Una guida ai fatti della settimana in Medio Oriente e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale e quella araba

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 15:25:32

Vladimir Putin ha presentato la guerra in Ucraina come un conflitto per l’unità spirituale degli ortodossi russi e ucraini. Un aspetto meno noto, però, è che all’iniziativa bellica russa contribuisce anche una parte di musulmani (che, ricordiamo, sono circa il 15% della popolazione russa!), in particolare caucasici: a Grozny un ulema ha persino definito l’invasione dell’Ucraina un jihad. Al tempo stesso, non mancano i musulmani che combattono dalla parte di Kyiv, a partire da quelli locali, molti dei quali sono tatari. Il mufti dei musulmani ucraini Said Ismagilov ha invitato i suoi correligionari russi a non partecipare alle operazioni belliche, mentre ceceni anti-Kadyrov si sono uniti alla resistenza contro l’invasore. Come ha evidenziato un articolo del Washington Post, si tratta di un fenomeno che, insieme all’impegno degli ulema a sostegno dell’iniziativa putiniana, rischia di destabilizzare il Caucaso e l’Asia centrale.

 

Al fronte la guerra prosegue tra violenze sempre più gravi, e nei giorni scorsi, dopo la mediazione tentata dal primo ministro israeliano Naftali Bennett, le attenzioni (e le speranze) si sono momentaneamente spostate ad Antalya, in Turchia. Qui si sono riuniti giovedì, su iniziativa del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, il ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba e quello russo Sergej Lavrov, alla presenza di quello turco, Mevlüt Çavuşoğlu. L’incontro non ha però prodotto risultati concreti. Un’affermazione di Lavrov condensa l’andamento dei colloqui: «non abbiamo in programma di invadere altre nazioni, non abbiamo nemmeno invaso l’Ucraina».

 

Secondo Foreign Policy, il tentativo di Erdoğan è «tenere il più possibile la Turchia al di fuori del conflitto, massimizzando contemporaneamente il suo spazio di manovra». Ma man mano che la crisi umanitaria si fa più pesante, aumenta la pressione affinché il presidente turco scelga chiaramente una parte. E si fa più chiara una considerazione: per la sicurezza della Turchia è molto più conveniente un’Ucraina indipendente di un’Ucraina sotto la dominazione politico-militare russa. In questo scenario, proprio oggi il presidente americano Joe Biden e quello turco si sono sentiti telefonicamente. Il resoconto della chiamata (disponibile sul sito della Casa Bianca) evidenzia che si è trattato dello scambio «più positivo a memoria recente» tra Stati Uniti e Ankara, ha commentato Soner Cagaptay.

 

Fallita – per ora – la pista negoziale turca, torna a riproporsi Israele. Secondo quanto scritto da David Ignatius sul Washington Post, Naftali Bennett ha sottolineato la disponibilità di Israele a ospitare colloqui di pace sul suo territorio, incluso un eventuale incontro diretto tra Putin e Zelensky. La mediazione israeliana non ha finora prodotto nessuna svolta, e i funzionari americani sono cauti. Eppure, sottolinea Ignatius, un cambiamento seppur minimo l’ha prodotto: Ucraina e Russia avanzano le loro rivendicazioni sulla base di questioni territoriali e non più esistenziali; «Putin, in effetti, non sta più chiedendo la dissoluzione dell’Ucraina».

 

La guerra in Ucraina, però, non è solo una questione regionale. O quantomeno non lo sono le sue conseguenze. Quelle immediate purtroppo riguardano la vita di milioni di persone in Ucraina e nei Paesi confinanti. Tuttavia, ci sono almeno tre situazioni internazionali su cui il conflitto si fa sentire: il primo sono i negoziati in corso sul nucleare iraniano, il secondo i prezzi dell’energia e i rapporti tra Stati Uniti e monarchie del Golfo, il terzo gli effetti del forte rincaro dei beni alimentari.

 

L’accordo sul nucleare preso in “ostaggio”

 

Partiamo dall’accordo sul nucleare iraniano. Inizialmente i russi hanno precisato che il raggiungimento dell’accordo avrebbe rappresentato un vantaggio per tutti, e per questo motivo hanno escluso il tema dell’Ucraina nei negoziati. Più recentemente, però, la Russia ha cambiato posizione (anche a causa delle sanzioni occidentali nei confronti di Mosca) e ha richiesto che le sanzioni occidentali non vengano applicate nel caso dei rapporti commerciali con l’Iran. Come ha scritto Colum Lynch su Foreign Policy, le richieste avanzate da Mosca hanno avuto l’effetto (forse paradossale) di avvicinare gli Stati Uniti e l’Iran: oggi infatti, con la crisi dei prezzi del petrolio, tanto Washington quanto Teheran hanno interesse a che il greggio iraniano possa fluire nel mercato. Ma la Russia può tenere “in ostaggio” i negoziati? Tecnicamente non ha un potere di veto, ma il suo ruolo è determinante nell’attuazione dell’accordo: è Mosca infatti a gestire l’eccesso di uranio arricchito in Iran per evitare che possa essere utilizzato in ambito militare. Tuttavia, lo studioso Vali Nasr ha fatto notare che mentre sulle sanzioni il coltello dalla parte del manico ce l’ha l’Occidente, per quel che riguarda il programma nucleare è l’Iran ad avere l’ultima parola e dunque a determinare l’esito del negoziato. Nonostante le incertezze e i problemi, il capo della delegazione negoziale russa Michail Ulyanov ha dichiarato recentemente di non avere dubbi riguardo alla conclusione dell’accordo. Che però, notizia di venerdì mattina, è certamente quantomeno rinviato: Joseph Borrell ha infatti comunicato che i colloqui di Vienna necessitano di una pausa a causa di «fattori esterni», anche se un «testo finale è sostanzialmente pronto e sul tavolo». Il portavoce del ministero degli Affari Esteri iraniano, Saeed Khatibzadeh, pur senza menzionare direttamente la Russia, ha ribadito che «nessun fattore esterno potrà influenzare la nostra volontà comune di raggiungere un accordo collettivo». In fondo tutto si riduce a una scelta politica: l’Iran deve «decidere – ha affermato ancora Vali Nasr – quanto è importante l’accordo per il suo interesse nazionale, e se permetterà ai negoziati su cui ha investito così tanto e su cui ha costruito la sua politica economica ed estera di essere presi in ostaggio dalla Russia». Ma non sarà facile: «né il ritorno dell’Iran nel mercato del petrolio, né la risoluzione pacifica di un problema di sicurezza per l’Occidente in Medio Oriente, portano benefici al Cremlino», ha affermato Ali Vaez, ricercatore dell’International Crisis Group.

 

L’altro conflitto (quello per il prezzo del petrolio)

 

Capitolo petrolio. Dopo il divieto di importazione del petrolio russo emanato da Biden, il prezzo è ulteriormente salito e l’amministrazione americana sta tentando diverse strade per aumentare l’offerta presente sul mercato. Se Washington ha riscontrato un piccolo successo nei colloqui col Venezuela (!), è nel Golfo Persico che si decide la partita. Per questo Biden esercita pressioni su Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita affinché i due Paesi pongano fine alla cooperazione con la Russia e aumentino la produzione. Ma questa settimana Biden ha subito un duro colpo: Mohammed bin Salman e Mohammed bin Zayed si sono rifiutati di parlare al telefono con il presidente americano. Un vero smacco per l’amministrazione Biden. La lettura di quanto avvenuto non è però univoca: tutte le ultime mosse degli Emirati (di cui abbiamo parlato negli scorsi Focus), sembrano muoversi in direzione di una politica di “un passo avanti e due indietro”. Dopo la notizia del rifiuto di parlare con Biden, il potente ambasciatore a Washington Yousef al-Otaiba ha dichiarato al Financial Times che Abu Dhabi avrebbe incoraggiato i Paesi membri dell’OPEC ad aumentare la produzione di petrolio. Passo avanti. Peccato che subito dopo il ministro dell’Energia emiratino Suhail Al Mazrouei ha ribadito l’impegno degli Emirati al rispetto delle quote stabilite in seno all’OPEC+. Passo indietro. Che gioco stanno giocando i Paesi produttori? Si trovano in una posizione di forza e forse, ma è solo una nostra ipotesi, stanno cercando di spuntare dagli americani condizioni migliori prima di, infine, accontentarli. Nel frattempo, come evidenzia il Financial Times, Dubai si appresta a ricevere fondi e beni degli oligarchi in fuga dalle sanzioni.

 

Con questi prezzi come comprare il pane?

 

Veniamo alle materie prime alimentari. Il petrolio e il gas non sono infatti le uniche risorse il cui prezzo sta vertiginosamente aumentando: Russia e Ucraina sono i maggiori produttori mondiali di grano. Tra i Paesi più vulnerabili a queste variazioni vi sono senza dubbio Egitto e Tunisia. L’Egitto è il più grande importatore di grano al mondo e il 70% di queste importazioni arrivano proprio da Russia e Ucraina, una percentuale che espone a grandi rischi il popoloso Paese nordafricano. Non a caso Il Cairo ha deciso il blocco delle esportazioni di grano, farina, pasta, fagioli e lenticchie per almeno tre mesi, in modo da cercare di rafforzare le riserve strategiche cairote, scrive tra gli altri Mada Masr.

 

In Tunisia la dipendenza da Russia e Ucraina per l’approvvigionamento del grano è del 50% e la situazione non è certo più semplice: l’inflazione si fa pesantemente sentire già da tempo, perché la guerra in Ucraina arriva dopo che le catene di approvvigionamento sono state messe a dura prova da due anni di Covid. Il prezzo del grano è aumentato dell’80% da aprile 2020 a dicembre 2021 e solo nell’ultimo mese di un ulteriore del 44%, si legge sul sito del Carnegie Middle East Center. I guai non finiscono qui: come ha sottolineato Orient XXI il bilancio tunisino del 2022 si basa su una previsione di prezzo del petrolio pari a 75 dollari al barile ma, dopo aver toccato i 130, mentre scriviamo il prezzo si aggira intorno ai 110 dollari. Come se non bastasse, la situazione è peggiorata dagli effetti dei cambiamenti climatici, che rendono più difficile per questi Paesi produrre localmente. Uno scenario estremamente pericoloso. 

 

Come cambiano le relazioni tra Turchia e Israele

 

Prima che Kuleba e Lavrov si vedessero ad Antalya, un altro incontro diplomatico di alto livello si è svolto in Turchia: quello tra Erdoğan e il presidente israeliano Isaac Herzog. Le relazioni tra Israele e Turchia (che pure era stato nel 1949 il primo Paese a maggioranza islamica a riconoscere Israele) erano diventate problematiche soprattutto a partire dal biennio 2008-2010. La visita serve perciò a ristabilire un clima positivo tra le due nazioni. Nelle parole di Herzog: «non andremo d’accordo su tutto, ma proveremo a riavviare le nostre relazioni e costruirle in maniera pacata, attenta e con il mutuo rispetto tra i nostri Stati».

 

Secondo il Wall Street Journal, il miglioramento delle relazioni con un partner importante nel mondo musulmano, «uno che può essere un contrappeso ad un rivale comune, l’Iran» è un obiettivo importante per Israele. Il New York Times ha scritto che, considerando il ruolo piuttosto simbolico della presidenza in Israele, l’incontro con Erdoğan non prevedeva decisioni esecutive, ma allo stesso tempo il quotidiano americano ha sottolineato l’interesse della Turchia per il business del gas nel Mediterraneo. Prima dell’incontro, infatti, il presidente turco aveva nuovamente comunicato il suo appoggio all’ipotesi (di cui si parla da 20 anni, nota Reuters) di lavorare con Israele per portare in Europa il gas naturale del Mediterraneo Orientale.

 

Per Erdoğan si è trattato di un punto di svolta nelle relazioni tra i due Paesi, mentre in Israele, come si legge su Haaretz, sono più cauti. Anche al-Jazeera sottolinea che le differenze tra i due Paesi permangono, a cominciare dal trattamento riservato ai palestinesi e allo status di Gerusalemme. In fondo è stato lo stesso Herzog ad ammetterlo: dobbiamo sapere, ha affermato il presidente israeliano, «che non saremo d’accordo su tutto, questa è la natura delle relazioni [tra due Paesi] con un passato ricco come il nostro».

 

Rassegna della stampa araba, a cura di Chiara Pellegrino

Nuovi assetti geopolitici e doppi standard occidentali

 

Anche questa settimana i media arabi hanno parlato prevalentemente della guerra in Ucraina.

Il siriano Marwan Kabalan fa il punto per al-‘Arabī al-Jadīd sulle nuove alleanze geopolitiche che stanno nascendo nel mondo sulla scia del conflitto. La guerra ha portato alla luce la divergenza di interessi tra alcuni Stati arabi e l’Occidente. I Paesi del Golfo, sempre più vicini alla Russia e alla Cina, prendono le distanze dagli Stati Uniti. Emblematica l’astensione degli Emirati al Consiglio di Sicurezza dell’ONU sulla risoluzione di condanna all’azione russa e la decisione dell’Arabia Saudita di respingere le richieste statunitensi di aumentare la produzione di petrolio per frenarne i prezzi e compensarne l’eventuale carenza sui mercati. Anche il Pakistan ha preso le distanze dal suo ex alleato, gli Stati Uniti, rifiutandosi di condannare l’invasione russa. L’Iran, invece, ha «pugnalato alle spalle la Russia» e approfittato della crisi ucraina per costruire ponti con l’Occidente dicendosi disponibile a fornirgli il petrolio se vengono revocate le sanzioni connesse con il suo programma nucleare. In ogni caso, conclude Kabalan, per fare dei bilanci definitivi occorrerà attendere l’esito della guerra.

 

La celerità con cui l’Europa si è attivata in sostegno dell’Ucraina e la solidarietà e l’accoglienza riservata ai suoi profughi hanno stimolato abbondanti riflessioni sulla politica europea dei «doppi standard».

Il marocchino Mohamed Ahmed Bennis, sempre su al-‘Arabī al-Jadīd, ha accusato di ipocrisia l’Occidente, pronto a condannare l’invasione russa dell’Ucraina e imporre sanzioni a Mosca ma rimasto inerme di fronte all’intervento russo in Siria, celere nell’accogliere i «rifugiati bianchi» ma ostile verso i profughi arabi, asiatici e africani. Se l’Occidente è colpevole non significa però che il Medio Oriente sia esente da colpe. Nel mirino del giornalista sono finiti anche la sinistra, i nazionalisti e gli islamisti del mondo arabo, che hanno glorificato l’invasione russa dell’Ucraina considerandola «una correzione della storia e un passo coraggioso per contrastare l’invasione imperialista occidentale».

 

Di «doppi standard» ha parlato anche il politologo Samir Frangie sulla piattaforma libanese Megaphone in merito alle diverse politiche adottate dagli europei nei confronti dei «loro profughi» (gli ucraini) e dei «nostri profughi» (le vittime delle guerre nel mondo arabo). Il tema diventa qui l’occasione per riflettere sulle responsabilità dell’Occidente e del Medio Oriente. Agli arabi viene rimproverata, tra le righe, una visione distorta del mondo: essi tenderebbero infatti a guardare all’Occidente come al «depositario universale di criteri standard», dimenticando che anche questi Paesi, come del resto tutti i Paesi del mondo, hanno i loro interessi strategici da difendere e le loro priorità. Lo sbaglio, secondo Frangie, è trasformare la peculiarità storica dell’Occidente in una narrazione universale, facendola diventare l’unico criterio di valutazione del mondo. «A questo Occidente, scrive, noi domandiamo tutto e il contrario di tutto: da un lato, gli chiediamo di non interferire, dall’altro ci aspettiamo che intervenga per risolvere le crisi […] vestendo i panni del poliziotto del mondo».

 

Al-Quds al-‘Arabī ha ospitato un editoriale del politologo libanese Gilbert Achcar, in cui vengono denunciate le incoerenze di alcune sinistre arabe, che fanno le battaglie contro l’imperialismo americano ma sostengono al contempo l’imperialismo di Putin, ben peggiore del primo per la sua natura tirannica. L’autore elogia invece la coerenza dei partiti comunisti iracheno e sudanese, che hanno preso le distanze sia dalla Russia che dagli Stati Uniti.

 

Sul quotidiano emiratino al-‘Ayn al-Ikhbariyya, il politologo egiziano Nasr Mohamad Arif denuncia l’incapacità degli intellettuali, degli osservatori e in generale dei media arabi di produrre analisi ragionate sulla guerra in Ucraina. Essi tenderebbero infatti a 1) utilizzare in modo istintivo l’analisi politica per fare la guerra agli avversari; 2) appiattirsi sulle posizioni degli analisti occidentali, limitandosi semplicemente a tradurre ciò che viene pubblicato in Occidente; 3) trattare gli eventi in corso senza mai considerare i retroscena e gli avvenimenti storici precedenti, con il rischio di capovolgere i fatti; 4) analizzare il mondo a partire dalla storia araba, finendo per creare falsi paragoni (come quello tra Putin, Saddam Hassan e Muammar Gheddafi, che sarebbero condannati allo stesso destino per essersi mostrati ostili all’Occidente).

 

L’Arabia Saudita ha una legge sullo statuto personale

 

In Arabia Saudita questa settimana è stato fatto un altro piccolo passo sulla strada delle riforme previste dalla Vision 2030. Martedì il governo ha approvato la legge sullo statuto personale, che entrerà in vigore tra 90 giorni. La legge, promessa dal principe ereditario lo scorso anno, fissa l’età minima per il matrimonio a 18 anni, stabilisce che le spese per il sostentamento della moglie (cibo, alloggio, vestiti e beni di prima necessità) sono a carico del marito, fissa i casi in cui la donna può chiedere unilateralmente il divorzio e introduce il sistema dell’affidamento come strumento di tutela dei figli di genitori divorziati.

 

Erdogan ed Herzog si incontrano: gli islamisti storcono il naso

 

Un’altra notizia importante della settimana è la visita di Stato ad Ankara del presidente israeliano Herzog, il cui obiettivo è ricucire i rapporti bilaterali tra Israele e Turchia, in crisi da oltre dieci anni. Come riporta il quotidiano panarabo londinese (ma vicino al Qatar) al-Quds al-Arabī, questa notizia ha suscitato il malumore di molti ulema islamisti e dei palestinesi, che si sono sentiti traditi dal presidente turco. L’Unione mondiale degli Ulema di Doha, grande sostenitrice della causa palestinese, ha condannato l’incontro tra i due presidenti definendolo «un passo verso la normalizzazione della Turchia con l’occupante (Israele)» e lo stesso hanno fatto Hamas e il Jihad islamico palestinese, per i quali «ristabilire le relazioni con il nemico sulla base dell’interesse di questo o quello Stato è un tradimento di Gerusalemme e della Palestina». 

 

In breve

 

Lo Stato Islamico ha ufficializzato la nomina del suo nuovo leader. Si tratta di Abu Hasan al-Hashemi al-Qurashi (Al-Monitor).

 

Secondo il Washington Post sono centinaia i mercenari del gruppo Wagner che hanno raggiunto l’Africa occidentale e in particolare il Mali.

 

Per Marwan Safar Jalani (Atlantic Council) l’invasione dell’Ucraina da parte di Putin è stata possibile perché «il mondo ha dato il via libera a Putin in Siria».

 

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