dopo il colpo di stato militare del 1980».

 

L’Economist scrive invece che grazie a una legge approvata a fine dicembre, il governo turco avrà il potere di «riformare o chiudere le organizzazioni della società civile», incluse le ONG straniere come Human Rights Watch o Amnesty International. A partire dal 2016 la repressione in Turchia si è fatta sempre più dura e sempre più persone sono state arrestate con accuse di terrorismo: «Pochi Paesi hanno subito tanti attacchi terroristici quanto la Turchia negli ultimi cinque anni. Ma pochi governi hanno inventato tanti terroristi quanto quelli inventati da Erdogan», scrive il settimanale inglese. In periodo di pandemia, anche i medici si sono dimostrati una spina nel fianco per Erdogan, che, conclude l’Economist, sta probabilmente nascondendo la reale portata della diffusione dei contagi da Covid-19.

 

In un paragrafo

 

La crisi dell’Etiopia

 

Almeno 80 persone sono state uccise nella regione di Benishangul-Gumuz, al confine tra Etiopia e Sudan. Secondo gli esperti in Etiopia stanno emergendo con maggiore forza i conflitti etnici.Questo è in parte dovuto alla decisione del presidente Abiy Ahmed di rafforzare la presenza militare nel Tigrai, riposizionando i soldati normalmente di stanza nelle altre regioni del Paese. Nel Tigrai, secondo alcune testimonianze, sarebbero state massacrate almeno 750 persone, tra cui anche dei fedeli postisi a difesa della chiesa di Santa Maria di Sion, dove secondo la leggenda sarebbe custodita l’Arca dell’Alleanza. La crisi sempre più profonda in cui sta sprofondando l’Etiopia, i cui confini stanno praticamente venendo rimodellati, rischia di creare una serie di problemi per le monarchie del Golfo che hanno investito nel Corno d’Africa, e per il vicino Sudan, ancora in fase di transizione governativa, ma verso il quale sta scappando la maggior parte dei rifugiati.

 

In una frase

 

Gulbahar Haitiwaji, una donna uigura emigrata in Francia nel 2006, racconta l’esperienza avuta in un campo di rieducazione in Cina, in cui è stata rinchiusa per due anni dopo essere tornata nello Xinjiang per firmare dei documenti (Guardian).

 

Israele ha condotto degli attacchi in Siria (quattro nelle ultime due settimane) contro obiettivi iraniani (BBC).

 

Un reportage del Monde spiega che gli abitanti della città sunnita di Jurf Al-Sakh, in Iraq, che erano fuggiti dallo Stato islamico, non riescono a tornare alle loro case perché la cittadina ora è occupata dalle milizie sciite.

 

Il Libano, ancora stremato a livello economico, da ieri è entrato in lockdown totale a seguito dell’aggravarsi della situazione sanitaria (L’Orient-Le Jour).

 

Il Washington Post fa il punto della situazione in Afghanistan: i colloqui di pace rischiano di fallire, le truppe americane si stanno ritirando e le violenze nel Paese sono in aumento.

 

Un contenuto extra per voi

 

Il 14 gennaio è la data in cui i tunisini celebrano la Primavera araba nel loro Paese, essendo il giorno in cui l’allora presidente Ben Ali lasciò la Tunisia. A 10 anni dalle rivoluzioni, Tunisi si trova però in quarantena, perché a sorpresa è stato imposto un lockdown di quattro giorni che ha sospeso tutte le manifestazioni. Il reportage di Arianna Poletti.

 

Le cause che diedero avvio alle proteste nel biennio 2010-2011 sono ancora presenti in Tunisia. Questa serie di infografiche mostra uno spaccato della società tunisina di oggi.

 

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