Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba

Ultimo aggiornamento: 19/03/2024 11:40:41

Questa settimana la stampa araba ha pubblicato diversi commenti al discorso che Hasan Nasrallah, leader di Hezbollah, ha tenuto venerdì scorso a Beirut. Il tema è stato preponderante sui quotidiani filo-palestinesi, mentre lo è stato molto meno sui media filo-sauditi e filo-emiratini.

 

Sul quotidiano libanese filo-iraniano al-Mayadeen, il giornalista Hassan Nafaa ha difeso il discorso usando toni molto partigiani. Qualsiasi cosa dica, Nasrallah è destinato a essere al centro delle critiche, ha chiosato l’editorialista. Dopo il suo lungo intervento, il leader di Hezbollah è stato accusato «di aver abbandonato Hamas e le fazioni della Resistenza palestinese» e gli è stata rinfacciata «la sua riluttanza a lanciare una guerra totale e aperta in risposta alla brutalità dei crimini commessi da Israele». Ma se avesse dichiarato guerra «all’entità sionista», l’avrebbero accusato ugualmente di esporre il Libano a «gravi pericoli per realizzare gli interessi iraniani», ha scritto Nafaa. Inoltre, se Hezbollah fosse entrato in una guerra globale «avrebbe confermato le illazioni occidentali per cui la causa principale della mancanza di stabilità nella regione sono l’Iran e i suoi alleati, e non l’occupazione israeliana», mentre un allargamento del conflitto nella regione «darebbe a Israele ulteriore mano libera su Gaza» e aggraverebbe la situazione dei palestinesi. In ogni caso, continua il giornalista l’intervento degli Stati Uniti nel conflitto è conseguenza della «grande forza militare di Hezbollah», che «per la prima volta nella storia è diventata una minaccia esistenziale per Israele». La conclusione è che «se “Israele” accetterà il cessate il fuoco ed entrerà nei negoziati sui prigionieri, la Resistenza palestinese avrà già vinto, nonostante tutta la distruzione, e da quel momento sarà in grado di imporre le sue condizioni».

 

In difesa di Nasrallah”, ha titolato al-Arabi al-Jadid. In questo editoriale, anche il giornalista giordano Maan al-Baayari si è schierato dalla parte del capo del “Partito di Dio”, sulla base però di argomenti ben diversi da quelli impiegati nell’articolo precedente. In questo caso, a essere evidenziata è la decisione del leader sciita di far prevalere l’interesse libanese e la “libanesità” del partito. Con il risultato che la maggior parte dei libanesi «hanno accolto con piacere ciò che hanno sentito, e hanno persino tirato un sospiro di sollievo». Questa puntualizzazione serve a ricordare che al di là dei massacri a cui i palestinesi oggi sono sottoposti, occorre avere un’attenzione anche per i libanesi, che non saranno risparmiati da Israele se «Hezbollah dovesse superare i limiti», ha scritto al-Baayari. Chi pensava che Hezbollah si sarebbe gettato a capofitto in una guerra globale non ha tenuto conto di ciò che il Partito di Dio è diventato negli anni: un attore politico – gli indizi in questo senso sono numerosi, dagli accordi che hanno disegnato i confini marittimi con Israele e che non si sarebbero conclusi senza l’avallo di Hezbollah, ai negoziati che hanno stabilito la Linea Blu nel sud del Paese, dopo il ritiro di Israele nel 2000. E un attore politico «gioca, manovra, vende i discorsi e mente», conclude l’editoriale.  

 

Al-Jazeera ha pubblicato un’intervista a Muhammad Fneish, ex ministro libanese e membro di Hezbollah. Che cosa impedisce al partito di entrare in una guerra globale? La differenza tra prendere una decisione sull’onda dell’emotività e ponderarla tenendo conto dell’interesse e degli obbiettivi del Diluvio di al-Aqsa. La scelta di mantenere un profilo basso è «compatibile con gli interessi libanesi», ha risposto Fneish. Lo slogan «unità delle piazze», usato per anni, è realistico e ancora credibile? Benché esista una consultazione permanente tra i leader dell’Asse della Resistenza a livello arabo, ha spiegato l’ex ministro, una parte del mondo arabo ha tradito la causa palestinese, normalizzando le sue relazioni con Israele.

 

I libanesi non sono stati gli unici a tirare un sospiro di sollievo al termine del discorso di Nasrallah. Anche tra i palestinesi c’è chi pensa che Nasrallah abbia fatto bene a non sbilanciarsi troppo. La Palestina non ha interesse a trascinare Hezbollah e il Libano nella tragedia, perché «Beirut ha dato quel che doveva e anche di più nelle guerre di lungo corso per la Palestina», e soprattutto non è nell’interesse palestinese allargare il conflitto alla regione, «perché che cosa succederebbe se entrasse in guerra l’Iran?», ha domandato il giornalista palestinese Imad Shakur su al-Quds al-‘Arabi. «Noi, come popolo e Stato non completamente formato, siamo ancora nella fase della lotta per la liberazione dall’occupazione e dal colonialismo israeliano. Non siamo membri di un’“alleanza militare” con nessun Paese o nessun campo. Pertanto, non possiamo obbligare nessun Paese, o gruppo di Paesi, mediante un accordo o un’alleanza, ad agire in questo o in quel modo». Al momento il principale interesse della Palestina, conclude l’editoriale, è mantenere alta l’attenzione internazionale sulla causa, per arrivare «a istituire lo Stato palestinese indipendente con capitale Gerusalemme araba».

 

La stampa filo-emiratina e filo-saudita ha proposto una diversa interpretazione del discorso. L’idea generale è che la priorità di Hezbollah non sia l’interesse dei libanesi e dei palestinesi (di cui non gli importerebbe fondamentalmente nulla), ma tutelare gli interessi iraniani nella regione e il proprio rapporto con Teheran.

 

Secondo il quotidiano filo-emiratino al-‘Arab, la presa di distanza di Nasrallah dall’attacco del 7 ottobre era funzionale a lanciare «un messaggio alle parti esterne [al Partito] e far sapere agli Stati Uniti che a Hezbollah non interessa la guerra, né il destino di Hamas». Attraverso i suoi messaggi, Nasrallah mira «a proteggere gli interessi dell’Iran evitando di esporre quest’ultimo a pericoli, soprattutto alla luce della recente apertura americana nei suoi confronti» e della promessa di Washington di sbloccare una parte dei fondi di Teheran congelati negli Stati Uniti. Il discorso di Nasrallah avrebbe semplicemente ufficializzato il disimpegno di Hezbollah, peraltro già evidente nei primi momenti del conflitto, con il risultato di tranquillizzare Israele, che può continuare la sua offensiva contro Hamas senza temere l’apertura del fronte settentrionale. L’allusione finale alla possibilità di un’escalation e di un maggiore coinvolgimento libanese nel conflitto, prosegue l’editoriale, ha consentito al Partito di Dio di preservare la sua immagine di oppositore di Israele. Le parole di Nasrallah avrebbero inoltre messo in luce la differenza sostanziale tra i due movimenti dell’Asse della Resistenza: «Hezbollah ha un’agenda più ampia legata all’Iran, il quale stabilisce se si debba agire o meno, fissa un tetto alle attività di Hezbollah e non sembra desideroso di interferire in alcun modo nel processo di escalation in corso; Hamas ha condotto un’operazione militare potente, senza prevederne le conseguenze e le ripercussioni sulla Striscia di Gaza, e non ha tenuto conto del fatto che Hezbollah non sarebbe accorso in suo aiuto, mentre Israele avrebbe ricevuto un ampio sostegno politico e militare dall’Occidente, soprattutto dagli Stati Uniti».

 

I media sauditi non sembrano essere sorpresi dal discorso di Nasrallah. Sulla rivista al-Majalla, la giornalista siriana Alia Mansour ha scritto che effettivamente la sua posizione «non sorprende» e se il Libano non entra in guerra «non è perché la situazione libanese non lo sopporterebbe o perché la maggior parte dei libanesi non vuole la guerra, ma perché Nasrallah ha capito, così come l’ha capito l’Iran, che le corazzate e le portaerei americane nella regione interverrebbero se l’Iran decidesse di entrare in guerra attraverso Hezbollah». L’interesse primario del Partito di Dio è l’Iran, non gli arabi, e la Palestina «non è altro che una questione da sfruttare per guadagnarsi la simpatia delle masse, che sono mosse ancora dal sentimento». Le uniche vere linee rosse di Teheran sono Hamas, Nasrallah, Bashar al-Asad e alcune personalità irachene, per il resto «Israele è libero di uccidere tutti i palestinesi che vuole», ha commentato Mansour.

 

All’interno del mondo arabo il conflitto israelo-palestinese, ma soprattutto l’operato di Hamas, ha diviso anche gli intellettuali. Qualche giorno fa, lo scrittore francofono marocchino Tahar Ben Jelloun ha preso le distanze dalla «barbarie commessa da Hamas nei confronti di donne e bambini ebrei» e ha dichiarato che «è lecito opporre resistenza a un’occupazione e lottare contro la colonizzazione ma non con questi atti barbari». Queste dichiarazioni hanno stizzito gli intellettuali islamisti marocchini, e gli sono valse le critiche di uno scrittore suo conterraneo, Muhammad Muhammad al-Khattabi, che su al-Quds al-‘Arabi si è domandato se «Tahar Ben Jelloun avesse perso la bussola». L’accusa rivoltagli è di non aver saputo cogliere «l’essenza del Diluvio di al-Aqsa, una nuova, gigantesca intifada, un forte grido, l’inizio di enormi sacrifici, […] un ululato proveniente dalle gole dei vedovi e degli orfani, delle vedove e di chi ha perduto un figlio, forti grida di lotta provenienti dalle bocche e dai cuori dei padri e delle madri dei martiri innocenti e delle martiri pure». L’auspicio di al-Khattabi è che Ben Jelloun si dedichi alla letteratura e taccia sulle questioni politiche.

 

Dal Marocco, che ha normalizzato le sue relazioni con Israele nel 2020, ci spostiamo in Tunisia, Paese ostile a Israele, il cui Parlamento a fine ottobre ha proposto una legge per criminalizzare la normalizzazione con lo Stato ebraico. Il provvedimento prevedeva delle pene aspre anche per il singolo cittadino che fosse entrato in contatto con un israeliano o con un’istituzione israeliana. Questa proposta, in linea con le posizioni di Kais Saied, avrebbe dovuto essere approvata nei giorni scorsi, ma le cose sono andate diversamente. All’ultimo il presidente tunisino si è detto contrario all’adozione della legge. Che cosa è accaduto, domanda su al-Quds al-‘Arabi Nizar Boulahia? La versione ufficiale è che il Parlamento ha congelato il progetto su pressione degli Stati Uniti. Secondo il giornalista, però, attorno a questa legge sarebbe nato un equivoco. Molti hanno dato per scontato che sarebbe stata adottata sulla scia della frase pronunciata l’estate scorsa da Kais Saied: «la normalizzazione è tradimento». Tuttavia, ha spiegato l’editorialista, da quando è al governo Saied non ha mai promesso nulla di simile e, in generale, ha fatto valere il principio per cui «una cosa che si chiama normalizzazione esiste solo nel momento in cui la si accoglie o la si criminalizza». Questa idea sarebbe stata ribadita dal presidente nel discorso trasmesso venerdì scorso dalla televisione nazionale: «Oggi siamo in una guerra di liberazione, non in una guerra di criminalizzazione, e chiunque abbia a che fare con il nemico sionista non può che essere un traditore. Questo tradimento è alto tradimento. […] E ancora una volta confermo che quella che viene chiamata normalizzazione è un termine che per me non esiste, perché riflette un’idea sconfitta».

 

Il fattore Siria nel conflitto israelo-palestinese [a cura di Mauro Primavera]

 

La stampa emiratina e saudita ha commentato il piano statunitense in termini piuttosto negativi. «Niente spiega il grande regresso dell’influenza americana in Medio Oriente come l’infruttuosa iniziativa del Segretario di Stato americano Antony Blinken», questo l’incipit di un articolo della testata saudita al-Majalla. Per al-‘Ayn al-Ikhbariyya la politica estera americana è semplicemente obsoleta, in quanto la strategia per la de-escalation e la pace «manca di una appropriata comprensione delle relazioni tra l’Iran, Hamas e la comunità sunnita. A dispetto della contrapposizione tra sciiti e sunniti, l’Iran sostiene Hamas in quanto parte della più ampia strategia di destabilizzazione dello Stato ebraico e di espansione della propria influenza. Fraintendendo l’alleanza Iran-Hamas, è probabile che l’iniziativa americana a Gaza si blocchi, fatto che porterà all’intensificarsi dei disordini nella regione».

 

La guerra di Gaza sta riportando l’attenzione sulla Siria, attore coinvolto più di quanto sembri nella questione israelo-palestinese. Su al-Sharq al-Awsat, l’intellettuale libanese Hazim Saghyeh attribuisce la responsabilità dell’odierno disastro alla politica del defunto presidente siriano Hafez Assad, padre di Bashar. Il metodo della «scuola Assad» consisteva «nello sfumare i confini nazionali, violare la sovranità degli Stati e trasformare le milizie in eserciti», ma soprattutto «nell’intelligenza strategica» di ridurre al minimo la possibilità di escalation armata tra Siria, Israele e Stati Uniti, innalzando al contempo al massimo livello le tensioni nella regione, ossia in Libano, Palestina e Iraq. Questo modus operandi, osserva Saghyeh, è ancora impiegato dall’“Asse della Resistenza”, ma a parti invertite: dopo il discorso di Nasrallah, infatti, ora il sud Libano è una zona quiescente, mentre la Siria viene regolarmente colpita dai missili israeliani. Anche il giornalista ‘Abd al-Hamid Tawfiq scrive su al-‘Ayn al-Ikhbariyya che la presenza militare americana, turca e iraniana sul suolo siriano «nasconde un fuoco sotto la cenere», con un elevato rischio di “spillover” regionale. Al-Majalla analizza invece il ruolo della Russia, tradizionale alleata di Damasco: sembra che Mosca, pur intrattenendo relazioni tanto con Israele quanto con la Siria, «a quanto pare non si sta profondendo in sforzi diplomatici per la de-escalation del conflitto, e forse la cosa non sorprende più di tanto». Per l’autore le ragioni di questa inazione sono due: o la Russia non ha le risorse e l’influenza necessarie per giocare un ruolo più incisivo nella crisi, oppure non ha interesse nella soluzione politica del conflitto, dato che gli eventi di Gaza stanno distogliendo l’opinione pubblica internazionale dall’andamento della guerra russo-ucraina.

 

L’anniversario della Marcia Verde e la “visione illuminata” del Marocco [a cura di Mauro Primavera]

 

Il giornale panarabo filo-emiratino al-‘Arab questa settimana ha dato particolare risalto al discorso del re del Marocco Mohammed VI, pronunciato in occasione del quarantottesimo anniversario della Marcia Verde, la manifestazione di massa che spinse la Spagna a rinunciare alla colonia del Sahara occidentale, in seguito occupato dalle truppe marocchine. Un editorialista della testata, il libanese Khayrallah Khayrallah, approva in un articolo dell’11 novembre l’annessione marocchina del territorio ex-spagnolo – che lui definisce una questione d’«integrità nazionale» – in quanto rende stabile una regione fragile come il Sahel e bolla il Fronte indipendentista Polisario come un movimento militare il cui unico obiettivo sembra quello di «esternalizzare la crisi interna dell’Algeria». Sulla stessa pagina, un altro articolo ribadisce il concetto: il Sahara marocchino rafforza la dimensione africana, europea e atlantica di Rabat in contrapposizione al vicino Stato rivale, l’Algeria, legato al blocco antioccidentale in cui sono presenti anche Russia e Siria. Nell’edizione del 10 novembre, un altro articolo decanta la «visione illuminata» di re Mohammed VI, basata su pace, stabilità regionale, prosperità, e soprattutto sull’avviamento di nuovi investimenti, costruzioni di infrastrutture all’avanguardia, e produzione di energie rinnovabili. Un discorso che assomiglia molto alla “visione sviluppista” degli Emirati Arabi Uniti.                      

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