L’accoglienza scintillante riservata al principe ereditario saudita mostra l’apprezzamento che gli riserva il presidente Trump. Tra business e Difesa Riyad accresce il proprio status, indipendentemente da ciò che farà con Israele

Ultimo aggiornamento: 20/11/2025 12:08:34

 

Dopo un’attesa di ben sette anni, il principio ereditario saudita Muhammad bin Salman è potuto recarsi nuovamente a Washington. L’importanza che americani e sauditi assegnano a questa visita è immediatamente testimoniata non soltanto dall’innalzamento della quota di investimenti sauditi nell’economia americana, che passa da 600 a 1.000 miliardi di dollari, ma anche dal ricevimento che l’amministrazione Trump ha riservato al principe e alle dimensioni della delegazione che lo accompagnava, composta da un migliaio di persone. Cifre che permettono di intuire contestualmente l’ampiezza dei temi al centro delle discussioni tra Stati Uniti e Arabia Saudita.

 

Uno scenario radicalmente cambiato

Lo scenario è radicalmente cambiato rispetto all’ultima visita di MbS in America. All’epoca del primo incontro alla Casa Bianca, nel marzo 2018, il figlio prediletto di Re Salman ricopriva la carica di principe ereditario da meno di un anno ed era nel pieno del tentativo di consolidare (e accentrare) il suo potere. In pochissimo tempo, l’erede al trono si era fatto conoscere a livello internazionale, suscitando non poche critiche, per alcune mosse a dir poco spavalde: l’incarcerazione nel Ritz Carlton di Riyad di centinaia di businessmen e membri della famiglia reale allargata; il sequestro dell’ex premier libanese Saad Hariri, di cui seguirono le dimissioni; il blocco imposto al Qatar e, soprattutto, l’avvio assieme agli Emirati Arabi Uniti, della disastrosa guerra in Yemen contro gli Houthi. Solo pochi mesi dopo il viaggio di MbS negli Stati Uniti, poi, l’assassinio di Jamal Khashoggi, avvenuto nel consolato saudita a Istanbul, aveva gravemente compromesso l’immagine del principe, in particolare dopo che l’intelligence americana aveva confermato la sua responsabilità diretta (al contrario di quanto affermato proprio in questi giorni da Trump). Da quel momento MbS ha attraversato una fase molto delicata – protrattasi fino alla prima parte del mandato di Joe Biden – durante la quale era considerato una sorta di paria (così l’aveva definito l’ex presidente americano) da gran parte delle cancellerie occidentali.

La visita a Washington di questa settimana suggella il ritorno in grande stile di MbS sulla scena internazionale, un processo che era iniziato con il fist-bump a cui Biden era stato costretto dallo scoppio della guerra in Ucraina e dal conseguente rialzo dei prezzi del petrolio, che pesava sui consumatori americani. Troppo potente per essere ignorato, ha titolato in questi giorni il New York Times. Oggi la presa sul potere interno da parte del principe ereditario non è più in discussione e, a differenza di quando nel 2018 muoveva i primi passi sulla scena internazionale, MbS è riconosciuto come un attore rilevante in diversi tavoli di politica estera. Il controllo dell’economia saudita e delle sue risorse finanziarie (Muhammad bin Salman siede al vertice del PIF e controlla il Consiglio per gli Affari Economici e di Sviluppo, dove siede anche l’attuale CEO della compagnia petrolifera di Stato, la ARAMCO) lo rende un interlocutore di primo piano per ogni operatore economico globale. Rispetto al 2018 poi, il contesto politico regionale è stato stravolto innanzitutto dal conflitto a Gaza, ma anche dalla “guerra dei dodici giorni”, che ha certificato l’indebolimento iraniano, e dall’attacco israeliano al Qatar, che ha evidenziato la fase militarista in cui è sprofondata la politica estera dello Stato ebraico e il suo potenziale destabilizzante per tutta la regione.

 

Niente normalizzazione

Alla luce di questo nuovo contesto, la visita del principe ereditario saudita dice qualcosa anche sullo stato delle relazioni israelo-americane. A differenza di ciò che sarebbe avvenuto fino a qualche mese fa, l’arrivo di MbS a Washington non è stato preceduto da voci e speculazioni circa una possibile normalizzazione delle relazioni tra l’Arabia Saudita e Israele. Persino Trump deve aver riconosciuto che allo stato attuale non esistono le condizioni minime affinché i sauditi procedano al riconoscimento di Israele. Le critiche da parte dei sauditi nei confronti di Netanyahu e delle componenti più estremiste del suo governo sono diventate sempre più esplicite, tanto da indicare che un’eventuale normalizzazione non avverrà sicuramente prima delle elezioni israeliane del 2026, ammesso che dalle urne esca un governo più propenso a concedere una chance alla creazione di qualcosa che assomigli a Stato palestinese. Riyad ha chiaramente individuato nell’attuale esecutivo israeliano un fattore del disordine regionale, responsabile del drenaggio di risorse (sia economiche che politiche) che l’Arabia Saudita è fermamente intenzionata a dedicare allo sviluppo della sua economia e al superamento della dipendenza dal petrolio, due obiettivi da cui dipende la sua stabilità interna. Recenti voci fatte trapelare da fonti palestinesi affermano proprio che Riyad non sarà disposta a normalizzare fintanto che Netanyahu rimarrà Primo ministro o al governo siederanno ministri come Bezalel Smotrich o Itamar Ben-Gvir. Se infatti prima del 7 ottobre 2023 i sauditi sembravano disposti a ratificare la normalizzazione con lo Stato ebraico a fronte di generiche assicurazioni circa il miglioramento delle condizioni di vita dei palestinesi, ora la creazione di uno Stato palestinese (o quantomeno, come si usa dire, di un “percorso credibile verso la sua creazione”) è una conditio sine qua non per l’avanzamento del dossier-normalizzazione. Lo ha ribadito lo stesso MbS durante il briefing con la stampa a Washington, pur confermando il suo interesse verso gli Accordi di Abramo.

L’arrivo alla Casa Bianca di MbS giunge inoltre a brevissima distanza dall’approvazione della risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, voluta dagli americani, che prevede il dispiegamento di una Forza di Stabilizzazione Internazionale nella Striscia di Gaza. L’adozione della risoluzione è stata immediatamente salutata con favore da Riyad, che l’ha interpretata come un passo importante verso la creazione delle condizioni necessarie per la nascita dello Stato palestinese. Non a caso, tanto hanno applaudito i sauditi quanto è stato critico il governo israeliano, fermamente contrario a ogni possibile statualità palestinese. È bene sottolineare però la differenza di prospettiva: per Riyad la soluzione del conflitto palestinese è decisiva non perché renderebbe possibile la normalizzazione delle relazioni con Israele, quanto perché la rimozione di questo nervo scoperto toglierebbe dalle mani di quelli che Riyad considera attori malevoli della regione – l’Iran, la sua rete di milizie, Israele – una carta da giocare ogni qual volta essi siano intenzionati ad alzare il livello della tensione. Il livello di cooperazione raggiunto dall’Arabia Saudita e dagli Stati Uniti, che interessa sempre più fattori critici della tecnologia, dell’economia e della sicurezza globale, è un dato che Israele deve accuratamente considerare per evitare di incorrere in errori come il bombardamento del Qatar, che ha finito per ritorcersi contro Tel Aviv.

 

Una relazione sempre più profonda

Durante la visita, che si è configurata come un follow up del viaggio di Trump in Arabia Saudita dello scorso maggio, sono stati firmati diversi memorandum e accordi sui temi più disparati, dalla cooperazione nucleare all’intelligenza artificiale, passando per le risorse minerarie (l’Arabia Saudita può diventare un partner chiave per gli Stati Uniti sia grazie alle risorse di cui dispone sia attraverso l’azione in Africa, dove potrebbe porsi come partner alternativo alla Cina). Tutti questi ambiti, tra loro intrecciati, conducono però al piatto forte dell’incontro tra Trump e bin Salman: la Difesa. Ancora prima dell’arrivo del de facto regnante saudita a Washington, il presidente americano aveva annunciato la vendita degli aerei da combattimento F35 a Riyad. Un affare che, sommato all’approvazione della risoluzione su Gaza, non deve aver fatto passare delle buone giornate a Netanyahu.

L’annuncio sugli F35 è contemporaneamente degno di nota e da valutare con prudenza. Quest’ultima si deve al fatto che serviranno anni affinché gli aerei possano effettivamente essere messi a disposizione dei Saud, e dunque l’equilibrio militare regionale non verrà alterato nel breve periodo. Dall’altro lato, la vendita renderà i sauditi l’unico Paese arabo a essere dotato dei preziosi caccia americani di quinta generazione e, nella regione, l’unico Stato ad averli oltre a Israele. Un ulteriore elemento non deve sfuggire: Trump aveva approvato la vendita degli F35 agli Emirati Arabi Uniti, ma la consegna degli aerei non si era materializzata per via dei timori espressi in seguito dall’amministrazione Biden che l’avanzata tecnologia militare statunitense avrebbe potuto finire nelle mani della Cina. Un rischio che permane anche nel caso dell’acquisizione da parte di Riyad. Resta da capire che tipo di rassicurazioni sia stata in grado di fornire l’Arabia Saudita. Gli accordi in ambito di difesa includono anche la vendita di ben 300 (!) carri armati.

L’incontro con Trump è stato anche l’occasione per rispondere alla richiesta saudita di maggiori garanzie di sicurezza, rese più urgenti dagli ultimi due anni di guerra. La risposta si è concretizzata anche nell’elevamento della partnership Usa-Arabia Saudita al livello di major non-Nato ally, qualifica già concessa al Qatar, e dalla sottolineatura da parte della Casa Bianca del «rafforzamento del ruolo americano di garante della sicurezza regionale», un’affermazione degna di nota se si considera la percezione, diffusa da più di un decennio, di un graduale disimpegno americano. La vendita degli F35 ai sauditi e la contestuale elevazione dello status del Regno mettono in luce un’altra componente del viaggio di MbS: riaffermare anche agli occhi degli altri partner della regione, a cominciare dalle monarchie del Gulf Cooperation Council, che l’Arabia Saudita è il più importante Paese della zona e, in quanto tale, beneficia di una relazione privilegiata con l’unica superpotenza regionale.

La vendita di aerei tecnologicamente avanzati come gli F35, l’accesso ai chip necessari per lo sviluppo dell’industria dell’Intelligenza Artificiale (dove l’Arabia Saudita vuole giocare un ruolo di primo piano grazie anche al lancio della società controllata dal PIF, Humain), la cooperazione in ambito nucleare civile (che si interseca proprio con l’AI, che richiede un’elevata quantità di energia a prezzi il più possibile contenuti), sono elementi che fino a poco fa si pensavano subordinati alla normalizzazione con Israele. Oggi è invece chiaro che una delle conseguenze della guerra a Gaza e nella regione è lo scorporo di questi temi dal dossier sui rapporti con lo Stato ebraico. La visita di MbS da Trump, perciò, delinea una relazione tra Washington e Riyad che continua ad approfondirsi, indipendentemente da ciò che avverrà con Israele.

 

Una tappa intermedia

Nonostante l’innegabile intesa tra il presidente americano e il principe ereditario saudita, anche nell’ambito delle relazioni tra Washington e Riyad non mancano le incognite: come dimostra il caso della consegna, mai avvenuta, degli F35 agli Emirati Arabi Uniti, dare un seguito concreto agli annunci e alle cifre iperboliche può essere più complicato di quanto si immagini e, comunque, richiede parecchio tempo. Ma soprattutto, per quanto importante, questo incontro tra Trump e MbS va considerato più come un passo intermedio che come un punto di arrivo. Riyad ha ben compreso, infatti, la necessità di impostare la relazione tra i due Paesi su basi istituzionali solide, che stiano ben al di riparo dai personalismi e dai cambiamenti di orientamento politico che possono verificarsi alla Casa Bianca. È questo il motivo per cui gli ordini esecutivi di emanazione presidenziale che promettono tutele securitarie non sono l’approdo finale desiderato dai sauditi. Questi ultimi, al contrario, vorrebbero vedere la partnership strategica con Washington cristallizzarsi in un apposito trattato soggetto all’approvazione del Congresso americano. Qui rischiano però di tornare a galla i problemi che vengono invece aggirati dall’azione presidenziale: difficilmente il Congresso sposerebbe l’approccio trumpiano che prevede una netta separazione tra la politica estera americana e le politiche interne del Paese partner (rispetto dei diritti umani e governo autoritario sarebbero argomento di discussione), mentre con ogni probabilità tornerebbe a porsi l’argomento della normalizzazione dei rapporti con Israele. Per questo passaggio servirà altro tempo. A soli 40 anni di età, MbS può permettersi di non avere fretta. In ambito economico e per la realizzazione dei progetti di Saudi Vision 2030, invece, il tempo è un elemento decisamente più limitato. Per questo Riyad ha bisogno di una regione che non sia costantemente piagata dai conflitti.

 

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