Una settimana di notizie e analisi dal Medio Oriente e dal mondo musulmano

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:00:41

Da venerdì scorso l’Iran è attraversato da un’ondata di proteste. Come evidenziato dall’Independent, la causa scatenante è il taglio dei sussidi sul carburante, che provocano un aumento del prezzo al consumatore del 50% sui primi 60 litri acquistati mensilmente e del 300% sui successivi. Se da un lato la manovra garantisce un gettito di circa 7 miliardi di dollari, che compensa parzialmente le perdite legate alle sanzioni americane, dall’altra l’aumento dei prezzi colpisce direttamente la popolazione su un tema estremamente caro agli iraniani, senza che vengano toccati i privilegi di alcuni enti pubblici. Le proteste sono nate anche per un malcontento di lungo corso, riconducibile secondo Brookings a due macro-elementi: la difficile situazione socio-economica, in parte legata al regime sanzionatorio di Washington, e un diffuso senso di frustrazione, causato dalle promesse non mantenute dall’establishment. Per Riccardo Redaelli al momento non c’è una via d’uscita, a meno che l’Iran non riduca drasticamente le proprie ambizioni regionali; una mossa che Teheran al momento non può permettersi. Ancora più rischioso il futuro a lungo termine, quando, dice Redaelli, «il rischio è che ci sia una trasformazione dell’Iran da Repubblica teocratica a un sistema dominato dai para-militari, che sono molto più brutali dei religiosi».

 

Nonostante il Presidente Rouhani avesse dichiarato che «le persone hanno il diritto di protestare», Teheran ha reagito col pugno di ferro, prima chiudendo il Gran Bazaar della capitale e attivando un blocco totale di internet e poi prendendo di mira direttamente la popolazione. Secondo Amnesty, il bilancio provvisorio è di 106 vittime. Sul quotidiano Kayhan – riporta Avvenire – si legge che «la ribellione è punibile sia a livello legale che religioso con la pena di morte». La Guida suprema Ali Khamenei ha giustificato la repressione accusando i nemici esterni che fomentano la rivolta, ma già nella giornata di martedì il sito in farsi Khamenei.ir citato in inglese da Al-Monitorriportava le parole di Khamenei, secondo cui era da considerarsi «respinto il nemico nella recente guerra di sicurezza». In particolare, secondo la Guida iraniana, dietro le proteste vi sarebbero gli Stati Uniti, che negli stessi giorni hanno accolto benevolmente il levarsi del popolo iraniano.

 

La sfida a distanza fra Washington e Teheran si gioca anche su un altro fronte, quello iracheno, a colpi di spionaggio. Una fonte irachena anonima ha infatti inoltrato a The Interceptche a sua volta ha girato al New York Timesoltre 700 pagine di documenti dell’intelligence iraniana per mostrare «al mondo ciò che l’Iran sta facendo al mio Paese», dice la fonte. I testi mostrano come l’Iran sia a riuscito a penetrare e influenzare le alte sfere politiche e militari irachene, ben oltre quanto già si sapesse. La rete d’intelligence di Teheran su suolo iracheno, si evince dai documenti, ha lavorato su cinque aspetti principali: evitare un fallimento dello Stato iracheno, prevenire l’avanzata di milizie islamiste al confine iraniano, proteggere la popolazione sciita del Paese, bloccare ogni progetto indipendentista del Kurdistan e influenzare gli affari interni di Baghdad.

 

I rapporti rivelano inoltre come l'Iran abbia usato l'Iraq come terreno di confronto con gli Stati Uniti, uscendone spesso vincitore. Il peso della Repubblica Islamica nello Stato confinante è infatti in gran parte dovuto alle azioni intraprese da Washington. I report identificano tre momenti principali. In primo luogo, vi è il 2003, anno dell’invasione americana dell’Iraq e dell’avvio di quello che Joshua Landis aveva definito “grande rimescolamento” del Medio Oriente. L’Iran ha potuto da allora beneficiare delle conseguenze del processo di de-Baathificazione: la marginalizzazione della popolazione sunnita e la successiva guerra civile hanno infatti spinto gli sciiti iracheni a ricercare un protettore, identificato in Teheran. Un secondo momento è il 2011, quando gli Stati Uniti hanno ritirato le proprie truppe. Molti informatori della CIA e personale legato alle forze americane, trovatosi senza impiego, si sono così rivolti proprio all’Iran. Infine, vi sono gli anni 2014-2015, quando l’attenzione era rivolta all’ascesa del Califfato e alla conseguente presenza americana in crescita nella regione. Teheran ha così avvicinato molti ministri del nuovo governo di Haider al-Abadi, fra cui l’attuale Primo Ministro Adel Abdel Mahdi che avrebbe avuto una «relazione speciale» con l’Iran, spingendosi fino allo speaker del parlamento, il sunnita Salim al-Jabouri avvicinato direttamente dal Generale Qassem Soleimani, e al premier del Kurdistan, Nechervan Barzani.

 

Infine, i cablogrammi diffusi hanno gettato nuova luce sulla complessa politica interna del governo iraniano, spaccato fra gli elementi considerati più moderati vicini a Rouhani e quelli più radicali vicini alle milizie affiliate ai Guardiani della Rivoluzione.

 

I documenti segreti della Cina sugli uiguri

 

Il New York Times ha ottenuto alcuni documenti riservati della Cina sulle iniziative avviate da Pechino nei confronti degli uiguri, dalla distruzione dei luoghi di culto all’internamento forzato fino alle torture eseguite sulla popolazione civile; tutti elementi evidenziati anche da The New Arab. Una fonte anonima vicina al governo cinese ha infatti inviato al quotidiano americano 24 documenti fino ad ora riservati, per un totale di 403 pagine (161 di report sulla situazione nello Xinjiang, 102 di dichiarazioni di ufficiali, 96 di discorsi del Presidente Xi Jinping e 44 di investigazioni sui cosiddetti campi di rieducazione).

 

Quattro sono i principali elementi che emergono. In primo luogo, le preoccupazioni di Pechino si sono accentuate dopo l’ondata di terrorismo islamista del biennio 2014-2015. Le politiche di alcuni Paesi, soprattutto europei, incentrate sul principio “i diritti umani al di sopra della sicurezza” non hanno riscosso successo in Cina, che ha preferito una prevenzione repressiva. In secondo luogo, i campi di internamento nello Xinjiang si sono espansi rapidamente dopo la nomina a rappresentante del Partito Comunista nella regione nell'agosto 2016 di Chen Quanguo, fedelissimo di Xi Jinping. In terzo luogo, si evince che la repressione ha incontrato dubbi e resistenze da parte di funzionari locali, che temevano un inasprimento delle tensioni etniche e un rallentamento della crescita economica. Eppure, si legge nei documenti, il problema è stato risolto quando Chen Quanguo ha imposto una ristrutturazione degli apparati di sicurezza della regione, allontanando i funzionari non pienamente allineati alla visione ufficiale del Partito. Il quarto e ultimo aspetto riguarda direttamente il Presidente Xi Jinping, che ha gettato le basi per la repressione in una serie di discorsi tenuti in privato ai funzionari statali e ora messi in luce dai documenti riservati. Merita particolare attenzione il linguaggio usato da Xi Jinping, che invita apertamente a una «lotta totale contro il terrorismo, l'infiltrazione e il separatismo [che necessita] una risposta senza pietà». Quando nei documenti si parla di uiguri, spesso lo si fa in termini che dipingono la popolazione come malata. È quindi facile incontrare espressioni come «infettati dal virus del radicalismo», «infettati da pensieri malati», «pericolosamente deviati da un virus difficile da estirpare». Per avvalorare la tesi circa «la tossicità dell’estremismo religioso», il Presidente sostiene più volte che il radicalismo «è come prendere una droga, che fa perdere il senno, impazzire e che porta a fare qualsiasi cosa». In altri passaggi sorprendenti, Xi Jinping ha invece detto ai funzionari di non discriminare gli uiguri e di rispettare il loro diritto di culto, respingendo le proposte di chi voleva eliminare l'Islam in Cina.

 

I musulmani in Gran Bretagna al voto

 

A poco meno di un mese dalle elezioni in Gran Bretagna, il Time si concentra sul peso che i due milioni di musulmani d’oltremanica con diritto di voto potranno esercitare in questa tornata elettorale. Riprendendo i risultati di una ricerca del Muslim Council of Britain, viene evidenziato come il voto dei musulmani potrebbe effettivamente spostare gli equilibri, ad esempio nei collegi di Kensington, Dudley North e Richmond Park, dove il margine di vantaggio del partito di maggioranza è inferiore al numero di voti che potrebbe portare la comunità musulmana.

 

In realtà, il peso del voto dei musulmani dipende da due variabili. Innanzitutto, quando si parla di preferenze politiche, le nuove generazioni vengono definite value-voters: in pratica votano per il partito che meglio rappresenta i propri orientamenti, rifiutando qualsiasi pre-affiliazione o ogni forma di voto comunitario, come si registrava invece in passato. I temi su cui l’elettorato musulmano è più sensibile sono tre: Brexit, politiche per la famiglia e giustizia sociale. A ciò si aggiunge anche una certa attenzione alla libertà religiosa,  tematica cara anche all’elettorato cristiano. In questi giorni, infatti, l’ambasciatore del Regno Unito alle Nazioni Unite, Lord Ahmad di Wimbledon, ha dichiarato che il governo britannico «è profondamente preoccupato per l'ampiezza e la gravità delle violazioni del diritto alla libertà di religione» nel Regno Unito e nel mondo, con particolare attenzione alla condizione dei cristiani in Medio Oriente.

 

Un secondo aspetto da considerare è l’astensione. Molti musulmani mostrano infatti una certa disillusione nei confronti dei partiti tradizionali, in particolare verso i conservatori. Ciò è in parte riconducibile alla retorica anti-musulmana che in questi giorni è stata denunciata dalle colonne dell’Independent, citando un dossier della scorsa settimana che raccoglie tutte le dichiarazioni islamofobiche da parte di esponenti dei Tories. A generare un certo risentimento non sono però solo le esternazioni contro i musulmani, ma anche le misure adottate dal partito conservatore: sospendere i propri membri non risolverebbe il problema, ma si limiterebbe a nasconderlo.

 

IN BREVE

 

Libia: un drone italiano MQ-9A Reaper disarmato è stato abbattuto dalle forze del Generale Khalifa Haftar.

 

Israele: si va verso una terza elezione nell’arco di 12 mesi, dopo che Benny Gantz non è riuscito a formare un governo.

 

Sudan: come riporta Middle East Eye, si è tenuta a Khartoum la prima manifestazione a sostegno dell’ex Presidente Omar al-Bashir, a cui hanno preso parte molti islamisti sudanesi.

 

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