Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale

Ultimo aggiornamento: 19/03/2024 12:10:15

Prosegue l’azione militare degli israeliani nel sud della Striscia di Gaza. Mercoledì 14 febbraio le Forze di Difesa Israeliane (IDF) hanno colpito l’ospedale Nasser di Khan Younis, uno dei pochi rimasti ancora in funzione. Il premier Benjamin Netanyahu ha inoltre annunciato un’operazione di terra nella vicina Rafah, al confine con la frontiera egiziana, da lui definita come «l’ultimo bastione di Hamas». The New Arab nota tra gli altri che l’estensione del teatro bellico a Rafah rischia di causare l’ennesima tragedia umanitaria, senza considerare che la città, ultimo sovraffollato rifugio per centinaia di migliaia di palestinesi sfollati, versa in condizioni igienico-sanitarie catastrofiche: «in centinaia dormono sulle strade. Non hanno acqua pulita. Le malattie dilagano. Per molti la morte per inedia è vicina, in quanto si nutrono di semi per uccelli e di cibo avariato». Ishan Tahroor, analista del Washington Post, fa presente come sia ormai difficile ignorare il «coro di avvertimenti» composto da organizzazioni internazionali, associazioni e da un nutrito gruppo di leader occidentali, che invitano Israele a non procedere con l’attacco su Rafah. Su questo punto obietta il Jerusalem Post, che fa notare come da tempo in Occidente e nel mondo arabo si punti il dito a prescindere sull’operato degli israeliani: «è questa la narrazione alle marce e alle manifestazioni anti-Israele, resa popolare da molti studenti e accademici e da molte associazioni pro-Palestina. È una narrazione che sta influenzando il modo in cui molti governi percepiscono e reagiscono al conflitto. Sta contaminando la visione dell’alleato più solido di Israele, l’amministrazione Biden, e sta dominando le discussioni, le decisioni e le azioni di diversi attori internazionali, incluse le Nazioni Unite […]. Le iniziative israeliane volte a incoraggiare i civili a lasciare le zone di guerra vengono trasfigurate come crimini di guerra, e non sono riconosciute come dei tentativi di minimizzare le perdite civili. Israele è dannato, qualunque cosa faccia».  All’interno di questo contesto va inserita anche la tensione diplomatica tra la Santa Sede e Israele: l'ambasciata di quest’ultimo in Vaticano ha infatti definito come “deplorevoli” (poi modificate in “sfortunate”) le affermazioni del segretario di Stato della Santa Sede Pietro Parolin, che aveva definito l’attacco israeliano come “sproporzionato” in quanto ha provocato a Gaza una “carneficina”.

 

Su Haaretz, Anshel Pfeffer propone una lettura diversa. Secondo il biografo di Netanyahu l’operazione su Rafah è tutt’altro che imminente. La presenza di soldati israeliani nella Striscia di Gaza è infatti ai minimi degli ultimi tre mesi e sul terreno non ci sarebbe traccia di movimenti militari che segnalino l’inizio dell’attacco. Piuttosto, il primo ministro israeliano starebbe cercando di veicolare il messaggio di essere l’unico vero fautore della “vittoria totale”, a differenza di alcuni membri del governo come Gantz e Eisenkot che sembrano «troppo esitanti, disfattisti, troppo concentrati su un debole accordo per il rilascio degli ostaggi».      

 

La preparazione di una nuova offensiva ha fatto arenare ancora una volta i negoziati tra Israele, Hamas, Egitto e Qatar tenutisi al Cairo in merito all’approvazione di una tregua e al rilascio degli ostaggi. Infine, Netanyahu ha respinto la proposta di pace elaborata da Stati Uniti e Arabia Saudita, fondata sulla “soluzione a due Stati”, definendola una «enorme ricompensa» per Hamas. Che a Gaza la situazione sia critica è dimostrato anche dal fatto che le autorità egiziane, come riporta un’esclusiva del Wall Street Journal, stiano recintando un’area di circa venti chilometri quadrati nel Sinai, in grado di accogliere secondo le prime stime circa 50-60,000 sfollati palestinesi.    

 

Oltre a Gaza, Israele sta aumentando il suo impegno bellico anche sul fronte libanese. Mercoledì 14 febbraio, un attacco missilistico di Hezbollah sulla base militare israeliana di Safad ha provocato la morte di un soldato e il ferimento di altri otto. Lo Stato ebraico ha subito reagito, compiendo una serie di raid sui territori meridionali del Libano. Le vittime sono almeno dieci, di cui otto nella città di Nabatiye: per il Libano si tratta dell’attacco più grave dall’inizio dell’operazione “Diluvio al-Aqsa”. Come osserva L’Orient-Le Jour, è vero che Nabatiye «è uno dei feudi di Hezbollah» ma il centro urbano si trova al di là del fiume Litani, ossia in una zona che non era stata interessata prima d’ora da attacchi così intensi: «è chiaro come Israele stia cercando di modificare le regole di ingaggio e di imporre una nuova equazione, estendendo il campo delle sue operazioni e prendendo di mira qualsiasi esponente di Hezbollah ovunque egli si trovi, senza nemmeno risparmiare i civili». In un discorso pronunciato il 16 febbraio, il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah, ha replicato con durezza, minacciando persino un’escalation armata («Israele pagherà il prezzo dei civili uccisi») e aggiungendo che i missili del suo movimento sono in grado di colpire Eilat, città israeliana sul Mar Rosso.

 

Erdoğan torna in Egitto dopo dodici anni

 

Era il 2012 quando il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan fece la sua ultima visita ufficiale in Egitto, incontrando l’allora presidente della repubblica Mohammed Morsi, membro della Fratellanza Musulmana e vicino alla Turchia. L’anno successivo un colpo di Stato dei militari guidato dal generale Abdelfattah al-Sisi destituì Morsi, causando la brusca interruzione delle relazioni diplomatiche tra il Cairo e Ankara. Dopo anni di gelo i due Paesi hanno ripreso gradualmente i contatti, culminati mercoledì 14 febbraio con la visita di Erdoğan al Cairo (che la testata turca Daily Sabah già lunedì scorso aveva definito un “punto di svolta”) con l’obiettivo di discutere delicati dossier: la Libia, l’accordo sulla vendita dei droni e naturalmente la crisi palestinese. Il quotidiano israeliano Haaretz commenta con scetticismo il riavvicinamento turco-egiziano: nonostante il tappeto rosso steso, le strette di mano e i convenevoli di rito, «al-Sisi non ha alcuna intenzione di permettere che la Turchia partecipi ai negoziati in un momento in cui egli stesso è in competizione con il Qatar sulla gestione dei colloqui con Hamas al fine di arrivare a un accordo». Senza contare che la crisi di Gaza non ha lo stesso peso per i due leader: «se per Erdoğan, affrontare il “problema palestinese” ha a che vedere con l’ideologia, i valori e la morale […] per al-Sisi è una minaccia tangibile, quasi esistenziale, nonché una questione diplomatica che definisce la sua postura di leader regionale e, al contempo, anche internazionale». « Il simbolismo della data fa sorridere» scrive Clara Hage su L’Orient-Le Jour: la convergenza di interessi tra i due Paesi e la crisi di Gaza hanno convinto il presidente turco a «seppellire l’ascia di guerra» e riappacificarsi con al-Sisi.     

 

L’Indonesia cambia presidente…nel segno della continuità [a cura di Claudio Fontana]

 

Dopo India e Stati Uniti, l’Indonesia è la terza più grande democrazia del mondo, nonché il più popoloso Stato a maggioranza islamica. Il 14 febbraio, più di 204 milioni di persone sono state chiamate alle urne per eleggere il successore di Joko Widodo (detto Jokowi), i membri del parlamento e rinnovare i consigli provinciali. Se a uno sguardo superficiale le elezioni indonesiane (e il Paese asiatico sé) ci appaiono distanti e poco importanti, la realtà di questi anni insegna il contrario. Membro del G20, situata in una regione strategica di connessione tra l’Oceano Indiano e quello Pacifico, principale fornitore di alcune delle materie prime fondamentali per la crescente industria dell’auto elettrica, l’Indonesia è stata chiamata a una tornata elettorale che secondo alcuni osservatori potrebbe cambiarne il volto.

 

Grazie soprattutto alla spinta impressa nella costruzione di infrastrutture e al successo nell’attrarre investimenti stranieri, il presidente uscente Jokowi mantiene una popolarità elevatissima. Ma dopo due mandati consecutivi non ha potuto ricandidarsi e così le elezioni hanno visto competere Prabowo Subianto, Anies Baswedan e Ganjar Pranowo. Quest’ultimo è membro del partito PDI-P di cui fa parte anche Jokowi, il quale però ha scelto di sostenere l’ex avversario Prabowo.

 

Nel pubblicare i dati del «conteggio rapido» dei voti, il Jakarta Post ha sottolineato che, a differenza di quanto alcuni si aspettavano, non c’è stata partita: per Prabowo «la terza volta è stata davvero quella buona». Quello del 2024 è infatti il suo terzo tentativo di accedere alla massima carica dello Stato. Proprio qui risiede una delle particolarità di queste elezioni: la vittoria del candidato due volte sconfitto da Jokowi è avvenuta all’insegna della «continuità». Ciò si deve al fatto che dopo averlo sconfitto, Jokowi ha nominato il rivale suo ministro della Difesa, mentre Gibran, figlio del presidente uscente, si è candidato come vicepresidente di Prabowo. I primi dati non ufficiali parlano di una vittoria inequivocabile del favoritissimo Prabowo, che avrebbe ottenuto una percentuale di voti compresa tra il 57 e il 59%, sufficienti per evitare il ballottaggio (è inoltre necessario che il candidato raggiunga almeno il 20% dei voti in ciascuna provincia indonesiana).

 

Da un lato, dunque, c’è la scelta di continuare il programma (soprattutto economico) della precedente amministrazione, dall’altro, osservano diversi analisti, c’è la preoccupazione per lo stato di salute della democrazia indonesiana. Un’inquietudine che si deve sia ad alcune scelte di Jokowi, come quella di modificare una legge per permettere la candidatura del figlio, il tutto con il consenso della Corte costituzionale presieduta  dal cognato, sia alla figura stessa di Prabowo Subianto. Questi è stato infatti capo delle forze speciali durante il regime dittatoriale di Suharto (terminato nel 1998 con la transizione alla democrazia del Paese) ed è accusato di violazioni dei diritti umani, tra cui la sparizione di alcuni attivisti pro-democrazia tra il 1997 e il 1998 (alcuni sono morti, ma 13 restano ancora ufficialmente dispersi). Inoltre, Prabowo ha chiesto la reintroduzione della Costituzione del 1945, ciò che «rimuoverebbe i controlli sul potere presidenziale e abolirebbe l’elezione diretta» del presidente. Per questo, ha scritto Gordon LaForge (New America) sul New York Times, c’è il timore che Prabowo «riporti l’Indonesia verso l’autocrazia». Tuttavia, un peso decisivo nelle elezioni l’hanno sicuramente giocato i giovani: più della metà dell’elettorato infatti ha meno di 40 anni e secondo l’Economist «non conoscono o non sono interessati al passato» dell’ex generale. Inoltre i giovani indonesiani trascorrono molto tempo su TikTok (29 ore al mese in media) e Prabowo ha radicalmente cambiato la sua strategia comunicativa per fornire un’immagine divertente e rassicurante su questa piattaforma. Se durante la campagna del 2014 «l’ex generale arrivava in elicottero e ispezionava a cavallo una guardia d’onore» in stile marziale, dieci anni dopo la scelta è quella di presentarsi come un nonno, «che balla e manda baci alle folle adoranti», ha osservato il Financial Times.

 

I giovani di TikTok «riducono le elezioni a meme, canzoni e balletti», sostiene sull’Economist Rustika Herlambang (Indonesia Indicator): «una cattiva notizia per la democrazia indonesiana, in regresso [già] sotto Jokowi», ha sentenziato il settimanale inglese. Sebbene «alcuni pesi e contrappesi siano stati erosi» durante gli ultimi due mandati, secondo Ben Bland (direttore dell’Asia-Pacific Program di Chatham House) la democrazia indonesiana resta «resiliente: una società civile vivace, organi di stampa investigativi e un sistema decentralizzato aiuteranno a contenere il potere del presidente». «Non somiglierà alla visione occidentale di una democrazia liberale, ma la battaglia per definire il futuro del suo sistema politico non finirà dopo le elezioni» del 2024, ha scritto Bland. Anche perché, mentre alle elezioni presidenziali Prabowo sembra aver vinto con ampio margine, in parlamento il suo partito si ferma attorno al 13% delle preferenze, ciò che costringerà il nuovo presidente a formare un’ampia coalizione di governo.

 

In politica estera è difficile che si verifichino cambiamenti radicali: nonostante Prabowo incarni una posizione nazionalista e populista più marcata rispetto a Jokowi (si pensi all’impegno a spendere più di 29 miliardi di dollari per garantire pasti e latte gratuiti a tutti gli alunni e alla contemporanea promessa di ridurre le tasse), e abbia criticato l’Occidente per la sua retorica ipocrita su democrazia e diritti umani, è probabile che il neo-presidente si atterrà alla storica posizione di non-allineamento dell’Indonesia, si legge su Responsible Statecraft. Economicamente, oggi Giakarta non può fare a meno di Pechino, che è diventato il più importante partner commerciale dell’arcipelago e uno dei più importanti fornitori di investimenti esteri (di cui gran parte nei settori metallurgici e minerari, nichel in particolare – qui i dati). Anche alla guida di Prabowo, dunque, l’Indonesia cercherà di mantenere un clima economico positivo nei confronti della Cina, cercando al contempo di fare affidamento sugli Stati Uniti per contenere le ambizioni territoriali del gigante asiatico nel Mar Cinese Meridionale.

 

Pakistan: la vittoria dal carcere di Imran Khan [a cura di Mauro Primavera]

 

Dopo una campagna elettorale costellata da tensioni politiche, procedimenti giudiziari e crisi economica, le elezioni generali in Pakistan dell’8 febbraio hanno assegnato la vittoria ai candidati “indipendenti”, ma in realtà legati all’ex primo ministro Imran Khan, leader di Pakistan Tehreek-e-Insaf (PTI) e attualmente detenuto in carcere. Secondo posto per la Pakistan Muslim League (Nawaz) di Nawaz Sharif, seguita dal Partito Popolare del Pakistan (PPP) di Bilawar Bhutto Zardari. Nessuna formazione politica ha però raggiunto la maggioranza assoluta necessaria per la formazione di un governo monocolore.

 

La stampa pachistana descrive l’ambivalenza che ha contraddistinto l’appuntamento elettorale. The Nation sottolinea il clima di tensione che ha accompagnato il voto, talvolta degenerato in episodi di violenza, e i sospetti sulle irregolarità e i brogli durante le votazioni. Soprattutto, rimprovera i politici e l’elettorato di aver perso di vista il vero obiettivo dell’appuntamento: «ciò per cui devono lottare è il bene del Paese e non le loro carriere personali: il desiderio di vittoria e le demonizzazioni dell’altro hanno preso il sopravvento. Il clima è rovente e il vittimismo si sta spargendo a macchia d’olio lungo tutto l’arco politico». Per il The Express Tribune, l’8 febbraio, giorno in cui si sono aperte le urne, è un nuovo 1947, anno di nascita dello Sato pachistano: «c’è qualcosa di nuovo. Negli ultimi due anni le persone sono state percosse, le loro voci silenziate. Le loro opinioni non erano sufficientemente halal per essere espresse. È stato detto loro di accettare un regime che disprezzavano completamente. Dal quando è stato deposto Imran Khan, vivere in Pakistan era come stare in una pentola a pressione. Al popolo rimaneva solo un modo per esprimere la propria frustrazione: votare. E lo ha fatto. È stata la madre di tutti i voti. Per gli americani votare è come i bambini che vanno a scuola. Per i pachistani è stato come guardare il prossimo episodio della loro serie tv preferita. La stavano aspettando disperatamente».    

 

La stampa internazionale sottolinea l’eccezionalità del risultato per la formazione di Imran Khan, che dal carcere è stato in grado di condurre con insperato successo la campagna elettorale. Per Foreign Policy, la strategia dell’ex-primo ministro è stata quella di rivolgersi ai giovani puntando sulle riforme sociali e facendo leva sui fallimenti delle precedenti coalizioni di governo del PPP e di Nawaz, incapaci di arrestare la crisi economica e di frenare la spirale inflazionistica. Infine, la carismatica figura di Khan, divenuta simbolo dell’ingiustizia del Paese, ha certamente contribuito all’ottimo risultato delle urne. Per il New York Times la vittoria di Khan ha innescato una crisi politica nel sistema politico del Paese e ha umiliato la potente classe militare, che aveva invece sostenuto Nawaz Sharif. Ma sono molte le sfide che attendono il PTI, prima fra tutte la reazione dell’establishment militare. E infatti «la democrazia pachistana – commenta il quotidiano francese Le Monde – ha le sue proprie leggi: i perdenti sono i vincitori. Battuto alle urne dai candidati di Khan, il clan Sherif e Bhutto si appresta a ritornare al potere», grazie a un accordo stretto martedì 15 febbraio con altri sei partiti che dovrebbe assicurare loro una solida maggioranza. Tuttavia, il futuro capo del governo non sarà il settantaquattrenne Nawaz Sharif, che ha preferito lasciare l’incarico al fratello Shehbaz: «Soprannominato “il leone del Punjab”, Sharif ha perduto il suo spirito battagliero. È uscito indebolito dalla campagna, arrivando secondo dietro a Imran Khan, nonostante la sproporzione dei mezzi a sua disposizione. Non c’è dubbio che ha calcolato il rischio di prendere le redini di un Paese sull’orlo del baratro. Governerà nell’ombra».   

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