Una settimana di notizie e analisi dal Medio Oriente e dal mondo musulmano

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:01:24

Giovedì 5 marzo Putin ed Erdogan hanno stabilito un accordo di cessate il fuoco nel nordovest della Siria. Sebbene la Russia appoggi il governo siriano di Bashar al-Assad e la Turchia le forze ribelli, era necessario giungere a una tregua per evitare lo scontro diretto tra le due potenze, che hanno interesse a collaborare per gestire congiuntamente diversi scenari mediorientali. La BBC spiega le misure prese: oltre al cessate il fuoco, è prevista la creazione di un corridoio di sicurezza a nord e a sud dell’autostrada M4, che sarà anche oggetto di pattugliamenti congiunti. Al-Monitor riporta nel dettaglio la conversazione tra i due capi di Stato, sottolineando che l’accordo è destinato a essere temporaneo, come i precedenti. Secondo AP News, con questa tregua Putin ha garantito ad Assad il controllo strategico di un’arteria indispensabile per riprendere possesso del territorio siriano.

Nei giorni precedenti nei pressi di Idlib, ora quasi del tutto rasa al suolo, si era verificata un’escalation di violenza, proprio finalizzata, a conquistare territori da poter eventualmente utilizzare come scambio nelle trattative, scrive Haaretz. Da parte russa gli scontri sono stati giustificati dallo scarso impegno della Turchia nell’eliminare le sacche di terroristi presenti al confine, in violazione degli accordi di Sochi del 2018, spiega The National. Secondo il Guardian invece, da parte turca, l’apertura della frontiera con la Grecia dimostra le debolezza strategica di Erdogan, che, isolato dalla comunità internazionale, non ha a disposizione altre mosse se non quella del ricatto nei confronti dell’Europa.

Ad ogni modo, gli accordi tra Mosca e Ankara non menzionano la questione dei rifugiati che premono sulle porte d’Europa, e la Grecia ha deciso di sospendere il diritto d’asilo, presa di posizione avvallata anche dall’Unione europea. Secondo Le Monde, sebbene l’utilizzo dei profughi come arma politica non sia per nulla nuova, la risposta dell’UE dovrebbe comunque distinguersi dalla crisi del 2015, dando questa volta prova dei valori di cui si fa quotidianamente portatrice. Middle East Eye presenta un reportage fotografico dell’attuale situazione, anche se le condizione di vita sulle isole greche erano disumane già da tempo.

 

 

La lunga strada per la pace in Afghanistan

 

Sabato 29 febbraio il presidente Trump ha firmato un accordo bilaterale con i talebani in Afghanistan per porre fine a 18 anni di conflitto. L’accordo prevede il ritiro graduale delle forze americane e alleate a patto che i talebani non diano asilo ad al-Qaeda e altri gruppi terroristici. Limes definisce l’accordo “storico ma non definitivo”. The Guardian riporta la telefonata tra il presidente Trump e il capo dell’ufficio politico dei talebani Abdul Ghani Baradar, dando prova dello scarso coinvolgimento del governo afgano nelle trattative.  Nei giorni scorsi infatti avrebbero dovuto iniziare i colloqui inter-afgani, come spiega La Croix. Il gruppo dei talebani tuttavia ha rifiutato di sedersi al tavolo dei colloqui senza il rilascio di 5.000 prigionieri da parte del governo presieduto da Ashraf Ghani, questione cruciale per cominciare davvero il processo di pace. Di conseguenza, martedì i talebani hanno attaccato le forze governative, scatenando la pronta risposta di Washington, che ha affermato che tollererà solo un certo livello di violenza nel Paese.

La BBC propone una cronologia della guerra in Afghanistan, evidenziando come gli obiettivi strategici non siano mai stati chiari fin dall’inizio. Il New York Times cerca di spiegare come l’Afghanistan, a differenza dell’Iraq, sia diventata per gli americani la “guerra invisibile”, facendo un’analisi di vari fattori, tra cui il loro stesso lavoro giornalistico negli ultimi anni. L’Afghanistan infatti è apparso molto poco frequentemente sulle prime pagine del quotidiano, alimentando la percezione per gli americani di una guerra fastidiosa e da dimenticare.

 

 

Iran: tra virus e armi nucleari

 

L’Iran resta il Paese con il più alto numero di casi di Coronavirus in Medio Oriente, anche se la cifra esatta dei contagiati non si conosce. Se i decessi confermati sono 77, i contagiati dovrebbero essere almeno 4.000, ma secondo altre stime potrebbero essere molti di più, scrive il New York Times. Tra le notizie certe vi è la diffusione del virus tra alcuni alti funzionari del governo, tra cui il vicepresidente Eshaq Jahangiri. Confermata anche la morte di un membro del Consiglio del Discernimento avvenuta lunedì: Mohammad Mirmohammadi, aveva 71 anni ed era una figura molto vicina all’ayatollah Khamenei, scrive la CNN. Tra le misure che l’Iran ha deciso di adottare vi è il trasferimento agli arresti domiciliari di 54.000 prigionieri per evitare che il virus si diffonda negli ambienti affollati delle prigioni, anche se chi è stato condannato a più di cinque anni resterà in carcere.

Nel frattempo l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA) ha pubblicato un report secondo il quale l’Iran sta aumentando le scorte di uranio. Contestualmente, Teheran ha negato agli ispettori dell’AIEA l’accesso ad alcuni siti sospetti, afferma la BBC. In particolare, desta preoccupazione il fatto che l’Iran, da quando gli Stati Uniti si sono ritirati dall’accordo sul nucleare, abbia accumulato scorte di uranio superiori a 1000 kg, un quantitativo potenzialmente sufficiente per essere trasformato in un’arma atomica. Tuttavia, in base a quanto afferma il New York Times, quella della Repubblica islamica non è una reale minaccia, ma un modo per fare pressione sull’Europa e sugli Stati Uniti affinché revochino le sanzioni in ambito sanitario, dimostrando che la situazione riguardo al Coronavirus è più grave di quanto la si voglia presentare. Secondo Politico gli Stati Uniti  dovrebbero  collaborare con Teheran, come hanno già fatto in passato, perché la faccenda non riguarda più solo gli interessi strategici americani nella regione. La sicurezza dell’Iran in termini sanitari e una nuova possibile minaccia nucleare sono ormai questioni rilevanti a livello globale.

 

 

Il fallimento dell’ONU in Libia

 

Lunedì l’inviato speciale delle Nazioni Unite per la Libia Ghassan Salamé ha annunciato le proprie dimissioni tramite un tweet, in cui afferma di essersi ritirato per il livello di stress troppo elevato e i connessi rischi per la propria salute. È il sesto inviato speciale a rassegnare le dimissioni in nove anni di conflitto, sancendo l’ennesimo fallimento dell’Onu. ISPI ripercorre le tappe che hanno portato a questa decisione: dalla conferenza di Berlino a fine gennaio che sembrava aver stabilito un cessate il fuoco, a quella di Ginevra dalla quale alcuni partecipanti si sono ritirati. Un ulteriore fallimento si rintraccia nelle continue violazioni dell’embargo sulle armi: gli sponsor internazionali, tanto quelli che sostengono il governo di Fayez al-Serraj quanto quelli che favoriscono il generale Haftar, non hanno mai smesso di inviare armi alle fazioni libiche. Ed è proprio la presenza di così tanti attori esterni a far temere per un’ulteriore escalation del conflitto, scrive The National. Inoltre martedì Khalifa Haftar ha riaperto l’ambasciata della Libia a Damasco, tracciando un fil rouge tra la crisi libica e la guerra siriana, come spiega bene Formiche. In questo modo sono attori esterni come la Russia e la Turchia, attivi su più scenari, a decidere delle questioni mediorientali, mettendo definitivamente da parte i metodi di risoluzione delle controversie delle Nazioni Unite.

 

 

In breve

 

Dopo cinque mesi di proteste in Iraq non si riesce a trovare un accordo per formare un governo, spiega la BBC.

 

Secondo Reuters l’unica possibilità per il Libano di uscire dalla perdurante crisi economica è scendere a patti con il Fondo monetario internazionale.

 

La terza tornata elettorale in Israele è stata di nuovo vinta da Netanyahu, al quale però mancano tre seggi per formare la maggioranza, scrive Haaretz.

 

Le Monde riporta la notizia della morte del fondatore di Ansār al-Shariʿa, Abu Iyadh.

 

L’Egitto sta costruendo un muro al confine con la striscia di Gaza: Al-Monitor cerca di capire le ragioni di tale scelta.