L’editoriale del numero 32 di Oasis

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Ultimo aggiornamento: 10/10/2022 15:31:26

Questo numero di Oasis segna la conclusione di un percorso, quello di una rivista cartacea cominciata nel giugno 2004 a Venezia e che ha attraversato diciott’anni. Non so quanti lettori abbiano perseverato da quel primo incontro del Comitato Scientifico, uno almeno di sicuro c’è: chi scrive queste righe.

 

Attraverso lo strumento di una rivista di alta divulgazione, Oasis ha cercato di raccontare le società a maggioranza musulmana e le comunità cristiane che vi abitano. Ci siamo inoltrati in questo mondo certi di poche grandi cose, esplicitate dal Cardinal Scola nel suo primo editoriale: la capacità culturale della fede cristiana di leggere gli eventi secondo il principio vitale che la anima; l’inevitabilità e anzi la desiderabilità dell’incontro con i musulmani; la necessità, per questo incontro, di passare attraverso una seria conoscenza linguistica; la bontà della comunione come metodo; la priorità del faccia a faccia. Nel tempo decine di studiosi si sono uniti a noi, onorandoci della loro amicizia e facendoci parte delle loro riflessioni; nel tempo siamo cresciuti anche noi come capacità di analisi e di discernimento e abbiamo avvertito come sempre più urgente il compito di discernere alcune tendenze di lungo periodo, di passare dal puro fenomeno alle leggi che lo governano (Ibn Khaldūn), escludendo il rumore di fondo che, su questo come su ogni altro tema, è cresciuto vertiginosamente con la nuova rivoluzione tecnologica. Ora tutto questo patrimonio deve trovare – e in parte ha già cominciato a trovare – nuove forme.

 

Di colpi di scena il Medio Oriente in questi quasi due decenni ne ha riservati molti. Nei primi anni, a dire il vero, la situazione appariva piuttosto bloccata, ingessata in un autoritarismo poco promettente e nella vacuità di un discorso islamo-cristiano imposto dall’alto, stile Siria di Assad o Tunisia di Ben Ali. Poi di colpo, nel 2011, le rivoluzioni arabe. Rivoluzioni incompiute abbiamo scritto l’anno scorso, dissociandoci dal coro, sempre numeroso, dei “postfèti”, i profeti che parlano ex post. Le scosse telluriche sprigionatesi nelle piazze tra il 2010 e il 2011 hanno impresso al Medio Oriente un dinamismo fino a quel momento impensabile. Se tuttavia c’è stato un momento in cui è apparsa l’importanza della cultura, sono state paradossalmente proprio le Primavere arabe. Ciò che (finora) è mancato non è stato infatti il coraggio dei manifestanti, che hanno contato i loro morti, o l’attivismo sociale, ma una visione chiara su alcuni problemi di fondo: il rapporto tra religione e Stato, la riforma della società e dell’economia, la forma che l’Islam avrebbe dovuto assumere nella modernità, il suo aggiornamento, che Padre Georges Anawati invocava dalle pagine di Le Monde fin dal gennaio del 1982, quando l’ora del fondamentalismo batteva il suo pieno.

 

La proclamazione dello pseudo-califfato di ISIS nel giugno 2014, se da un lato ha smentito l’illusione che fosse possibile eludere questi problemi, dall’altro ha rappresentato uno shock che, stabilizzata in qualche modo la situazione militare, ha riproposto le domande di fondo: che cos’è l’Islam? Chi lo definisce? In che relazioni sta con il resto del mondo? Come interpreta e contiene la violenza presente nei suoi testi fondativi e nella storia delle sue origini? Sono le domande che ci hanno fatto compagnia in questi ultimi anni, dal numero 21 in avanti, significativamente intitolato “L’Islam al crocevia: tradizione, riforma, jihad” (2015). Un primo tentativo di risposta si trova nel documento sulla fratellanza umana sottoscritto nel febbraio 2019 da Papa Francesco e dallo shaykh di al-Azhar Ahmad al-Tayyeb, che enuncia alcuni principi pratici per una più proficua convivenza islamo-cristiana, a partire dalle rispettive fedi e secondo gli accenti propri di ciascuna di esse.

 

Il terzo passaggio è avvenuto quest’estate, con il ritiro americano dall’Afghanistan. Aldilà della fretta indecorosa con cui si è consumato, esso sancisce la conclusione del ciclo avviato nel 2001 con la guerra al terrore. Con il senno di poi, il numero sul post-Undici Settembre non avremmo dovuto tentarlo nel 2006 (numero 4, sicuramente prematuro): è questo che avete tra le mani. E naturalmente le cose sono andate in un modo piuttosto diverso da quanto ci si immaginava nel 2001. Non c’è stata nessuna rigenerazione messianica del mondo islamico, come annunciavano i partigiani della guerra in Iraq nel 2003. Non c’è stato neppure un vittorioso sollevamento antioccidentale, come speravano al-Qaeda e gli altri gruppi jihadisti, per cui l’attentato alle Torri Gemelle avrebbe dovuto avviare una campagna di liberazione del mondo musulmano. Semplicemente, il Medio Oriente si è logorato in vent’anni di guerra e terrorismo, in cui ci ha messo molto del suo, e nel 2021 è in genere più povero, meno diverso e più periferico di quanto non fosse nel 2001. Ci sono – per fortuna – le eccezioni, come il Golfo e il Marocco (sull’Arabia Saudita è presto per pronunciarsi), ma l’andamento generale è piuttosto chiaro, come enuncia in modo magistrale Ghassan Salamé nella conversazione a tutto campo che apre questo numero.

 

Dall’alto della sua pluridecennale esperienza, Salamé descrive la confusione che regna nel mondo arabo intorno alla parola democrazia, l’assoluta necessità di ricostruire gli Stati e le enormi difficoltà che si incontrano nel farlo (in Libia come in Libano); racconta anche dell’arretramento demografico e politico dell’Occidente, del suo universalismo che per la parte autentica (i diritti umani del 1948) continua ad affascinare, ma che nella sua componente avariata (le nuove generazioni di diritti) è una merce che ha francamente stufato il resto del mondo. E da ultimo arriva a porre la questione più decisiva: come difendere una concezione dinamica della cultura che non rinchiuda le persone entro gruppi rissosi in perenne rivendicazione dei loro diritti. Salamé vede e dice chiaramente il rischio che a essere esportata non sia la democrazia in Medio Oriente, ma una tā’ifiyya libanese a Washington, il che non è esattamente un buon auspicio, soprattutto se la messa in guardia proviene da un Paese dei Cedri in cui si cerca faticosamente di superarla (lo racconta l’articolo di Riccardo Paredi dedicato alle ultime elezioni studentesche).

 

Mentre gli Stati Uniti arrancano, la Cina guadagna terreno, come illustra Jonathan Fulton, tra i maggiori esperti di relazioni sino-arabe. In realtà, non esiste un’affinità elettiva tra Pechino e il mondo musulmano, ma la Cina fa breccia in Medio Oriente per due elementi: nessuna ingerenza sul piano valoriale e il fascino del più efficiente autoritarismo del pianeta, che sembra aver trovato la bacchetta magica per combinare sviluppo economico ed eliminazione di ogni forma di dissenso. Tuttavia, l’articolo di Harry Verhoeven documenta in modo impressionante il prossimo campo di battaglia in cui il progetto autoritario starà o cadrà: la questione ambientale. Com’è noto, il Medio Oriente è tra le regioni del mondo più esposte al cambiamento climatico e al tempo stesso tra quelle che stanno facendo meno per contrastarlo. Un po’ per l’oggettiva mancanza di risorse in alcuni Paesi, un po’ per un’esplosione demografica che, come in Egitto, vanifica ogni tentativo di alleggerire l’impronta ambientale, un po’ per politiche predatorie come quelle che transitano da una riva all’altra del Mar Rosso e che hanno condotto alla devastazione del Corno d’Africa in cambio di risultati davvero risibili, il classico piatto di lenticchie di biblica memoria: un po’ di selvaggina, qualche banco di pesce, la carbonella per cuocere la carne alla brace a Dubai, alcuni mega-progetti agricoli dai risultati molto dubbi. In cambio, interi Paesi devastati. L’ambiente è il nuovo campo di battaglia del capitalismo neo-autoritario, nichilista a ogni latitudine.

 

Come si è inserita in questo scenario la pandemia? Risponde Cinzia Bianco, prendendo in esame i vari piani, le “vision”, di cui tutti i Paesi del Golfo si sono dotati negli ultimi anni, nel tentativo di ridurre la loro dipendenza dall’esportazione di petrolio e gas. L’impatto della pandemia è stato piuttosto diverso da Paese a Paese (per dire, il Qatar se l’è cavata molto meglio del Kuwait, del Bahrein o dell’Oman), ma in generale, argomenta l’autrice, tutti i piani di sviluppo andranno ripensati. Così come sono adesso, infatti, condurrebbero a una concorrenza spietata tra Paesi che fino a questo momento hanno cooperato tra di loro. Rispetto al Golfo, l’Egitto racconta una reazione diversa alla pandemia, in cui la priorità è stata data al proseguimento dell’attività economica, per consentire al Paese di rispettare i rigorosi obbiettivi negoziati con il Fondo Monetario Internazionale. Se il bilancio di morti, per quanto certamente superiore a quanto dichiarato, non è stato drammatico, è indubbio che questa scelta mostri – lo chiarisce Amr al-Adly dati alla mano – la priorità assoluta che il governo egiziano ha assegnato allo sviluppo economico.

 

Che si tratti di Paesi ricchi o poveri di petrolio, di visions autoctone o di raccomandazioni del FMI, la lezione è chiara: la pandemia potrebbe costringere a ripensare il paradigma tecnocratico per cui i problemi si risolvono attraverso l’immissione di nuove tecnologie, peraltro al momento non esistenti. Non c’è infatti letteralmente una riga in questi piani che tratti dell’uomo se non nei termini di consumatore/produttore. L’antropologia si è persa nei meandri delle missions e dei deliverables, nel lessico aziendalista che per ammantarsi di rigore deve trattare le società come giga-factories. E che questo non funzioni ce lo ha già raccontato Gilles Dorronsoro nel suo libro sull’Afghanistan recensito in questo numero.

 

Peraltro, l’entusiasmo con cui una parte dell’Islam politico ha salutato la presa di potere dei Talebani a Kabul mostra che la lezione dell’ultimo decennio è ancora in gran parte da interiorizzare anche da quelle parti. Alla fine, un Islam politico così, che si complimenta con un regime che come primo atto politico chiude le scuole femminili, non solo non rappresenta un’alternativa, ma neppure un serio avversario, scrive Michele Brignone. È vero, la repressione politica genera oscurantismo religioso; ma l’oscurantismo alimenta la repressione e quando un domani si farà il conto delle responsabilità tra riferimenti religiosi e sultani/presidenti, sarà una difficile gara. Chissà mai se qualcuno potrà un giorno imitare il coraggio dello shaykh sufi Ibn Abī Mahallī (1559-1613) che, dopo aver guidato una rivolta contro il sultanato saadiano ed essersi proclamato mahdī, dovette sinceramente confessare: «Volevamo riparare la religione, ma l’abbiamo mandata in malora»[1].

 

Questo è insomma, seppur per sommi capi, il quadro del nuovo Medio Oriente successivo al ritiro americano dall’Afghanistan. Mancano diversi elementi (gli Accordi di Abramo, per citarne uno su tutti, nato dalla necessità di creare una nuova impalcatura di sicurezza), ma l’essenziale crediamo ci sia. Ed è un quadro in cui le ombre prevalgono sulle luci, come prova la costante emigrazione giovanile da quest’area. Che cosa ne sarà nel futuro? Se lo domanda Elie Al Hindy a nome dei cristiani orientali, la cui condizione di minoranza li ha resi doppiamente vulnerabili. Dopo aver richiamato con accenti appassionati i molteplici elementi di crisi di questa regione, Al Hindy prova a elencare le condizioni per cui quest’ora, che definisce la più buia, potrebbe tramutarsi in una nuova alba. Lo fa in un’ideale conversazione con Claudio Monge, che si interroga invece sulle condizioni per una fratellanza che non è mai puramente naturale, né semplice progetto calato dall’alto, ma che ha bisogno di radicarsi in un’antropologia personalista che non escluda per principio il riferimento al Padre, o quanto meno a Dio come Creatore delle differenze. Ed è proprio qui che voleva approdare il discorso.

 

Perché nel nostro ultimo numero cartaceo non abbiamo voluto limitarci a una fotografia dell’esistente, resi più scaltri, ma potenzialmente più cinici, da quasi vent’anni di studio, frequentazione, amicizie, sofferenze e passioni mediorientali. La nota su cui vogliamo concludere, la nota su cui desidero esprimere anche la mia personale gratitudine per questo cammino che mi ha arricchito enormemente come persona, è quella della speranza. La speranza che timidamente si affaccia dalle pagine del Sollievo dopo la distretta del giudice musulmano al-Tanūkhī, con la sua teologia della responsabilità umana e della Provvidenza divina. Ma soprattutto la speranza che nasce dalla fede cristiana. Non trovando parole migliori per esprimerla, lo faccio con un breve passo di Lumen fidei (n. 57), l’enciclica a quattro mani di Papa Benedetto e Papa Francesco.

 

«La sofferenza ci ricorda che il servizio della fede al bene comune è sempre servizio di speranza, che guarda in avanti, sapendo che solo da Dio, dal futuro che viene da Gesù risorto, può trovare fondamenta solide e durature la nostra società. In questo senso, la fede è congiunta alla speranza perché, anche se la nostra dimora quaggiù si va distruggendo, c’è una dimora eterna che Dio ha ormai inaugurato in Cristo, nel suo corpo. Il dinamismo di fede, speranza e carità ci fa così abbracciare le preoccupazioni di tutti gli uomini, nel nostro cammino verso quella città, «il cui architetto e costruttore è Dio stesso», perché «la speranza non delude». Nell’unità con la fede e la carità, la speranza ci proietta verso un futuro certo, che si colloca in una prospettiva diversa rispetto alle proposte illusorie degli idoli del mondo, ma che dona nuovo slancio e nuova forza al vivere quotidiano. Non facciamoci rubare la speranza, non permettiamo che sia vanificata con soluzioni e proposte immediate che ci bloccano nel cammino, che “frammentano” il tempo, trasformandolo in spazio. Il tempo è sempre superiore allo spazio. Lo spazio cristallizza i processi, il tempo proietta invece verso il futuro e spinge a camminare con speranza». A tutti, buon cammino!

 

Martino Diez

 

[1] La frase è riportata nelle Muhādarāt dello storico al-Yūsī (1631-1691) ed è citata in Abdelfattah Kilito, Les arabes et l’art du récit, Sindbad-Actes Sud, Arles, 2009, p. 48.

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