Una settimana di notizie e analisi dal Medio Oriente e dal mondo musulmano

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:59:47

Sabato scorso l’Arabia Saudita ha subito due attacchi contro gli importanti impianti petroliferi di Abqaiq e Khurais. Diversi serbatoi di stoccaggio e alcune apparecchiature di lavorazione del greggio sono state pesantemente danneggiate, soprattutto ad Abqaiq. A colpire gli impianti sarebbero stati droni o missili teleguidati che avrebbero impattato contro 17 strutture, causando una riduzione nella produzione stimata in 5.7 milioni di barili di petrolio e un conseguente aumento del prezzo del greggio del 20%, proprio quando la compagnia petrolifera saudita Aramco stava per quotarsi in borsa. Le conseguenze economico-finanziarie e securitarie sono state numerose, ma sulla vicenda restano ancora alcuni interrogativi, primo fra tutti chi ha lanciato l’attacco.

 

I primi ad aver rivendicato l’attacco sono stati gli huthi. Il New York Times ha analizzato le foto satellitari degli impianti per capire quanto questa rivendicazione fosse attendibile. Il quotidiano americano è giunto così a tre conclusioni: l’attacco supera in complessità qualunque tentativo precedente da parte dei ribelli yemeniti, ma, come scrive Eleonora Ardemagni per ISPI, il coordinamento – più tattico che strategico – fra huthi, Iran e altri proxies di Teheran è in crescita; le immagini non confermano né smentiscono la possibilità che gli attacchi siano stati lanciati da altri attori; non vi sono certezze circa le armi utilizzate, anche se alcuni ricercatori parlano di resti di un Quds 1, un drone già utilizzato dagli huthi, ma che non ha una gittata tale da raggiungere Abqaiq dallo Yemen.

 

Di fronte all’incertezza sulle responsabilità, Foreign Policy ha dedicato un articolo alle possibili menti dietro l’attacco. Oltre agli huthi, i sospetti ricadono su altri tre attori: gruppi filo-huthi attivi in Arabia Saudita, proxies iraniani in Iraq o direttamente l’Iran. Nonostante un’azione del genere esca dal tipico modus operandi di Teheran, più incline al ricorso a gruppi affiliati in modo da non essere direttamente imputabile, l’attacco, scrive Roberto Iannuzzi su Affarinternazionali, «sarebbe una risposta indiretta nei confronti di quello che è percepito da Teheran come un unico schieramento costituito da Washington, Tel Aviv, Riad e Abu Dhabi». E nella giornata di mercoledì, il portavoce dell’esercito saudita Turki al-Malki ha mostrato i resti dei droni sottolineando come arrivassero da nord e puntando il dito contro l’Iran.

 

L’Arabia Saudita sembra vulnerabile a questi attacchi contro alcune infrastrutture strategicamente rilevanti. Annalisa Perteghella ha analizzato i potenziali obiettivi sensibili (infrastrutture petrolifere, porti, impianti di desalinizzazione, reti di trasmissione elettrica…), notando come l’Iran possa avvalersi di numerosi strumenti per lanciare un’offensiva asimmetrica, grazie al ricco arsenale missilistico, alle avanzate competenze in campo cyber e all’unica flotta sottomarina della regione.

 

Di fronte a questi rischi, l’Arabia Saudita, che ha fra le spese militari più alte del mondo, può comunque avvalersi del sostegno americano. Eppure, il Segretario di Stato americano Mike Pompeo, che è stato fra i primi a indicare Teheran come responsabile degli attacchi, ha parlato di “risoluzione pacifica” della crisi. La risposta americana a quanto avvenuto – qualunque essa sia – rappresenta un momento cruciale per il Medio Oriente, come nota Steven Cook su Foreign Policy. Da sempre il greggio saudita ha orientato le politiche di Washington nel Golfo e, conclude Cook, «se Trump non risponderà militarmente, gli Stati Uniti dovrebbero semplicemente andarsene dalla regione». Cinzia Bianco su Formiche sottolinea invece come la strategia trumpiana di disimpegno militare rende difficile un attacco contro Teheran. Si entra così in uno stallo strategico, nonostante le crescenti pressioni di Riyadh sulla Casa Bianca affinché intervenga direttamente.

 

Le difficoltà del Libano

 

Il Libano sta attraversando una fase delicata, in cui i rischi si assestano a diversi livelli: economico, sociale, securitario e politico. Il Carnegie ha dedicato un approfondimento alle difficoltà economiche libanesi e alla ricaduta delle politiche economiche degli ultimi 25 anni sulla popolazione. L’analisi si concentra principalmente sulla crescita smisurata del debito pubblico alla fine della guerra civile. La causa principale è da trovarsi nelle spese sconsiderate del governo di Beirut, che non si sono però tradotte in misure socialmente efficaci. In particolare sono due gli aspetti che hanno impedito una redistribuzione equa delle ricchezze: gli alti tassi di interesse pagati dallo Stato ai creditori esteri e un gruppo ristretto di compratori di titoli statali, elemento che ha causato un innalzamento dei tassi per attrarre più investitori.

 

Come sottolineato da The New Humanitarian, un altro aspetto da considerare quando si parla di Libano è la questione dei rifugiati siriani, stimati in 1.5 milioni. Dato il numero così elevato, l’Alto Consiglio della Difesa libanese ha approvato nella scorsa primavera una norma che prevede il rimpatrio di chiunque sia entrato illegalmente nel Paese dopo il 24 aprile 2019. Si stima dunque che negli ultimi tre mesi circa 2800 siriani siano stati rimpatriati. Oltre a ciò, le autorità libanesi hanno adottato altre due misure: l’organizzazione dei cosiddetti “ritorni volontari” e il ricorso a strumenti normativi volti a disincentivare lo stanziamento in Libano. A monte di queste decisioni vi sarebbe la convinzione che la maggior parte dei siriani non stia più fuggendo dalla guerra, ora che il teatro degli scontri si è spostato a nord. D’altra parte, i rifugiati siriani, in parte per le deportazioni di conoscenti e in parte per il clima di sospetto e timore che si è creato, hanno optato per una soluzione estrema e rischiosa: entrare in clandestinità nella speranza di non essere rintracciati.

 

Infine è interessante osservare le difficoltà che sta attraversando Hezbollah, anche alla luce delle ultime schermaglie con Israele. Come ricostruito da World Politics Review, il gruppo sciita è paradossalmente uscito rafforzato regionalmente e indebolito internamente dal conflitto siriano. L’entrata in guerra di Hezbollah nel 2012 a sostegno del governo di Assad aveva due motivazioni principali: la difesa dei confini, volta a evitare una diffusione del conflitto, e la protezione del cosiddetto “Asse della Resistenza” mediorientale, che include l’Iran, Hamas, Hezbollah e, appunto, la Siria. Il coinvolgimento nel conflitto ha così reso il gruppo più pronto militarmente, più coeso e nell’immediato più ricco. D’altra parte, Hezbollah sta vivendo un momento di difficoltà in Libano per tre ragioni. Dal punto di vista economico, il gruppo risente della crisi libanese e delle rinnovate sanzioni americane dello scorso anno all’Iran, primo sponsor di Hezbollah. Dal punto di vista sociale, va registrato un certo malcontento nella base, soprattutto nelle aree tribali della valle della Beqa. Infine, la corruzione negli alti ranghi del gruppo non ha contribuito a riscattarne l’immagine, già messa in discussione dopo il supporto al presidente siriano.

 

Le elezioni in Tunisia

 

Nel primo turno delle elezioni presidenziali in Tunisia si sono affermati due outsider: il candidato indipendente Kais Saied, con il 18,4% dei voti ottenuti soprattutto tra i giovani e tra chi non ha avuto accesso a un’istruzione superiore, e il magnate delle telecomunicazioni Nabil Karoui, alla guida di Qalb Tunis con il 15.6%. Saied e Karoui sono stati in grado di superare Abdelfattah Mourou (12,9%), cofondatore e candidato del partito islamista di Ennahda, Abdelkrim Zbidi (10.7%), indipendente ma supportato dal laico Niida Tounes, e Youssef Chahed (7.4%), Premier dal 2016 e membro di Tahya Tounes.

 

Middle East Eye tratteggia il profilo di Saied, soprannominato “Robocop” per la voce ferma e quasi meccanica. Nonostante una campagna elettorale lontana dai media e un programma a tratti nebuloso, Saied si è imposto come figura anti-establishment, critico verso i partiti tradizionali e in prima linea contro la corruzione. Definito “rivoluzionario” per l’idea di riformare l’architettura politica tunisina in senso federalista, Saied è un conservatore, favorevole alla pena di morte, critico nei confronti dell’omosessualità, sfavorevole alla parità fra uomo e donna in materia di diritto ereditario e contrario al finanziamento straniero per i gruppi della società civile.

 

Saied sfiderà al ballottaggio (la cui data è ancora da definirsi) Nabil Karoui, definito il “Berlusconi tunisino” e attualmente in carcere per evasione fiscale e riciclaggio, dopo che per la terza volta un giudice ha rigettato l’istanza d’appello. I due candidati sono però accomunati dal fatto di presentarsi come anti-establishment e con un orientamento populista, mettendo così in luce il distaccamento della popolazione dai partiti tradizionali. Ma la frattura, nota Hamadi Redissi, non è solo fra popolo ed élite, ma anche all’interno di quello che l’islamologo definisce “la famiglia modernista”, in particolare tra i sostenitori di Zbidi e quelli di Chahed.

 

IN BREVE

 

Siria: i leader di Turchia, Russia e Iran hanno raggiunto un accordo per creare una commissione responsabile di redigere una nuova Costituzione. Essa dovrebbe includere rappresentanti del governo, membri dell’opposizione ed esponenti della società civile.

 

Iran: l’ANSA riporta la notizia che le donne potranno assistere alle partite di calcio negli stadi. Lo ha comunicato in una nota il Ministro dello sport Masoud Soltanifar.

 

Egitto: il Ministro dell’interno ha confermato che la polizia ha ucciso in due sparatorie nove membri delle Brigate Rivoluzionarie, un gruppo fuoriuscito dai Fratelli musulmani.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis

 

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