Quali tragitti seguono le persone che cercano di raggiungere l’Europa attraversando il Mediterraneo? A chi si affidano? Quale ruolo giocano i governi e le autorità dei Paesi di transito e di destinazione? Lo abbiamo a chiesto a Luigi Achilli, esperto di migrazioni e crimine transnazionale

Ultimo aggiornamento: 15/03/2024 11:42:10

Dall’inizio del 2023 sono aumentate le partenze di migranti in direzione dell’Europa e, parallelamente, è cresciuto il rischio di naufragi. Come quello avvenuto a Cutro lo scorso febbraio, in cui hanno perso la vita più di 90 persone, o il recente naufragio al largo delle coste del Peloponneso, che ha causato 80 vittime. Il fenomeno migratorio, tuttavia, è tanto dibattuto quanto poco realmente conosciuto. Abbiamo provato a fare un po’ di chiarezza con Luigi Achilli, esperto di migrazione irregolare, reti di contrabbando e crimine transnazionale, ricercatore presso l’Istituto Universitario Europeo a Firenze e il Christian Michaelson Institute a Bergen, in Norvegia.

 

Intervista a cura di Chiara Pellegrino

 

 

 

Può fare una panoramica delle rotte seguite dai migranti nel Mediterraneo?

 

Le rotte del Mediterraneo sono tre. Quella orientale, che passa dalla Turchia e arriva in Grecia, ed è percorsa storicamente dai migranti asiatici e mediorientali, ma è usata anche dagli africani, specialmente quelli che provengono dal Corno d’Africa e dal Sudan. Poi c’è la rotta centrale, che parte dai Paesi nordafricani, soprattutto dalla Libia, e arriva a Malta o in Italia. È la rotta con il più alto numero di vittime e perciò anche la più nota a livello internazionale. Viene usata soprattutto dai migranti nordafricani, del Corno d’Africa e dell’Africa occidentale, ma anche da alcuni migranti orientali, tra cui i bangladesi e i pakistani, che hanno dovuto trovare una via alternativa alla rotta orientale, parzialmente chiusa in seguito all’accordo tra l’Europa e la Turchia. Infine, c’è la rotta occidentale, che parte dall’Africa occidentale, dal Senegal o dal Marocco, e arriva in Spagna. Tuttavia, con l’intensificazione dei controlli e l’evoluzione degli scenari geopolitici, le rotte non sono più così ben definite. Molti partono dalla rotta centrale e anziché arrivare in Italia arrivano in Grecia. I migranti affogati al largo della Grecia il 14 giugno scorso erano partiti dalla Libia. Pensi alla tragedia di Cutro: i migranti erano partiti dalla rotta orientale. Le rotte seguono la capacità dell’essere umano di adattarsi, di oltrepassare i confini.

 

Ultimamente si parla molto dei trafficanti: chi sono? Come agiscono? Che rapporti hanno con i governi dei Paesi di partenza?

 

Il trafficante non è quello che viene rappresentato dai media o dai policy makers. È una persona completamente diversa. Innanzitutto, tra trafficanti e migranti non c’è sempre una distinzione netta. Moltissimi trafficanti sono stati in precedenza migranti. Prima di parlare dei trafficanti, è necessaria una precisazione. I viaggi che intraprendono oggi i migranti sono molto più simili ai viaggi dei nostri bisnonni o dei nostri trisavoli, piuttosto che ai nostri. Per noi il viaggio è uno spostamento dal punto A al punto B, ma nel loro caso non è così. I loro viaggi sono lunghi, interminabili, possono durare mesi o anni. L’idea che si parta da A e si arrivi a B non esiste, perché durante il tragitto può succedere di tutto: lavori, ti sposi, vai in galera, cambi idea. Quella che idealmente era la destinazione finale può diventare un luogo di transito, mentre quello che veniva considerato un Paese di transito può diventare la destinazione finale. Più i controlli di frontiera sono severi, più è difficile muoversi. Inoltre, durante il tragitto, i migranti possono esaurire i soldi e può accadere che per sopravvivere entrino in contatto con reti criminali o che addirittura siano loro a costruirne per pagare il servizio dei trafficanti, per farsi qualche soldo o per entrambe le cose. Dopo mesi o anni trascorsi in strada, i migranti conoscono la rotta, conoscono la popolazione locale dei Paesi in cui transitano, hanno acquisito un know-how che gli consente di mettere in piedi un traffico di persone. In più hanno relazioni con i Paesi di origine, da cui loro stessi provengono. A quel punto entrano in contatto con reti preesistenti o creano delle nuove reti. E da migranti diventano temporaneamente trafficanti.  

 

Può fare qualche esempio?

 

Potrei fare un’infinità di esempi. Quasi tutti i trafficanti che conosco hanno seguito questa parabola: sono stati migranti, sono diventati trafficanti e poi, alcuni, sono tornati a essere migranti. Qualche anno fa la procura di Palermo ha arrestato un trafficante in Sudan. Era un eritreo, si chiamava Mered. Era stato soprannominato “il capitano”, “l’Al Capone del deserto”, “la primula rossa” dei trafficanti. Poi si è scoperto che avevano arrestato la persona sbagliata. Il Mered arrestato mungeva vacche, non trafficava persone, ma se ne sono accorti solo dopo che ha scontato tre anni di galera in Italia. La cosa incredibile è che molti dei suoi compagni erano gelosi, perché almeno lui era riuscito ad arrivare in Italia, mentre gli altri no. La procura l’ha arrestato pensando che fosse un trafficante, in realtà era un migrante che viveva in Sudan perché non ce l’aveva fatta. La cosa interessante è che alcuni giornalisti sono riusciti a contattare il vero Mered, il vero capitano. E hanno scoperto che non era il grande trafficante che era stato descritto. Era un migrante che a un certo punto aveva iniziato a fare questo lavoro, senza peraltro riuscire ad accumulare chissà quali fortune. Fondamentalmente, lavorava alle dipendenze di alcuni libici, molto probabilmente collusi con le autorità costiere perché, ricordo, il traffico spesso avviene con la connivenza più o meno attiva delle autorità. A un certo punto Mered voleva ritornare a essere migrante, ma i libici glielo hanno impedito perché per loro rappresentava una fonte di guadagno. Mered era eritreo e molti clienti erano eritrei, perciò per le autorità libiche sarebbe stato un duro colpo perdere lui, soprattutto dal punto di vista economico.

 

Immagino che la connivenza tra autorità e trafficanti sia un fenomeno che accomuna tutti gli Stati di transito.

 

Sì, è così. Qualche anno fa ho fatto una ricerca sui trafficanti curdi in Grecia. Anche loro lavoravano con la connivenza della polizia. Ogni tanto la polizia provava ad arrestarli e a fermare i migranti, ma spesso chiudeva un occhio, perché i trafficanti svolgevano un servizio: concentravano tutti i migranti in un unico posto e non li lasciavano andare in giro, evitando così che creassero fastidio e shock nell’opinione pubblica. In pratica, fungevano da sceriffi, impedendo alle masse di migranti di bighellonare. E poi li smaltivano, cosa che non avrebbero potuto fare perché la Grecia aveva firmato gli accordi di Dublino.

 

Spesso si pensa che i trafficanti guadagnino molto. È così?

 

Tra i trafficanti ci sono persone che sono delinquenti veri e propri e non si fanno scrupoli, e altri che tutto sommato non sono cattive persone. Molti di quelli che ho conosciuto appartenevano a questa seconda categoria. E qui rispondo alla sua domanda. Intorno al traffico di migranti gira un sacco di soldi. I migranti spesso devono vendere le loro case e tutti i loro averi per poter partire. I siriani, per esempio, vendevano tutto per riuscire a pagare il costo dei trafficanti. Questo porta a pensare che i trafficanti siano miliardari. In realtà non è così: i soldi girano, ma questo è un business che richiede un sacco di intermediari, persone che non fanno necessariamente lavori illegali. Ma non bisogna immaginarsi una rete chiusa, in stile ‘Ndrangheta.

 

Ha in mente qualche caso in particolare?

 

Quando sono andato in Turchia a fare ricerca sono stato in un paesino vicino a Bodrum. Era uno di quei paesini che d’inverno muoiono perché non c’è la stagione turistica e non ci va nessuno. A un certo punto, tutto il Paese è rifiorito grazie alla migrazione irregolare. Ci guadagnavano i tassisti, che portano i trafficanti e i migranti al punto di imbarco, gli hotel, che fornivano dei pacchetti turistici ai migranti, i negozi, che nelle vetrine avevano sostituito i vestiti estivi con i giubbotti salvavita. I trafficanti poi avevano subappaltato molte attività alla gente del posto – affittavano il campo del contadino per metterci i migranti, o pagavano il proprietario della casa vicino alla costa per metterci i gommoni. Un giorno stavo facendo un’intervista a un trafficante in un fast food quando il proprietario del locale, pensando che fossi anche io un trafficante, mi ha chiesto in inglese se fossi interessato a prendere in affitto la barca di suo cugino per fare quel lavoro. Insomma, tutta la comunità ci vive. La fetta più grossa probabilmente se la prendono le autorità.

 

Com’è cambiato il “business” dopo gli accordi siglati nel 2016 tra l’Unione Europea e la Turchia?

 

Dopo l’accordo le autorità hanno iniziato a chiedere molti più soldi per lasciar partire le persone. È diventato un servizio più rischioso e dunque più costoso. L’aumento dei costi è una delle ragioni per cui le partenze su quella rotta sono diminuite.

 

In pratica le autorità prendono i soldi due volte, dall’Europa per bloccare le partenze, e dai trafficanti, che le corrompono per poter uscire.

 

Esattamente. Anche se non si può generalizzare, spesso è quello che accade. Bisogna poi anche aggiungere che in alcuni casi gli accordi hanno funzionato. In Libia, per esempio. Gli accordi di Berlusconi con Gheddafi hanno funzionato alla grande, se per funzionare intendiamo bloccare le partenze dei migranti, perché all’epoca nel Paese c’era un potere centralizzato. Il problema semmai è in quali condizioni i migranti venivano trattenuti. Anche gli accordi stipulati dal governo Minniti nel 2017 hanno funzionato. Minniti ha fatto accordi con il capo della Guardia costiera al-Bija – un trafficante di persone, come ha messo in luce la giornalista Nancy Porsia. Per essere precisi, al-Bija non trafficava direttamente le persone, ma chiedeva un pizzo ai trafficanti. Di fatto, quindi, era un anello fondamentale del traffico di migranti. E nonostante questo è stato invitato a un meeting di alto livello al Cara di Mineo, in Sicilia, a cui hanno partecipato anche alcuni membri delle Nazioni Unite. Chi gestiva il traffico ad alti livelli – le autorità, le milizie, la guardia costiera – si era reso conto che era molto più conveniente farsi dare i soldi dall’Europa piuttosto che dai migranti. Si era trasformato da business dell’immigrazione a business della detenzione. I libici, perciò, avevano creato dei campi di detenzione, che loro ovviamente non chiamavano così, dove i migranti venivano rinchiusi subendo i peggiori abusi. La cosa interessante è che le autorità riuscivano comunque a estorcere denaro ai migranti, i quali pagavano per essere liberati o, in alcuni casi, per avere il permesso di partire. Questo però all’Europa non interessava. Queste dinamiche sono state spesso denunciate dai giornalisti d’inchiesta, ma a livello accademico non c’è nessuno studio sul ruolo giocato dal crimine all’interno della governance delle migrazioni.

 

Si sa quanto pagano i migranti per cercare di arrivare in Europa?

 

È molto difficile fare una stima precisa. I prezzi cambiano moltissimo secondo il Paese di partenza, le relazioni che il migrante ha con i trafficanti, il periodo dell’anno, le autorità che ci sono in quel momento… Comunque si va dai 3/4.000 dollari ai 10, 12, 15.000 dollari. Quando facevo ricerca in Turchia, tra il 2015 e il 2016, i migranti pagavano dai 1.000 ai 1.500 dollari per attraversare dalla Turchia alla Grecia. Negli ultimi anni però è cambiato il tipo di migrazione e questo incide anche sui prezzi. Con la chiusura dei confini, i trafficanti per ridurre i rischi di essere arrestati hanno subappaltato la traversata ai migranti, che guidano loro stessi il barcone. Sono migranti che non avevano i soldi per pagare il passaggio e hanno accettato questo incarico senza conoscere veramente i rischi che correvano. Se vengono arrestati vanno ad affollare le carceri in Sicilia.

 

Secondo le stime, il numero di minori migranti accolti in Italia è cresciuto molto negli ultimi anni. Nelle sue ricerche lei si è occupato ampiamente di questo fenomeno, può descriverlo? Chi sono questi ragazzi? Che rapporto hanno con i trafficanti?

 

I minori rappresentano la vulnerabilità. Va però detto che i migranti in generale, ma soprattutto i minori, hanno spesso un rapporto migliore con i trafficanti che con le autorità. Tant’è vero che molti trafficanti, tra i migranti arabofoni, vengono addirittura chiamati con il titolo onorifico di hajji, riservato a chi ha assolto l’obbligo di compiere il pellegrinaggio a Mecca. I trafficanti peraltro hanno un’ottima capacità di negoziazione. Ho iniziato a occuparmi della migrazione dei minori perché volevo vedere quale ruolo giocano i minori, soprattutto quelli non accompagnati, nelle dinamiche tra migranti e trafficanti. Ho scoperto che più aumenta la vulnerabilità, più aumentano gli estremi di queste dinamiche, mentre le capacità di negoziazione sono legate anche alle capacità di sfruttamento. Il fatto che i minori si affidino a canali irregolari per coprire alcune tappe dei loro viaggi verso l’Europa potrebbe sorprendere se consideriamo che i Paesi che attraversano hanno firmato tutti la Convenzione sui Diritti del Fanciullo (CRC), che tutela i loro diritti. E allora perché i minori si affidano alle reti di trafficanti? Per due motivi. Il primo riguarda la criminalizzazione del minore. Spesso i minori finiscono nel mirino delle autorità perché sono considerati più facilmente vittima di gruppi terroristici, che potrebbero fare loro il lavaggio del cervello e sfruttarli per i loro scopi. Sono visti come un’arma e per questo vengono messi più facilmente nei centri di detenzione. Questo accade soprattutto nei Paesi confinanti con la Siria, in Libano e in Giordania, ma anche negli Stati cosiddetti democratici e liberali, come la Grecia. Il secondo riguarda, paradossalmente, la loro protezione. Il sistema di diritto internazionale creato appositamente per proteggere i minori può finire per trascurare gli stessi interessi fondamentali dei minori. Secondo numerosi studi, la CRC universalizza una concezione occidentale dell’infanzia, erodendo l’autonomia individuale e favorendo l’intervento professionale. Ciò è diventato evidente, per esempio, con la tendenza predominante delle autorità e della comunità internazionale ad approvare l’uso della custodia protettiva. Questo approccio ha spesso portato alla rottura delle relazioni sociali dei minori e all’aumento del loro isolamento sociale. Molti ragazzi, quindi, se possono scappano oppure evitano di avvicinare le autorità e le organizzazioni umanitarie. Da un certo punto di vista, si sentono più liberi di agire con i trafficanti. Magari corrono più rischi, anche se non ne sono poi tanto sicuro perché nei centri di detenzione succedono le peggiori cose, ma soprattutto hanno maggiori possibilità di agire e decidere dove andare.

 

Una volta ho trovato un ragazzo siriano sui 16 anni in una casa abbandonata. Mi ha raccontato di essere fuggito da un centro per minori, dove l’avevano messo con un gruppo di afghani. Siriani e afghani non si potevano vedere, figurarsi tra adolescenti. Mi ha detto che si sentiva isolato, perciò è scappato dal centro e si è messo nelle mani dei trafficanti. Le fughe sono un fenomeno comunissimo. In Grecia, nel 2016, oltre il 20% dei bambini non accompagnati sono scomparsi entro 24 ore dalle strutture di accoglienza speciali per minori dove erano stati collocati. I media davano la colpa ai trafficanti, dicevano che li rapivano, li sfruttavano per la prostituzione o li inducevano a scappare con l’inganno. Poi si è scoperto che la maggior parte di questi ragazzi si allontanava volontariamente e trovava nei trafficanti degli intermediari di gran lunga migliori, anche per la protezione che questi potevano garantire loro.

 

Quindi il traffico di minori segue delle logiche parzialmente diverse rispetto al traffico di adulti. Per esempio, quanto pagano le famiglie per affidare dei minori ai trafficanti?

 

In verità la logica è simile a quella del traffico di adulti: stesse rotte, stesse modalità. La differenza, quando ci sono di mezzo i minori, riguarda alcune caratteristiche del traffico: la commistione di protezione e sfruttamento, per esempio, sono più evidenti. Quando prendono in carico i bambini, i trafficanti si fanno pagare molto di più perché hanno più responsabilità. Infatti, ci sono trafficanti che non vogliono i bambini perché rallentano il viaggio o perché non vogliono prendersi la responsabilità. Posso fare un esempio abbastanza drammatico a cui ho assistito, che rende bene l’idea di come è complicato il traffico dei minorenni, perché qui entrano in azione la volontà del migrante, lo sfruttamento, il pericolo e il ruolo di protezione del trafficante. Ero in Turchia con un gruppo di trafficanti che operava sulle montagne. I trafficanti avevano stipulato degli accordi con la polizia e fondamentalmente avevano in gestione tutti i migranti. Si parlava di centinaia di persone, forse addirittura migliaia nei periodi più affollati. I trafficanti nascondevano i migranti all’interno di camion che poi venivano imbarcati sui traghetti diretti a Bari. C’erano afghani, siriani, iracheni. Nel gruppo di afghani c’erano due minori non accompagnati. Erano due fratelli di 12 e 16 anni, affidati al capo dei trafficanti, che chiameremo ‘Abdallah, con un nome di fantasia. ‘Abdallah si prendeva cura di questi due bambini. Sotto di lui c’erano altre persone, altri ragazzi trafficanti. Un giorno mentre eravamo seduti a un bar è arrivata la polizia e ha arrestato ‘Abdallah con l’accusa di stupro di minore. Il bambino di 12 anni era stato stuprato da un ragazzino che lavorava sotto ‘Abdallah. Gli altri trafficanti hanno fermato il ragazzo responsabile della violenza, l’hanno riempito di botte e rimandato a casa. Hanno fatto così perché sapevano che, se l’avessero lasciato là, i migranti afghani l’avrebbero ucciso. A questo punto però gli afghani non si sono potuti rifare, quindi hanno convinto il bambino a dire alla polizia che era stato violentato da ‘Abdallah, che avrebbe dovuto garantire la sua protezione. ‘Abdallah si è fatto quattro anni di galera – ha pagato le conseguenze del fatto di non essere riuscito a garantire la protezione del bambino – e poi è stato scagionato dall’esame del DNA.

 

Traffico e tratta, due termini che spesso vengono confusi. Può spiegare la differenza?

 

In Italia c’è molta confusione attorno a questi due termini. Il trafficante di migranti è quello che noi chiamiamo scafista, anche se non necessariamente guida una barca perché spesso si muove via terra. In questo caso il migrante compra un servizio, che è quello di oltrepassare un confine nazionale.

Il trafficante da tratta è quello della prostituzione, degli organi, del lavoro forzato. In questo caso, il migrante non compra un servizio, il migrante è il servizio, è la merce che viene venduta, comprata o affittata per un determinato periodo. Sono due cose diverse. La tratta in alcuni casi non riguarda neppure l’attraversamento dei confini. Sono trafficanti da tratta, per esempio, quelli che prendono una persona e la costringono a lavorare nei campi di pomodoro. A volte il traffico di persone può diventare tratta. Questo avviene quando i migranti non hanno altra possibilità di sopravvivere se non rientrare in una situazione di sfruttamento. Molti dei minori che ho intervistato sono finiti a lavorare nelle zone agricole del Libano confinanti con la Siria perché quello era l’unico modo con cui i loro genitori potevano permettersi di farli scappare dal Paese. Bambine di 13, 14 anni che venivano fatte lavorare 12 ore in cambio di un compenso esiguo. L’alternativa era essere violentate o uccise in Siria.

 

Un altro esempio sono le nigeriane che vengono a lavorare nei nostri mercati del sesso. Non tutte sono state ingannate, molte prima di partire sanno quello che faranno una volta arrivate in Italia e alcune vedono in questo una possibilità di emancipazione. Sembra incredibile, ma è così. Una donna nigeriana che vuole andare via dal suo Paese ha due modi per farlo: può affidarsi ai trafficanti di persone, ma in quel caso deve attraversare il deserto, rischiare la vita nel Mediterraneo e comunque deve pagare e spesso i soldi non li ha. Poi, quando arriva in Italia, rischia comunque di dover fare la prostituta. L’alternativa è affidarsi ai trafficanti di tratta, in quel caso lei è la merce e quindi sono molto più attenti.

 

Qualcosa di simile avviene con il mercato della droga al confine tra Messico e Stati Uniti. Molti dei migranti non sono stati ingannati dai narcos: per loro viaggiare attraverso i tunnel dei narcos portando la droga è l’unico modo per attraversare il confine.

 

Immagino però che ci siano delle differenze tra le migrazioni nel bacino del Mediterraneo e i flussi migratori tra il Centro America e gli Stati Uniti, a livello di tipologia o del profilo dei migranti…

 

In realtà, sono due tipi di migrazione molto simili tra loro. In entrambi i casi si tratta di migrazioni miste, che comprendono quelli che normalmente chiamiamo richiedenti asilo, rifugiati, e i cosiddetti migranti lavoratori. Questa distinzione è nata durante la seconda guerra mondiale per distinguere le popolazioni sfollate che cercavano di sfuggire alla violenza della guerra, tipo gli ebrei, dalle altre popolazioni, che migravano per questioni prettamente economiche. Nel tempo però questa distinzione è diventata anacronistica. Oggi le cose sono molto più complicate, non si può più distinguere nettamente tra migranti economici e rifugiati politici, perché spesso le due cose s’intrecciano. Proviamo a immaginare: un honduregno che fugge dalla violenza dell’Honduras, dalle pandillas (bande), scappa soltanto dalla violenza o emigra anche per questioni economiche? Lo fa per entrambi i motivi. Lo stesso discorso vale per chi scappava dalla Siria. Fuggiva dalla guerra, ma se ne andava anche per ragioni economiche. Infatti, molti giovani che arrivavano in Europa dovevano provvedere alla loro famiglia rimasta in Siria. Perciò il profilo del migrante è molto simile.

 

Sono diversi il profilo del trafficante e la tipologia di traffico. Da noi c’è il Mediterraneo di mezzo, perciò i migranti vengono fatti viaggiare a bordo di gommoni o pescherecci, e il ruolo del ricevitore è giocato dalla società civile, dalle organizzazioni umanitarie o dallo Stato. In generale, i trafficanti non accompagnano i migranti. In America i trafficanti e i migranti devono attraversare un confine di terra. Se vengono presi vengono subito arrestati oppure rispediti indietro con un iter tremendo. Trascorrono giorni, a volte settimane, in quelle che chiamano hieleras (o iceboxes), delle stanze estremamente fredde dove alcuni si ammalano e muoiono, per esempio, di polmonite. Non ho mai capito perché lo fanno. O meglio, ufficiosamente è chiaro, lo fanno per deterrenza, ma ufficialmente non lo possono dire. È la tipica logica della deterrenza: le prendi, capisci quanto è brutto e la prossima volta non lo fai più. Una migrante trans con cui ho fatto il viaggio durante la carovana dei migranti, per esempio, è morta. Aveva l’AIDS, ha preso la polmonite ed è morta.

 

A essere diverso è anche il modus operandi. In Centro America il trafficante accompagna il migrante attraverso il confine, correndo rischi notevoli. Il trafficante conosce il deserto, è la guida, infatti lo chiamano il coyote, il lupo del deserto. Questo però sta iniziando a cambiare. Visto che le tratte sono molto pericolose, i coyote cominciano a essere sostituiti da un sistema di cyber-coyotes: in pratica danno al migrante un GPS e lo guidano al telefono attraverso il deserto. Immagino che i cyber-coyotes siano più economici. Le possibilità di successo su queste tratte sono abbastanza basse, ma non infinitesimali. In verità, più il migrante paga più è alta la possibilità di successo. In alcuni casi si può persino riuscire a corrompere le autorità di confine.

 

 

 

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