Una settimana di notizie e analisi dal Medio Oriente e dal mondo musulmano

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:01:37

La pandemia ha temporaneamente bloccato le proteste in quelle città del Nord Africa e del Medio Oriente (Algeri, Baghdad, Beirut) che dall’autunno del 2019 vedevano manifestanti occupare strade e piazze, scrive Chatham House. Ma questo non vuol dire che i movimenti di protesta siano del tutto scomparsi, al contrario, sono emerse nuove forme di solidarietà per portare avanti le proprie rivendicazioni, e con Covid-19, in realtà, vengono messe a nudo le fragilità economiche e l’elevato livello di disuguaglianze in diversi Paesi mediorientali. Non sarà forse la pandemia a determinare stravolgimenti geopolitici nella regione, eppure è innegabile che il virus stia offrendo ai movimenti di protesta la possibilità di allargare la propria base di supporto.

 

Anche per quanto riguarda la Tunisia ci si chiede se Covid-19, evidenziando le fragilità del sistema sanitario del Paese, possa provocare la nascita di un nuovo movimento di contestazione. Sebbene l’azione del governo sia stata tempestiva, restano ancora troppe differenze territoriali e le cause che hanno portato alle contestazioni del 2011 permangono. Si aggiunge però un’espansione del settore privato nella sanità che va a discapito di quello pubblico e questo, scrive Orient XXI, potrebbe far esplodere la situazione da un momento all’altro.

 

È possibile dare la stessa interpretazione a tutti i recenti movimenti di protesta del Medio Oriente o ci sono invece delle differenze nazionali? Esprit ha intervistato alcuni esperti, sottoponendo la domanda. Tutti gli interpellati concordano nell’inserire le proteste del 2019-2020 in una continuità con le Primavere arabe. Da un lato infatti le richieste ai governi sono infatti le medesime (trasparenza, soluzioni concrete alla disoccupazione, democrazia), dall’altro però si riscontrano elementi di innovazione rispetto al 2010-11: distanziamento dalla violenza, ampia partecipazione di giovani, giovanissimi e donne.

 

Agli occhi della cronaca sono balzati soprattutto gli ultimi avvenimenti in Libano, in particolare nella città di Tripoli, di cui scrive Le Monde. Qui tutti gli elementi per l’esplosione delle proteste erano già presenti, ed erano già stati descritti da Orient XXI, che si chiedeva che ruolo potesse avere il Coronavirus in questo contesto già economicamente fragile. La svalutazione della lira libanese, l’inflazione e le restrizioni bancarie hanno gettato un’ampia fetta della popolazione in condizioni di indigenza.

 

Come spiega il Washington Post, infatti, se le proteste del 2019 si erano concentrate contro la corruzione della classe politica, ora la frustrazione della popolazione si rivolge soprattutto all’incapacità del governo di mettere in atto le riforme richieste dal Fondo monetario internazionale per far fronte alla situazione finanziaria. Le proteste sono sfociate in atti violenti e in uno scontro aperto con l’esercito, e nella sera di lunedì un giovane di 26 anni, Fawwaz al-Samman, è rimasto ucciso.

 

A tutto ciò si è aggiunta la pandemia, con un focolaio che si è sviluppato nella popolazione maronita della frazione di Bsharri, prontamente isolata dal governo. Questo ha dato adito a nuove divisioni settarie, soprattutto in relazione all’influenza che ha l’Iran nel Paese tramite Hezbollah, che ha da subito agito contro la pandemia nelle aree abitate da sciiti.

 

I diritti umani in Arabia Saudita

 

Domenica 26 aprile Awad al Awad, capo della commissione governativa per i diritti umani dell’Arabia Saudita, ha annunciato l’abolizione della pena di morte per i crimini commessi da persone minorenni (tranne per i reati di terrorismo), riporta Al Jazeera. L’annuncio arriva a distanza di due giorni dalla decisione di abolire anche la pena della fustigazione, e a seguito di una valutazione di Amnesty International secondo la quale nel 2019 sono state condannate alla pena di morte 184 persone.

 

In realtà, spiega La Croix, la pena della flagellazione non è stata del tutto abolita nel Paese, che è invece ancora prevista per le pene hudūd, cioè le punizioni esplicitamente previste dal Corano per certi reati, mentre la fustigazione è abolita solo nell’ambito dei ta'zīr, cioè i reati di categoria inferiore, la cui condanna è lasciata al discrezione del singolo giudice. È evidente quindi la volontà di MbS di continuare a cercare di migliorare l’immagine dell’Arabia Saudita all’estero senza indispettire le ali più conservatrici all’interno del Regno.

 

Nei giorni scorsi il New York Times aveva inoltre riportato le richieste di aiuto di una principessa saudita, Basma bint Saud bin Abdulaziz Al Saud, detenuta senza alcuna accusa verificata. La sua richiesta di aiuto affidata a un tweet è stata poi cancellata, ma recentemente la principessa ha lanciato un altro appello, sempre tramite Twitter, in cui chiede di essere rilasciata almeno durante il Ramadan e per ricevere i trattamenti medici di cui ha bisogno. Per mancanza di cure mediche, infatti, è morto in prigione Abdallah al-Hamid, noto attivista saudita a favore di una maggiore libertà.

 

In parallelo si sono svolte le negoziazioni per l’acquisto della squadra calcistica inglese Newcastle, alla quale l’Arabia Saudita era interessata. Tuttavia le trattative sono andate incontro ad alcune difficoltà, proprio a causa della critica situazione dei diritti umani in Arabia Saudita e grazie al rapporto di Amnesty. Che quindi gli annunci dei giorni scorsi siano stati solo una mossa di facciata per portare a termine l’acquisto? Il dubbio è lecito, ed è quello che sostiene il Washington Post, che conclude dicendo che quella messa in atto non sia la strategia vincente, viste le difficoltà economiche in cui verte l’Arabia Saudita. La politica di diversificazione delle risorse ha necessariamente subito un arresto a causa del Coronavirus e, con i prezzi del petrolio ai minimi storici, i Paesi del Golfo si trovano a dover chiedere dei prestiti internazionali, scrive Middle East Eye.

 

Yemen: divisioni territoriali e tra alleati

 

Il Southern Transitional Council (STC) ha annunciato domenica che avrebbe istituito un proprio governo autonomo nella regione di Aden e altre province nel Sud dello Yemen, rompendo così l’accordo di novembre mediato dall’Arabia Saudita con il governo yemenita riconosciuto internazionalmente. Appoggiato dagli Emirati Arabi Uniti, inizialmente l’STC era alleato con il governo del presidente Abed Rabbo Mansur Hadi sostenuto dall’Arabia Saudita, scrive Middle East Eye, ma le parti hanno preso strade diverse lo scorso agosto. Entrambi lottano contro i ribelli Houthi nel Nord appoggiati dall’Iran, ma ora emerge la paura che il Paese possa di nuovo dividersi in due Stati separati, cioè tornare alla situazione antecedente al 1990.

 

Il Guardian mette in evidenza come da tempo l’STC stesse rivendicando una maggiore autonomia e libertà di azione, e spiega che l’accordo di novembre era nato proprio per permettere un’ampia partecipazione di tutte le parti in conflitto, mentre Riad ora è sempre più pronta a ritirarsi dalla guerra, se si riuscisse a trovare un accordo con gli Houthi. Una possibilità di riconciliazione tuttavia minata dalla recente mossa dell’STC.

 

Secondo Limes, però, il governo separatista non avrà vita lunga: senza l’appoggio dell’Arabia Saudita e in una regione oggi provata dal Coronavirus, dal colera e dalle inondazioni, isolati dalle altre province meridionali che hanno dichiarato la loro lealtà ad Hadi,  la mossa dell’STC, da cui anche gli EAU hanno preso le distanze, sembra voler solo esprimere un certo malcontento proprio nella gestione delle truppe da parte di Riad.

 

E come spiega il Washington Post, il punto di incontro tra il Southern Transitional Council e gli Emirati sta nella comune opposizione ad al-Islah, il partito islamista legato ai Fratelli musulmani a cui appartiene il presidente Hadi. Se Riad lo vede come parte integrante del tessuto sociale yemenita, Abu Dhabi l’ha bollato come organizzazione terroristica. Le differenze tra Emirati e Arabia Saudita riguardano più in generale il futuro dello Yemen: Al Jazeera scrive che, mentre Abu Dhabi sarebbe favorevole a una nuova divisione del Paese, l’Arabia Saudita ha invece bisogno di uno Stato debole sul quale esercitare la propria influenza.

 

Le difficoltà di Haftar in Libia

 

Lunedì il generale Khalifa Haftar ha detto che il suo esercito, il Libyan National Army (LNA) ha accettato il “mandato popolare” di governare il Paese, riferisce Reuters. Nel suo discorso trasmesso in televisione ha poi aggiunto che l’accordo di Skhirat del 2015 che, sotto l’egida dell’ONU, ha dato vita al Governo di accordo nazionale (GNA) era nullo e non valido, confermando quanto affermato dal Generale già nel 2017, scrive Middle East Eye.

 

Quello che sembra un golpe a tutti gli effetti, non ha però ricevuto l’approvazione delle istituzioni della Cirenaica, commenta ISPI, dimostrando in realtà le difficoltà in cui verte il generale, nonostante l’appoggio di Russia, Egitto e soprattutto delle armi degli Emirati Arabi Uniti, che come riporta il Financial Times settimana scorsa hanno violato l’embargo.

 

Negli ultimi mesi infatti, grazie all’appoggio militare della Turchia, il governo di Tripoli guidato da al-Serraj era riuscito a recuperare terreno, mentre Haftar cerca di riconquistare la capitale da più di un anno. È stato proprio l’ingresso massiccio di Ankara a mettere in difficoltà il generale che ora, secondo il Foglio, vuole ergersi come capo politico.

 

Le sconfitte sul piano militare hanno infine portato Haftar ad accettare un cessate il fuoco per il mese di Ramadan. Come riporta il Guardian, con le dichiarazioni di lunedì il generale deve aver oltrepassato la linea tracciata dai suoi sostenitori internazionali. La recente mossa di Haftar sarebbe allora un’implicita ammissione del fallimento dell’offensiva su Tripoli e l’unica soluzione rimasta sembra quella di rafforzare la propria posizione prima che sia troppo tardi.

 

In breve

 

In Siria si sono prima verificati scontri tra HTS e i pattugliamenti russo-turchi sulla M4. Lo scorso weekend si è poi verificato un attacco da parte di Israele contro le forze iraniane ed Hezbollah, e in seguito c’è stato un attentato nei pressi di Afrin, ma anche a Der’a la situazione rimane tesa.

 

L’Iran ha deciso di riaprire alcune moschee in base ai diversi tassi di contagio nelle varie regioni (Al Jazeera)

 

In Afghanistan non c’è ancora un accordo di governo, ma una prima costituzione dei talebani può darci un’idea di cosa aspettarci (RFE/RL)

 

A causa del crollo del prezzo del petrolio riemergono tensioni tra il Kurdistan iracheno (ricco di olio nero) e il governo centrale di Baghdad (Rudaw)