Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba

Ultimo aggiornamento: 19/03/2024 11:04:03

Uno dei dibattiti che si ripresenta ciclicamente sulla stampa araba è quello sul destino dell’Islam politico e sul rapporto tra l’islamismo e la laicità. Nell’ultimo mese questo dibattito è stato ravvivato dall’esito delle elezioni turche, che hanno riconfermato Recep Tayyip Erdoğan alla guida del Paese. Perché gli islamisti del mondo arabo non sono riusciti a ottenere gli stessi risultati di Erdoğan benché abbiano sempre guardato al modello turco? – si  domanda il politologo tunisino Samir Hamdi sul quotidiano panarabo londinese al-‘Arabi al-Jadid. Nonostante abbiano giocato un ruolo importante nella lotta politica che ha interessato l’area mediorientale negli ultimi decenni, i partiti islamisti «hanno fallito tutti: non solo non sono riusciti a rimanere al potere, ma non sono neppure riusciti a preservare il clima democratico e impedire il ritorno della dittatura nelle sue varie forme». Che cosa, allora, ha reso vincente l’esperienza turca? Il primo fattore è una questione di forma. Da quando è giunto al potere nel 2002, il partito turco Giustizia e Sviluppo, spiega Hamdi, «non si è mai definito un partito islamista, ma si è collocato nel quadro della destra conservatrice; non si è mai appesantito di slogan quali “l’Islam è la soluzione”, “l’applicazione della sharia” o la lotta all’“immoralità e alla dissolutezza” – slogan tipici della visione etica di molti partiti islamisti, che non sono stati capaci di proporre programmi efficaci relativamente alle questioni politiche ed economiche né di smantellare la struttura del regime tirannico, profondamente radicato nell’assetto generale di molti Paesi arabi». L’errore da non fare tuttavia è confrontare esperienze islamiste di Paesi diversi. Spesso, scrive Hamdi, si tende ad accostare l’esperienza tunisina a quella turca, in virtù del principio laico che ha ispirato i fondatori dei due Stati, Kemal Atatürk e Habib Bourguiba, e della successiva lotta ideologica che si è innescata tra le forze islamiste e i sostenitori della laicità. Perché Erdoğan è riuscito a consolidare il proprio potere mentre Ennahda «si è consumata in meno di un decennio?» Ad Ennahda è mancata «un’idea chiara di governo, una visione che definisse gli obiettivi. Ha fatto politica procedendo per tentativi ed errori, ha preferito concentrarsi sulla partecipazione continuativa al governo ad ogni costo anziché lavorare per consolidare la democrazia e smantellare il sistema tirannico che si nascondeva nelle pieghe dello Stato in attesa di risvegliarsi». La lezione che i partiti islamisti arabi dovrebbero imparare dal successo di Erdoğan, conclude l’editorialista, è che gli Stati non si governano soltanto a suon di slogan.

 

Su un altro quotidiano panarabo londinese, al-Quds al-‘Arabi, Kamal al-Qasir, ricercatore marocchino sul Pensiero islamico, scrive che «le sconfitte politiche non sono il responsabile unico e diretto del fallimento degli islamisti». Secondo l’editorialista, gli islamisti sono stati colti alla sprovvista dalle Primavere arabe e costretti in fretta e furia a ripensarsi e adeguare i propri obbiettivi alle istanze avanzate dai manifestanti. Uno degli slogan scanditi dalle piazze arabe era per esempio la «lotta alla corruzione e alla tirannide», che però non era un elemento strutturale nei programmi degli islamisti. Generalmente, spiega al-Qasir, al concetto di “corruzione” gli islamisti hanno spesso «attribuito una connotazione valoriale. Lo hanno messo in relazione alla lotta contro le manifestazioni di decadimento morale nella società, sottolineando l’importanza di adottare comportamenti islamicamente corretti. Le loro più grandi battaglie contro la corruzione erano legate alle leggi sullo statuto personale, così come i loro programmi d’azione si concentravano principalmente sul rafforzamento della dimensione educativa e formativa delle persone. L’auto degli islamisti era solita funzionare con il carburante dell’“idea morale”, ma con lo scoppio delle rivoluzioni nelle piazze hanno dovuto improvvisamente cambiare il tipo di carburante per tenere il passo con l’ondata di protesta contro “la corruzione e la tirannide”». Inizialmente, quindi, si è prodotto uno scollamento tra l’idea che avevano gli islamisti di corruzione e quella dei manifestanti, per i quali essa era sinonimo di sperequazione della ricchezza, assenza di giustizia sociale e diffusione della povertà e della disoccupazione. Prima delle rivoluzioni molti islamisti hanno partecipato alla vita politica, ma il loro obiettivo non era mai stato combattere la tirannide né hanno mai chiesto un cambio di regime. Da questo punto di vista i manifestanti, scrive l’editorialista, sono stati molto più radicali degli islamisti, costringendo questi ultimi a scegliere se «restare riformisti o trasformarsi in rivoluzionari». Ed è su questo punto che gli islamisti arabi si sono divisi. I marocchini hanno scelto di rimanere fedeli all’anima riformista e hanno lavorato per smorzare le proteste e le richieste dei manifestanti riportandoli nel binario della riforma anziché della rivoluzione. Gli islamisti egiziani, tunisini e libici hanno fatto la scelta opposta, decidendo di cavalcare l’onda rivoluzionaria, facendo proprie le istanze delle piazze e finendo per attribuire alla corruzione e alla tirannia lo stesso significato attribuito dai manifestanti. «Gli islamisti si sono ritrovati all’interno di un progetto di protesta e non più legato alla predicazione religiosa, un progetto dai mezzi e dagli obiettivi differenti», con il loro vecchio vocabolario – lo Stato islamico e la sharia – che non si addiceva più al nuovo corso. Oggi i sostenitori dell’Islam politico hanno due opzioni: scrivere una nuova storia ritornando alla loro vecchia forma e cercando di risultare convincenti agli occhi della generazione che non ha assistito al loro fallimento politico, oppure rimanere aggrappati a ciò che resta del discorso politico che hanno prodotto dopo le rivoluzioni arabe. Costruire una storia nuova è complicato; ci è riuscito Hassan al-Banna sfruttando quel particolare momento storico segnato dalla caduta del Califfato, dall’occupazione straniera e dal sentimento di timore che serpeggiava tra i musulmani, spaventati dall’idea di perdere la loro identità islamica – scrive al-Qasir. La differenza fondamentale tra gli islamisti turchi e quelli arabi è che i primi hanno accumulato esperienza nel modo di affrontare la tirannide e la corruzione, mentre per i secondi affrontare la tirannide è sempre stata una questione teorica, limitata alla celebrazione dell’opera del riformista siriano al-Kawakibi “La natura del dispotismo”.

 

Se la tendenza generale sembra essere quella di un Islam politico arabo in difficoltà, sempre su al-Quds al-‘Arabi il dissidente siriano Yasin al-Hajj Saleh parla invece di un’inedita ascesa islamista nel suo Paese dopo la rivoluzione e dell’attrattiva che questo movimento «intellettualmente povero, moralmente misero e politicamente aggressivo» esercita su un numero crescente di persone. Ma perché attrae? Due sono le risposte possibili. La prima è una «risposta fascista» secondo la quale «ci sono segmenti della società che hanno un problema nella loro testa o nel loro credo religioso, e la soluzione è continuare ad annientarli», una teoria «che si esprime nel linguaggio della razionalità, del secolarismo e della modernità» e alla quale guardano i bracci esecutivi del governo di al-Asad. La seconda risposta è più ragionevole, e sostiene che l’islamismo nelle sue varie sfaccettature «fornisca, più di altri, opportunità di emergere e di rappresentazione di sé, di ascesa sociale e politica, e consenta a migliaia o a decine di migliaia di persone di accedere a qualche tipo di potere, in un Paese che non offre opportunità di ascesa sociale e politica se non a un numero molto ristretto di persone e all’interno di canali prestabiliti». La logica che soggiace a quest’ascesa islamista è la stessa per cui tra gli anni ’50 e ’70 i giovani aderivano alle organizzazioni nazionaliste e comuniste, considerate un trampolino di lancio da chi era in cerca di potere e visibilità. Nel tempo la capacità attrattiva di quelle organizzazioni è diminuita e sono state gradualmente soppiantate dalle organizzazioni e istituzioni d’ispirazione islamista. Inoltre, l’islamismo presenta un altro vantaggio per i suoi sostenitori: «L’armamentario intellettuale politico-islamica che ha cominciato a diffondersi tra le masse negli anni ’90 del Novecento è semplice e consente a molti di esserne abili con poco sforzo personale». L’Islam politico viene definito «il prodotto di una sconfitta e di un fallimento, che vive in un mondo intellettuale povero e ripetitivo, estraneo ai progressi compiuti durante l’era moderna nell’ambito della conoscenza, dei valori e dei diritti, staccato dal mondo, autoreferenziale e con un armamentario sempre più povero, privo di amici, alleati e partner». Esso, scrive il dissidente siriano, «combina l’immagine di una vecchia società gerarchica con gli strumenti dello Stato moderno per dominare e penetrare nella società, ciò che gli consente di istituire un sistema di controllo fascista». Yasin al-Hajj Saleh conclude spiegando che lo scopo della sua riflessione è dimostrare che la critica all’islamismo da sola non è sufficiente, ma dev’essere accompagnata da un progetto politico che miri a fornire maggiori opportunità di apprezzamento, visibilità e potere a una platea di persone sempre più ampia.

 

Del binomio corruzione-tirannide parla anche il ricercatore tunisino Mohamed Hnid, docente all’INALCO di Parigi, sul quotidiano filo-islamista ‘Arabi21. Secondo le sue previsioni, il Medio Oriente si appresta a entrare in una nuova fase, inaugurata dal rientro della Siria nel consesso arabo. «La tirannia si è nuovamente consolidata, o almeno così sembra, i popoli sono usciti sconfitti dall’olocausto delle rivoluzioni e non hanno realizzato nulla nonostante tutte le speranze riposte nella Primavera dei popoli e tutti i sacrifici, i martiri e il sangue versato». Due sono gli aspetti che caratterizzano oggi il mondo arabo: da un lato «l’assoggettamento delle società e dei popoli attraverso i vecchi mezzi repressivi», dall’altro «l’inasprimento delle crisi sociali, perché le persone che non protestano per chiedere libertà e dignità scenderanno in piazza a causa della fame». Lo stato di tensione che vivono alcuni Paesi arabi (come l’Egitto) ha raggiunto il livello di guardia e potrebbe provocare «scosse violente e senza precedenti». Oggi, spiega Hnid, i governi non possono più sperare di giocarsi la carta del passato: «Il sistema arabo ufficiale è riuscito a imporre la narrazione della lotta al terrorismo, all’Islam politico, al caos creativo e alla primavera araba, ma non potrà convincere nuovamente la gente con queste narrazioni dopo aver imprigionato tutti gli oppositori nelle carceri e nei centri detentivi. La situazione sociale di milioni di persone peggiora giorno dopo giorno, lo spettro della carestia minaccia molti Paesi, che non sono più in grado neppure di fornire cibo e beni di prima necessità ai loro popoli». Hnid prevede nuove ondate di cambiamento (non usa la parola rivoluzione!) di cui è difficile prevedere gli esiti, tenuto conto «dell’esaurimento che ha colpito la mente araba e le élite politiche e intellettuali […], e delle società, che versano in uno stato avanzato di debolezza e sono ormai incapaci di agire e costruire».

 

L’Europa soffre, la Tunisia di più [a cura di Mauro Primavera]

 

Per la seconda volta in una settimana, la presidente del Consiglio italiana Giorgia Meloni si è recata in visita a Tunisi dal capo di Stato Kais Saied insieme alla presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen e al primo ministro olandese Mark Rutte, quest’ultimo in rappresentanza dei Paesi nordici dell’eurozona. Il dialogo tra Bruxelles e Tunisi si è ben presto trasformato in un braccio di ferro, dove nessuna delle due parti sembra voler cedere alle richieste altrui: da un lato gli europei invitano la Tunisia a intraprendere le riforme e soprattutto a contenere i flussi migratori, dall’altra Saied mostra insofferenza per le condizioni della UE e del Fondo Monetario Internazionale, al punto da essersi lasciato andare, due giorni dopo l’incontro, a una dichiarazione a metà tra la boutade e il populismo: «nel Corano non è stata rivelata una sura del FMI». Di questa contrapposizione la stampa araba parla soprattutto per metafore, similitudini, frasi a effetto e paragoni che catturano l’attenzione tanto quanto le caratteristiche vignette che costellano quotidianamente le pagine e i siti web delle testate panarabe. 

 

Per al-‘Arabi al-Jadid Giorgia Meloni, da quando è presidente del Consiglio, sta facendo «visite da maratoneta» nella regione mediorientale, a dimostrazione di quanto sia importante per Roma la stabilità e il controllo dei flussi migratori nella sponda sud del Mediterraneo. Il quotidiano con sede a Londra sostiene infatti che la premier, fin dal giorno della sua elezione, non solo ha espresso soddisfazione per il corso politico inaugurato da Saied, ma si è addirittura eretta a ruolo di “avvocato difensore”, incaricata di perorare la causa tunisina all’estero: «l’Italia è stata la prima ad utilizzare l’espressione “collasso tunisino” dando l’allarme su uno dei momenti economici più difficili» le cui conseguenze negative si faranno sentire su tutta la regione euromediterranea. Per questo Tunisi sa di «avere una carta preziosa» da giocare nel negoziato con la UE. Un altro quotidiano panarabo londinese, al-‘Arab, solitamente molto clemente verso Saied, dopo aver pubblicato la notizia in prima pagina sull’edizione del 12 giugno, discute l’esito dell’iniziativa italiana: «le visite della premier Meloni e degli altri ministri italiani e le loro dichiarazioni entusiaste hanno infuso grandi speranze nei tunisini per il fatto che l’Europa resterà al fianco del loro Paese in queste difficili condizioni, evitando loro di avere a che fare con il Fondo Monetario Internazionale. Tuttavia la visita trilaterale europea ha ridimensionato in maniera considerevole quelle speranze, mettendo le persone di fronte alla realtà: l’Unione Europea non darà niente senza contropartita, così come non è nella posizione di fare concessioni senza guadagnarci. Nessun Paese europeo vive una situazione finanziaria tale da permettersi comodamente di iniettare una consistente quantità di denaro nelle casse di Tunisi per farla uscire dalla crisi […] la cosa rilevante, qui, è la conferma che la vecchia Europa, che sosteneva Tunisi con denaro, agevolazioni e diversi partenariati, non si trova più in una posizione favorevole; non si può più fare affidamento su di lei, né usarla come scudo durante le crisi». Non sembra pertanto credibile (e realizzabile) il progetto avanzato da Roma su un maxi-prestito nazionale ad hoc: più probabile, secondo l’autore, un modesto pacchetto di aiuti europeo che sarà soggetto a diverse condizioni, come la regolamentazione dei flussi migratori e il rispetto dei diritti umani e politici. Il tempo però stringe, come sottolinea un articolo del giornale tunisino al-Sabah: «la situazione tunisina odierna non ha più tempi supplementari, prove e occasioni mancate». La tensione di questi mesi è palpabile in un altro articolo di al-Sabah, che cerca, quasi in maniera compulsiva, conferme dai media italiani – da “Sky News” a “La Repubblica” passando per i profili Facebook – su un ipotetico prestito da 900 milioni di euro accennato dal commissario europeo per gli affari economici e monetari Paolo Gentiloni, poi sceso a 700 stando a una presunta dichiarazione della premier italiana. Anche questa cifra appare però infondata, per un «errore di traduzione»: «Meloni non ha parlato di un prestito da 700 milioni, ha solo indicato che, nel complesso, la cooperazione economica in diversi ambiti di sviluppo equivale a quella cifra». Anche al-Charia al-Magharibi apre con la foto dei leader, allineandosi sulle posizioni espresse da al-‘Arab.     

 

Piuttosto interessante e particolare a livello stilistico l’intervento su Al Jazeera di Moncef Marzouki, presidente della repubblica tunisina dal 2011 al 2014, a proposito del delicato momento che sta attraversando il suo Paese. Anche se «non esiste una ricetta giusta in ogni tempo e luogo per un sistema democratico», il suo giudizio sull’attuale capo dello Stato è assai severo: «ci troviamo di fronte a una tirannia che non riesce a celare l’aggravarsi della sua inefficienza, e non le restano che le fughe in avanti con la repressione, la falsificazione o i tentativi di guadagnare tempo procrastinando, tergiversando o simulando effimere aperture. Tutte le dittature, quando sono messe alle strette, si rifugiano in aperture posticce o nell’invito a un dialogo nazionale. Quante volte i democratici sono caduti in questa trappola, e quante altre volte ci cadranno, prima che gli opportunisti e gli incompetenti si trovino di fronte a una forte reazione da parte di sinceri democratici che siano al corrente del fatto che l’“apertura” e il “dialogo” sono parte integrante delle politiche di regimi che sopravvivono solo con le menzogne, mentendo soprattutto a sé stessi». Il pensiero corre poi alla “rivoluzione dei gelsomini” del 2011: «bisogna ricordare che chi ha compiuto le rivoluzioni della Primavera araba non era il popolo come concepito dai suoi santificatori […] o da chi al contrario dai suoi profanatori […]», bensì il «popolo dei cittadini» «alcune decine di migliaia di persone che hanno spezzato le loro catene e quelle che legavano la loro società». E, «sarebbe stato impossibile per qualsiasi altro regime, non importa quanto fosse saldo, affrontare una sollevazione pacifica», soprattutto se portata avanti dalla società civile e seguita a livello mediatico. «È questa minoranza consapevole – conclude Marzouki in maniera un po’ truculenta – che riprenderà la rivoluzione, perché essa è ancora presente e aspetta solo il momento opportuno per piombare sulla bestia, succhiarle il sangue e farla morire dissanguata».

 

Anche l’anchorman di al-Jazeera Muhammad Krichen apre su al-Quds al-‘Arabi con una immagine metaforica: «ecco l’Europa che prende la Tunisia per la mano che le fa male e gliela preme, ed ecco la Tunisia che vorrebbe ritrarla e geme per il troppo dolore. L’Europa sa bene che la Tunisia si trova in forti ristrettezze finanziarie, e che il prestito da un miliardo di dollari da parte del FMI in programma da mesi non è imminente. Pertanto, essa è intenzionata a sfruttare al meglio questa situazione. Un’Europa che non si è mai apprestata a salvare la pericolante democrazia tunisina». E soprattutto, un’Unione Europea per modo di dire, visto che in questo caso essa si riduce «principalmente all’Italia». Tuttavia, anche il Paese nordafricano non naviga in buone acque, anzi «con Saied gira a vuoto in un vortice di contraddizioni e ha un disperato bisogno del Fondo Monetario […] il ra’īs vuole “la botte piena e la moglie ubriaca” – nell’originale si cita un proverbio francese: “vuole sia il burro che i soldi spesi per comprarlo” – ossia vuole tutto senza rinunciare a niente, anche se non ha un valida alternativa». La conclusione è affidata a un’altra metafora: «quando era possibile né l’Italia, né la Francia, né gli Stati Uniti né nessun altro si è precipitato a soccorrere la Tunisia nuotando nel mare mosso e agitato della democrazia; ora fanno a gara per lei che si dimena scompostamente nella palude della tirannia, non per tirarla fuori da lì, non è questa la loro intenzione, ma solo per farle alzare un po’ la testa, magari solo il naso, in modo che continui a respirare, nient’altro».              

 

I paragoni storici sono il tema portante del pezzo di Gilbert Achcar uscito su al-Quds al-‘Arabi (e su al-‘Arabi 21). Per il politologo libanese, la foto ricordo davanti al palazzo di Cartagine che ritrae insieme von der Leyen, Rutte, Meloni e Saied è del tutto innaturale: «sorprende perché i media occidentali negli ultimi due anni hanno ricoperto di critiche caustiche le misure arbitrarie del Capo dello Stato tunisino, tra cui aver spedito in carcere Rachid Gannouchi con accuse pretestuose […] Naturalmente, non sorprende affatto che la Meloni si trovi a suo agio a collaborare con un presidente autoritario, anzi è un fatto assolutamente naturale se si considera che la premier italiana è a capo di un partito che riprende l’eredità del fascismo e che va fiero del suo fondatore Mussolini». Achcar accusa oltretutto la premier italiana di seguire le orme politiche del suo predecessore Silvio Berlusconi, «del quale ora piange la scomparsa». L’ex presidente del consiglio, infatti, firmò nel 2008 un «accordo vergognoso con un altro dittatore arabo, Mu‘ammar Gheddafi» che prevedeva che «l’Italia rispedisse indietro a forza i migranti che partendo dalla Libia arrivavano sulle sue coste attraversando il Mediterraneo». A proposito della morte di Berlusconi, sono pochi i giornali che sono andati oltre l’annuncio della notizia: tra questi, al-‘Arab ha dedicato una paginata dove si ripercorrono in rassegna successi, scandali e gaffe del Cavaliere che «ha mosso l’Italia a suo piacimento». Molto più critico al-Quds al-‘Arabi che già nel titolo di un articolo a lui dedicato lo attacca: «avversario dell’Islam e “amico” di Netanyahu e Putin!». Considerato come «un modello della destra populista e razzista» e padre dei moderni leader islamofobi, il giornale panarabo gli rimprovera da una parte l’eccessiva vicinanza a Israele e ai regimi arabi autoritari, dall’altra lo scarso interesse per la causa palestinese.   

 

La “disinformazia” araba [a cura di Mauro Primavera]

 

Mentre la settimana scorsa la stampa araba ha parlato dei rischi legati allo sviluppo dell’intelligenza artificiale, in questa ha discusso un tema “evergreen”: il declino dell’informazione. Anche se il tema è tutto fuorché originale, rimane comunque interessante soffermarsi sulle argomentazioni e sulle analisi prodotte dalle principali testate panarabe per spiegare il fenomeno. Per al-‘Arabi al-Jadid il vero disastro sono i canali satellitari: «affinché tu riesca, caro spettatore, a seguire una delle interviste televisive diffuse su molti canali del satellite […] devi essere dotato di una buona dose di autodisciplina». Tale è infatti il livello di superficialità e ignoranza che contraddistingue i talk-show, rendendoli dei veri e propri prodotti di disinformazione. Al-Quds al-‘Arabi, invece, punta il dito, con fare accademico, sull’inappropriatezza di alcuni termini e concetti largamente diffusi sugli articoli della carta stampata: «l’Occidente continua in maniera più o meno diretta a imporre dei termini non solo in lingue occidentali come il francese e l’inglese, ma anche in arabo. Ciò è riconducibile alla forza di cui godono i mezzi d’informazione occidentali che hanno una versione in arabo, come la BBC» o oggi Reuters e France Presse. Esse però non hanno un dipartimento specializzato nella revisione dei testi, i quali non vengono adeguati alla cultura e al patrimonio lessicale degli arabi. Secondo al-Quds, termini come “post-colonialismo”, “ordine internazionale” e “armi di distruzione di massa” non sono neutrali e riflettono una visione culturale e geopolitica di matrice occidentale. Questa critica emerge anche in un altro articolo di al-Quds che denuncia la copertura faziosa e parziale sulle recenti elezioni turche e sui mondiali di calcio disputatisi in Qatar lo scorso autunno. Al Jazeera individua una correlazione tra il declino della capacità di critica dei media nell’infotainment, ossia la modalità ibrida di diffondere conoscenze intrattenendo i lettori con contenuti leggeri e coinvolgenti. 

 

Vi sono poi i casi specifici dei singoli Paesi. In Iraq, riporta al-Quds al-‘Arabi, «il “quarto potere” soffre di un grave problema, dal momento che le stime più alte sul numero dei giornalisti impiegati ammonta a poche migliaia di unità, mentre gli altri non leggono né scrivono»; alcuni di loro sono oltretutto reporter improvvisati, avendo lavorato in altri settori. In Egitto invece, scrive al-‘Arab, è stato lo stesso parlamento ad aver chiesto ai ministri di ridurre le comparsate e le interviste al fine di «eliminare le fake news che arrivano alle masse». 

 

 

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