Una settimana di notizie e analisi dal Medio Oriente e dal mondo musulmano

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:59:17

Ali al-Omari, Awad al-Qarni e Salman al-‘Awda, tre figure di primo piano del panorama religioso e intellettuale saudita, verranno giustiziate nelle prossime settimane. È questa l’indiscrezione riportata da Middle East Eye, entrato in contatto con tre fonti governative anonime.

 

Ali al-Omari era figura di spicco del canale 4Shbab (definita la MTV saudita) ed era molto attivo su YouTube, piattaforma particolarmente diffusa fra i giovani del Regno. Si occupava di politica estera, ma anche della quotidianità e del ruolo della religione nello spazio pubblico. Arrestato nel settembre 2017, al-Omari è stato accusato da Riyadh di attività connesse al terrorismo.

 

Awad al-Qarni, clerico e intellettuale saudita di primo piano, era già stato multato e bloccato su Twitter dalle autorità saudite. Il suo arresto, avvenuto sempre nel settembre 2017 e sempre per una non meglio specificata attività di terrorismo, è riconducibile al ruolo che al-Qarni occupava nella Sahwa – il movimento di ibridazione fra il rigorismo wahhabita e l’attivismo dell’Islam politico – indicata da Mohammed Bin Salman come una delle fonti dell’estremismo.

 

Alla Sahwa appartiene anche Salman al-‘Awda (14 milioni di follower su Twitter e 7 milioni di fan su Facebook), noto per aver denunciato Osama Bin Laden, supportato le Primavere Arabe, criticato il blocco ai danni del Qatar e proposto un nuovo contratto sociale per l’Arabia Saudita. Imprigionato insieme ad al-Omari e al-Qarni, l’accusa verso il predicatore conta 37 capi di imputazione, legati ai suoi rapporti con i Fratelli musulmani e il Consiglio Europeo della Fatwa e della Ricerca e riconducibili a presunti legami con la famiglia regnante qatariota.

 

L’eventuale esecuzione arriva a poche settimane di distanza da quella di 37 sauditi, che secondo il sito filo-qatariota ha rappresentato una prova generale per testare la reazione della comunità internazionale, che però è stata pressocché nulla. L’assenza di una denuncia a livello mondiale e la necessità americana di non innervosire Riyadh in questo momento hanno così aperto le porte alla condanna di al-Omari, al-Qarni e al-‘Awda, di cui già in passato Jamal Khashoggi aveva scritto che «non sarà giustiziato in quanto estremista, ma perché è una figura moderata».

 

Gli attriti fra USA e Iran

 

L’Arabia Saudita, alleato chiave degli Stati Uniti, diventa ancora più importante in questa fase di tensione fra Washington e Teheran. Di fronte alla strategia di «massima pressione» esercitata dalla Casa Bianca, l’Iran ha reagito sospendendo parte dell’accordo sul nucleare, inviando missili in Iraq e minacciando la chiusura dello Stretto di Hormuz. Come scrive Fabio Caffio per IAI, la chiusura rappresenterebbe una violazione della legalità internazionale, ma nulla impedisce all’Iran di agire unilateralmente, come più volte minacciato negli anni ’90 e Duemila.

 

Quando però si parla di blocco della circolazione navale nello Stretto, bisogna considerare tre aspetti: la strategia di interdizione non si baserebbe sul dispiegamento della flotta iraniana, ma piuttosto sull’uso di mine navali, droni e piccole barche; il corridoio centrale dello Stretto attraversa anche acque omanite, che dunque giocherebbe un ruolo chiave; infine, da Hormuz passano circa 17 miliardi di barili di petrolio al giorno e una sua chiusura potrebbe danneggiare molti Paesi, mettendo a repentaglio la sicurezza garantita dall’energia di Teheran.

 

Ma cosa succede ora? Philip Gordon su Foreign Affairs prova a immaginare alcuni scenari futuri. La quasi impossibilità di raggiungere un nuovo accordo sul nucleare o di vedere l’Iran attendere in silenzio le elezioni americane dell’anno prossimo, fanno aumentare le preoccupazioni per una possibile escalation. Se da un lato Trump sembra voler evitare un confronto militare con la Repubblica islamica, dall’altro il Pentagono e alcuni consiglieri del Presidente spingono per un’ulteriore pressione sull’Iran, come dimostra un nuovo piano della Difesa che prevede la possibilità di 10.000 nuovi soldati in Medio Oriente (numero comunque inferiore ai 120.000 prospettati la settimana scorsa).

 

Questa ambiguità di Washington lascia aperte varie possibilità. Un’opzione, nota Ali Bakeer per The New Arab, è rappresentata da una mediazione gestita da uno Stato terzo. Più nello specifico, vengono citati tre Paesi: l’Iraq, che è più di tutti intenzionato a evitare un conflitto e che sta cercando di riaffermarsi regionalmente; il Qatar, che seppur marginalizzato nel Golfo è sede della più grande base militare americana in Medio Oriente e ha rafforzato i legami con l’Iran negli ultimi due anni; l’Oman, un Paese che ha fatto della mediazione un pilastro della propria politica.

 

Per Max Boot, una guerra con l’Iran rappresenterebbe di conseguenza «un pantano». Tutti gli armamenti di cui dispone Washington per entrare in controllo di aria, terra e mare sarebbero infatti più o meno facilmente neutralizzati da Teheran. L’Iran dispone di un avanzato sistema di difesa russo e il territorio iraniano, per conformazione e dimensione, è estremamente difficile da occupare. Secondo l’analista, servirebbero circa un milione e mezzo di soldati per vincere la resistenza iraniana.

 

L’Iran può inoltre contare su una vasta rete di attori non statali, la cui storia è ricostruita sul Washington Post. Il network, formatosi dopo il 1979 grazie al rifiuto condiviso verso un invasore straniero e cresciuto grazie all’invio di armi e denaro durante gli anni ’80 e ’90, ha beneficiato dell’11 settembre e delle Primavere Arabe, raggiungendo le 200.000 unità e permettendo all’Iran di estendersi nella regione. Nonostante la proiezione di potere, comunque ardua da sostenere nel lungo periodo, l’atteggiamento strategico degli ayatollah è sempre stato difensivo e orientato alla sopravvivenza del regime.

 

Fra gli elementi di cui può avvalersi l’Iran, è di notevole importanza la convergenza di interessi fra Teheran e Mosca. EurasiaReview ripercorre in modo dettagliato i rapporti fra i due Paesi, dalla guerra russo-persiana (1804-1813) all’invasione sovietica del 1941 fino alla collaborazione in ambito militare e nucleare degli anni ’90. La svolta però ha avuto luogo negli ultimi quindici anni, quando la Russia ha iniziato a mostrare un atteggiamento più assertivo in politica estera, trovando una sponda in Teheran su più fronti. Innanzitutto, vi è la volontà di contrastare la posizione egemonica degli Stati Uniti. L’Iran ha poi beneficiato di molti armamenti russi, garantendo a Mosca importanti opportunità commerciali. I Paesi condividono inoltre la preoccupazione verso certi gruppi terroristici, attivi nei Paesi confinanti del Medio Oriente e dell’Asia Centrale. Infine, va ricordato il ruolo chiave che hanno giocato – e che giocheranno – nel conflitto siriano a fianco di Bashar al-Assad.

 

Siria: fra soft e hard power

 

Nelle ultime due settimane, le forze governative siriane (SAA) hanno lanciato, proprio grazie all’aiuto dell’aviazione russa, un’offensiva per rientrare in controllo della zona a nord di Hama, attaccando le città di Kasr Nabouda, Kafranbel, Qala’at al-Madiq e Mala’at al-Numan, come ricostruito dall’Institute for the Study of War. Nella provincia di Idlib, la resistenza ha visto il coinvolgimento sia delle forze di opposizione dell’Esercito Siriano Libero (FSA) sia di Hay’at Tahrir al-Sham (HTS), quest’ultima equipaggiata – secondo alcune indiscrezioni – con armi anticarro di origine turca.

 

Il regime di Assad può dunque contare sul prezioso aiuto militare e sul riconoscimento politico da parte del Cremlino, come evidenziato dall’Economist. D’altra parte, molti attori internazionali hanno più volte denunciato il regime di Damasco per le violenze ai danni dei civili. È questo il caso di Human Rights Watch, che in un recente report ha raccontato le vessazioni subite dalla popolazione e portate avanti dall’intelligence siriana.

 

Ma anche alcuni governi hanno più volte rivolto l’attenzione a quanto succede al popolo siriano. In una nota del Dipartimento di Stato, gli Stati Uniti hanno infatti riportato alcuni attacchi chimici condotti dal regime, che avrebbe impiegato le cosiddette barrel bomb – ordigni semi-artigianali costruiti con barili riempiti di rottami di ferro – con aggiunta di cloro, al fine di creare problemi respiratori. Nella dichiarazione si legge inoltre di come la Russia abbia più volte cercato di negare il proprio coinvolgimento, puntando il dito sui White Helmets (la Difesa Civile Siriana invisa ad Assad) o su HTS, fornendo vaghi dettagli circa un possibile ruolo degli Stati Uniti nel formare parte del personale medico del gruppo qaedista.

 

La forza non è però l’unico strumento impiegato da Assad per rientrare in controllo dell’intero territorio. All’azione militare si affianca una sapiente politica di gestione e controllo della sfera religiosa, riassunta in questa intervista del Carnegie Endowment for International Peace.

 

La legge 31, promulgata nello scorso ottobre, allarga il campo di azione del Ministero per le donazioni religiose, che può ora influenzare i media e il settore educativo. Il Ministero ha anche la possibilità di concedere l’utilizzo di immobili e terreni a determinate figure religiose, rafforzando così un sistema clientelare. Infine, il conflitto ha visto la comparsa di alcuni nuovi predicatori molto influenti, cooptati poi dal regime, il quale ha attuato una politica di divide et impera, in modo da mantenere un certo controllo sulla sfera religiosa senza che i singoli predicatori diventino eccessivamente influenti.

 

IN BREVE

 

Francia: come riporta l’Indipendent, il Senato ha vietato alle madri di indossare il velo quando si recano a prendere i figli a scuola.

 

Egitto: un attentato, non ancora rivendicato, ha ferito 17 turisti. Secondo Limes, l’attacco al Cairo è un’arma a doppio taglio per al-Sisi. Da un lato, è la prova che serve un uomo forte che garantisca la sicurezza, ma dall’altro è una breccia nella corazza di invincibilità del Presidente.

 

Qatar: Doha non è stata invitata a due summit fra alcuni Paesi arabi sulla sicurezza. Gli incontri, in programma a fine maggio, sono stati organizzati in seguito agli attacchi a quattro petroliere nelle acque emiratine.

 

Turchia: le autorità turche hanno ordinato l’arresto di quasi 250 persone impiegate al Ministero degli esteri, accusate di essere parte della rete di Fetullah Gülen.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis