Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 16:55:18

Inflazione e terremoto non hanno avuto la meglio su Erdoğan. È vero che il presidente uscente è costretto al ballottaggio, ma vi si presenta da super-favorito, forte di un vantaggio significativo, anche se, come hanno ricordato vari osservatori, il risultato dell’AKP è stato il più basso dal 2002. I dati del primo turno delle elezioni presidenziali turche certificano infatti il fallimento dell’opposizione, nonostante i sondaggi favorevoli della vigilia: alle presidenziali Erdoğan ha ottenuto il 49,24%, contro il 45,07 di Kılıçdaroğlu e il 5,28 di Oğan. L’affluenza si è attestata a un elevatissimo 88%, un dato significativo anche considerando che la partecipazione al voto è obbligatoria in Turchia (ma le sanzioni per chi non partecipa non vengono attuate). Le elezioni parlamentari offrono un quadro ancora più sconfortante per l’opposizione: l’alleanza composta dall’AKP e dal partito nazionalista MHP di Devlet Bahçeli ha ottenuto il 49,47%, mentre la coalizione Millet İttifakı si è fermata al 35%. A livello di partiti, l’AKP è saldamente il più votato e ha staccato di oltre dieci punti percentuali il CHP guidato da Kılıçdaroğlu. Il terzo partito è l’MHP con poco più del 10% dei voti, seguito dal partito IYI di Meral Akşener (9,75%) e dai curdi dell’YSP (8,8%). Se volete osservare i dati completi delle elezioni, sia parlamentari che presidenziali, a livello nazionale e regionale, vi suggeriamo le mappe interattive pubblicate da Anadolu, che con un colpo d’occhio illustrano immediatamente la distribuzione geografica del voto. Occorre però prestare attenzione: le zone curde nell’est del Paese sono colorate di rosso (cioè favorevoli al candidato del CHP), restituendo l’idea che i curdi si siano espressi in massa per Kılıçdaroğlu. È vero che il candidato alevita ha ottenuto la maggioranza dei voti in queste aree, ma va considerato che qui l’affluenza è stata anche dieci punti percentuali più bassa rispetto al resto della nazione. Un dato che naturalmente ha influito nel conteggio complessivo dei voti. Dove invece il sostegno a Kılıçdaroğlu è stato veramente elevato sono le zone costiere della Turchia, molto più che le grandi città: nei distretti di Istanbul e Ankara Kılıçdaroğlu ha ottenuto un vantaggio compreso tra 1,9% e 1,3%, mentre in zone come Smirne il sostegno all’Alleanza della Nazione è stato superiore al 60%.

 

Erdoğan ha potuto contare «sugli elettori pii, conservatori e nazionalisti distribuiti nella zona centrale dell’Anatolia», ha scritto il Financial Times. Non solo: anche nelle province fortemente colpite dal sisma, Erdoğan è andato alla grande: a Kahramanmaraş ha superato il 70% e anche ad Hatay è stato superato solo per lo 0,1%. Segno che il grosso del suo elettorato è stato in grado di derubricare il terremoto a “fatalità”, proprio come affermato da Erdoğan in precedenza. Anche nella provincia di Konya, che ha subito gravemente la crisi economica (ne parlavamo in una precedente puntata del Focus attualità), Erdoğan ha ottenuto facilmente la maggioranza, per quanto la sua performance elettorale sia peggiorata rispetto al 2018, passando dal 74,2% al 68,9%.

 

In generale, come mostrano i dati elaborati nella seconda mappa disponibile qui, la performance di Erdoğan è peggiorata ovunque, e in maniera più significativa proprio nelle province in cui storicamente otteneva risultati migliori. Un dato, quest’ultimo, che mostra ancora più chiaramente quanto l’opposizione non sia stata in grado di capitalizzare sulle debolezze del presidente uscente, anche a causa dell’attrattiva generata dalla presenza di Oğan. È su di lui che sono puntati i riflettori ora: tendenzialmente ci si può aspettare che i suoi voti confluiscano verso Erdoğan, perché Oğan è fuoriuscito dal partito nazionalista MHP che fa parte della coalizione del presidente uscente. Oğan, cinquantacinquenne ex parlamentare con un dottorato in relazioni internazionali ottenuto all’Università di Mosca, ritiene che il 70% del suo elettorato seguirà le sue indicazioni di voto, ma diversi studiosi citati dal New York Times mettono in dubbio questa affermazione. Oğan sarebbe infatti sprovvisto della struttura partitica necessaria per radunare gli elettori, molti dei quali potrebbero inoltre aver votato per lui in segno di protesta contro i due contendenti principali. Se così fosse, è probabile che una parte dei suoi sostenitori scelga semplicemente di astenersi al secondo turno. Ad ogni modo, come è naturale che sia, Oğan sta alzando la posta per “vendersi” al miglior offerente: tra le altre cose, a Erdoğan chiede la rinuncia alle politiche eterodosse in materia di tassi di interesse, mentre a Kılıçdaroğlu intima l’abbandono totale delle istanze curde e il rinnegamento dell’HDP. Inoltre, Oğan pone il rimpatrio dei rifugiati siriani come condizione necessaria per il suo sostegno. Kılıçdaroğlu non ha atteso a lungo prima pronunciarsi sul tema. In un video nel quale i toni moderati che hanno caratterizzato finora la sua campagna elettorale hanno lasciato il posto a un discorso marcatamente nazionalista, il candidato dell’opposizione ha brutalmente dichiarato: «non abbandoneremo la nostra patria a questa mentalità che ha permesso che dieci milioni di migranti irregolari arrivassero tra noi». Kılıçdaroğlu non ha fornito alcuna giustificazione dei dati che ha riportato e i numeri dei migranti irregolari sono di gran lunga più bassi: circa 3,6 milioni di rifugiati, di cui 100.000 con passaporto turco (e dunque con possibilità di voto).

 

Alla luce del cambio di tono del leader del CHP, che si somma alla buona performance elettorale di Oğan, Nazlan Ertan ha correttamente osservato che il nazionalismo è il vero vincitore del primo turno. Inoltre, il fatto che Oğan, come lui stesso ha affermato, sia diventato «l’uomo più ambito» della Turchia, significa che con ogni probabilità l’asse della politica turca si sposterà ulteriormente a destra. Secondo il Washington Post, l’opposizione ha sottovalutato il pregiudizio, diffuso soprattutto nelle generazioni più anziane, contro la minoranza alevita. Inoltre, soprattutto tra i giovani il nazionalismo è rampante, e l’opposizione non è riuscita a rendersene conto in tempo, ha scritto il quotidiano americano.

 

Una domanda emersa subito dopo la chiusura delle urne riguarda la regolarità delle operazioni di voto. Secondo Merve Tahiroglu (Turkey program director al Project on Middle East Democracy) grazie al ruolo giocato da osservatori come quelli di Vote and Beyond, la più antica organizzazione di monitoraggio elettorale presente in Turchia, le operazioni elettorali si sono svolte in maniera sostanzialmente corretta. Tuttavia, almeno in una prima fase, l’opposizione ha negato la regolarità del voto, salvo poi ammettere che i voti contestati non avrebbero comunque alterato in maniera significativa l’esito delle elezioni. Non è questo il motivo per cui Kılıçdaroğlu ha perso le elezioni, ha scritto il Financial Times. Ciò non significa però che le elezioni si siano svolte in maniera competitiva e senza favoritismi. Negli ultimi anni Erdoğan ha silenziato la stampa non allineata e preso il controllo della magistratura. Soprattutto, i giudici della Suprema commissione elettorale (YSK) sono nominati da un ente controllato dall’AKP. Eppure, anche Mustafa Akyol concorda nel dire che il processo elettorale turco è piuttosto trasparente ed Erdoğan ha, a tutti gli effetti, ottenuto la maggioranza dei voti. Non sono i brogli, infatti, ciò a cui guardare per comprendere le ragioni delle ripetute vittorie dell’AKP. Secondo Akyol la risposta fondamentale è che «Erdoğan ha stabilito un legame indistruttibile con il blocco sociopolitico più ampio della Turchia: i conservatori religiosi. Inoltre, Erdoğan li delizia con una grande narrazione: nonostante i nefasti nemici e le odiose cospirazioni, lui sta rendendo la Turchia nuovamente grande e islamica».

 

In questo contesto, tutti gli aspetti cui siamo soliti guardare, come lo stato dell’economia, la corruzione, l’assenza di libertà, i drammi legati al terremoto, hanno avuto meno rilevanza di quanto ci potevamo aspettare. Come ha sottolineato l’economista turco Daron Acemoglu (MIT) questi aspetti si sono rivelati significativi nelle aree metropolitane, ma non nei luoghi dove l’AKP ha costruito e utilizzato le sue reti clientelari. Morale della favola? Secondo Ishaan Tharoor la lezione è cupa: «in questo momento nella democrazia turca, e forse nelle democrazie ovunque, le politiche identitarie surclassano qualsiasi cosa». Tema su cui converge anche Akyol, il quale ha ricordato che mentre Clinton nel 1992 vinceva le elezioni sulla base dello slogan “It’s the economy, stupid”, nell’odierna Turchia tutto ruota attorno a «guerre culturali e nazionalismo religioso». Infine, come sottolineato da Steven Cook e Sinan Ciddi su Foreign Policy, gli autocrati, molto spesso, «sono resilienti». Erdoğan sembra esserne la dimostrazione.

 

La riabilitazione di Assad certifica la preminenza dell’Arabia Saudita

 

Si apre oggi, venerdì 19 maggio, il summit della Lega Araba in Arabia Saudita. I riflettori sono puntati su Bashar Assad, che farà il suo ritorno ufficiale a più di dieci anni di distanza dalla sospensione della Siria, avvenuta in seguito della repressione delle rivolte interne scoppiate nel 2011. «Questo è un momento di trionfo per Assad», ha commentato David Lesh, professore di storia del Medio Oriente alla Trinity University del Texas. Come ha riportato Reuters, alcuni Stati, a cominciare da Kuwait e soprattutto Qatar, si sono opposti al reintegro della Siria, ma la loro posizione è stata sconfitta, a dimostrare come Doha «abbia ridimensionato le sue ambizioni di essere un attore diplomatico di primo piano nella regione e abbia accettato il ruolo preminente dei sauditi». Ciò non significa che tutti i temi spigolosi nel rapporto tra la Siria e gli altri Paesi arabi siano stati risolti. Anzi. Uno di questi riguarda il fatto che Damasco sia diventata una piattaforma da dove la droga sintetica nota come Captagon viene distribuita in tutto il Medio Oriente e fornisce un importante fonte di introiti per la Siria.

 

Proprio in questi giorni a Gedda le autorità saudite hanno sequestrato un cargo contenente 1,4 milioni di pillole e hanno arrestato un cittadino siriano. Un altro tema è rappresentato dai profughi siriani che sono andati all’estero per fuggire da guerra e persecuzione. Al-Monitor ha parlato con alcuni di quelli che hanno trovato rifugio proprio in Arabia Saudita. Tra di essi vi è chi spera che la fine dell’isolamento della Siria possa migliorare le condizioni economiche di molti cittadini. Altri, invece, hanno espresso tutto il loro malcontento per una decisione che, in buona sostanza, permette ad Assad di farla franca. Questa è anche l’opinione della redazione del Financial Times, che in un recente editoriale ha scritto che la riammissione di Assad offre «una non-necessaria e immotivata vittoria diplomatica a un criminale di guerra e ai suoi complici – l’Iran e la Russia». Il processo sembra però ormai troppo ben avviato per essere fermato. Diverse notizie lo testimoniano, come il fatto che Assad è stato invitato dagli Emirati Arabi Uniti a partecipare alla prossima COP28 che si terrà proprio a Dubai.

 

Il rapporto con la Siria è uno dei temi su cui Abu Dhabi si scontra con gli Stati Uniti. Come ha ricostruito il Wall Street Journal, dallo scoppio della guerra in Ucraina è diventata evidente la rischiosa strategia emiratina di intrattenere rapporti con tutti i più importanti attori dello scacchiere internazionale, inclusi Cina e Russia. Il livello della relazione con Washignton «è cambiato – ha affermato Dina Esfandiary (International Crisis Group) – Non è più una situazione in cui Washington alza il telefono e dice ad Abu Dhabi cosa fare». L’altra faccia della medaglia dell’autonomia che gli Emirati vogliono garantirsi è che a volte «non otterranno quello che vogliono dagli Stati Uniti, perché in precedenza non hanno fatto quello che gli americani richiedevano».

 

In breve

 

Radio France Internationale ha stilato un ritratto di Riad Salamé, governatore della Banca centrale libanese diventato il simbolo della catastrofe economica del Paese dei Cedri

 

Russia e Iran hanno firmato un accordo per finanziare e costruire una linea ferroviaria in Iran che farà parte di un progetto – ancora embrionale – di corridoio di trasporto nord-sud che nelle intenzioni di Teheran e Mosca dovrebbe rivaleggiare con il canale di Suez (Reuters).

 

Mentre si moltiplicano le voci riguardo un possibile default dell’Egitto, Il Cairo ha venduto il 9,5% di Telecom Egitto. La vendita si inserisce nel piano di privatizzazioni richiesto dal FMI. Secondo Amr Adly (Carnegie Middle East Center) l’alto livello di indebitamento di Paesi come l’Egitto e la Tunisia tende a renderli geopoliticamente subordinati ai Paesi del Golfo.

 

Diversi accademici hanno firmato una lettera aperta per chiedere la liberazione del leader tunisino Rachid Ghannoushi, arrestato il 17 aprile nell’ambito della svolta autoritaria impressa da Kais Saied alla Tunisia (Guardian).

 

Oltre 250 mila somali sono stati costretti ad abbandonare le loro case dopo che il fiume Shabelle ha esondato e sommerso la città di Beledweyne. L’esondazione arriva dopo un prolungato periodo di siccità che ha colpito la Somalia (il più grave da quattro decenni).

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