Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 16:41:04

Una fuga di informazioni top-secret ha scosso gli Stati Uniti, e il Pentagono in particolare. Numerosi documenti classificati sono finiti in rete. Non sono ancora del tutto chiari i dettagli di come questo sia avvenuto, anche se nella serata di giovedì è stato eseguito un primo arresto legato alla vicenda. Le informazioni rese pubbliche riguardano soprattutto la guerra in Ucraina e i temi ad essa collegati (qui al-Jazeera offre una sintesi delle principali notizie emerse). Mentre il Pentagono ha definito la fuga di notizie un «pericolo molto serio» per la sicurezza nazionale, il portavoce del Cremlino Dmitri Peskov ha affermato di non essere sicuro di quanto seriamente vadano presi i segreti rivelati. Ma al di là dei tatticismi e delle dichiarazioni di circostanza degli attori direttamente implicati, ci soffermiamo in questo Focus sul coinvolgimento dei Paesi di Nord Africa e Medio Oriente. Anche perché, come ha osservato il Wall Street Journal, questo genere di fatti mette in difficoltà gli alleati di Washington: l’Ucraina, certo, ma anche quelli mediorientali, la cui fiducia nei confronti di Washington continua a diminuire.

 

Restringendo così il campo, l’attenzione si è concentrata su due Paesi: l’Egitto e gli Emirati Arabi Uniti. Il Cairo beneficia abbondantemente degli aiuti militari americani (oltre un miliardo all’anno negli ultimi decenni, ha stimato il Washington Post) ed è stato definito da John Kirby un «partner rilevante» in materia di sicurezza. Si capisce allora quanto la notizia relativa alla fornitura (non confermata) di 40.000 razzi dall’Egitto alla Russia, da utilizzare in Ucraina, possa essere problematica. Un «azzardo esplosivo», ha commentato ancora il Washington Post. Tanto più se consideriamo che il presidente egiziano al-Sisi avrebbe specificato ai suoi sottoposti di mantenere segreta la produzione e l’invio degli armamenti per «evitare problemi con l’Occidente». Il senatore Chris Murphy, membro della commissione Affari Esteri del Senato americano ha dichiarato che se la notizia fosse confermata sarebbe il caso di rivalutare la relazione con l’Egitto nel suo complesso, mentre è probabile che la fornitura di armi alla Russia farebbe scattare comunque le sanzioni americane. Attraverso un funzionario anonimo citato da una televisione pubblica, l’Egitto ha smentito categoricamente le forniture alla Russia e lo stesso John Kirby ha affermato che non ci sono «prove» dell’invio di armi dal Cairo a Mosca. Ma perché l’Egitto dovrebbe prendersi questo rischio? Un incentivo potrebbe venire dalla disastrosa situazione economica del Paese: secondo Yezid Sayigh (senior fellow al Carnegie Middle East Center) la rischiosa scelta di al-Sisi sarebbe motivata dall’impellente necessità di ottenere valuta straniera e dall’indisponibilità egiziana a sottostare alle condizioni poste dal Fondo Monetario Internazionale per l’erogazione dei suoi prestiti. Uno dei principali problemi è che l’economia egiziana è dominata dallo Stato e dall’esercito. Nonostante il Cairo abbia iniziato a vendere quote delle aziende partecipate, come richiesto dall’FMI, lo Stato continua a svolgere un ruolo importante in settori come quello sanitario, farmaceutico, assicurativo, nell’agricoltura e nell’industria degli idrocarburi. Come ha spiegato Timothy Kaldas, vicedirettore del Tahrir Institute for Middle East Policy, la presenza statale disincentiva gli investitori stranieri: troppo alto il rischio di ritrovarsi ad avere come concorrente lo Stato, che può promulgare leggi a suo favore o, più semplicemente, ignorare quelle vigenti. Se dunque da un lato si capisce la necessità egiziana di aumentare il volume delle proprie esportazioni, dall’altro va considerato che con ogni probabilità la vendita di 40.000 razzi a Mosca non risolverebbe granché visto il basso costo (relativamente parlando) degli armamenti in questione.

 

Nell’occhio del ciclone sono finiti anche gli Emirati Arabi Uniti. Un documento visionato dall’Associated Press dimostrerebbe che Abu Dhabi e Mosca hanno rafforzato la cooperazione in materia di intelligence, specificando che i rispettivi apparati lavorerebbero insieme «contro» i servizi segreti di Londra e Washington. I timori riguardo al crescente ruolo emiratino nel permettere alla Russia di eludere le sanzioni (con il rischio che Dubai diventi la destinazione dei soldi degli oligarchi) sono emersi da tempo in Occidente, ma l’agenzia di stampa non è stata in grado di verificare la notizia in maniera indipendente. Possiamo dunque concludere che sia vera? Non vi sono certezze, e questo suggerisce cautela nel valutare il contenuto nei documenti caricati online: quanto c’è di vero, quanto di verosimile e quanto di falso? Ciò che possiamo dire con certezza, però, è che la notizia della vicinanza tra Emirati e Russia non sorprende. L’opinione di Andreas Krieg pubblicata sul quotidiano filo-qatarino Middle East Eye è che gli Emirati abbiano sviluppato le loro attività di intelligence a un livello informale e separato dalla burocrazia statale. È perciò alle relazioni personali che occorre guardare per comprendere la vicinanza o meno tra i due Paesi. E qui, sostiene Krieg, gli Emirati beneficiano di «relazioni personali a livello di élite con il nucleo interno del Cremlino».

 

Intanto gli Emirati si apprestano a introdurre per la prima volta un’imposta sui redditi d’impresa pari al 9%. Come ha riportato al-Monitor, la tassazione è necessaria anche per ridurre la dipendenza dai proventi da idrocarburi, anche se proprio le società petrolifere, oltre ai fondi di investimento, saranno esenti. L’anno scorso, però, con l’entrata in vigore delle sanzioni alla Russia e il rialzo dei prezzi energetici, gli introiti derivanti dalla vendita di petrolio sono cresciuti enormemente. Un’analisi dell’Economist mette però in luce una grossa differenza rispetto al passato: in occasione di precedenti cicli rialzisti dei prezzi gli introiti venivano fatti confluire nelle Banche centrali dei Paesi del Golfo, che accrescevano le loro riserve di valuta straniera. Questo ora non avviene più e i petrodollari vengono utilizzati in tre differenti modi: per pagare debiti esteri, per l’apertura di linee di credito a Paesi amici e per l’acquisizione di asset stranieri. Un nuovo corso, dunque, che però nel caso dell’Arabia Saudita, secondo alcuni critici interpellati da Sebastian Castelier (Haaretz), potrebbe trasformarsi in un fallimento.

 

Una speranza per lo Yemen

 

Potremmo finalmente essere di fronte a una svolta nel conflitto in Yemen. Domenica scorsa una delegazione saudita, accompagnata dai mediatori omaniti, si è recata a Sana‘a, dove ha iniziato nuovi negoziati con i ribelli Houthi per raggiungere una tregua duratura che, secondo la ricostruzione del Wall Street Journal, potrebbe aprire la strada al raggiungimento della pace. L’ambasciatore saudita in Yemen ha sottolineato che i negoziati servono per «stabilizzare la tregua e il cessate-il-fuoco, sostenere il processo di scambio dei prigionieri e individuare luoghi di dialogo tra le differenti componenti yemenite per raggiungere una completa e sostenibile soluzione politica» alla guerra. Anche il capo del consiglio politico supremo degli Houthi Mahdi al-Mashat si è espresso in termini simili quando ha dichiarato che il gruppo zaidita sta cercando di ottenere una «pace onorevole». L’accordo per il rinnovo della tregua e la roadmap per il raggiungimento della pace potrebbero portare a un immediato miglioramento delle condizioni di vita dei civili yemeniti se, come sembra, si procederà alla rimozione del blocco marittimo e aereo su Sana‘a e Hodeida e si porrà fine all’assedio di Taiz. «È troppo presto – ha detto il portavoce della milizia sciita – per dire con sicurezza se i negoziati di Sana‘a avranno successo, ma è chiaro che un’atmosfera di pace aleggia sulla regione, ciò che fornisce motivi di ottimismo e speranza». Il riferimento, piuttosto chiaro, è all’accordo tra Arabia Saudita e Iran per la riapertura delle rispettive ambasciate. Diversi analisti avevano indicato proprio nello Yemen il primo test per verificare se la distensione tra Riyad e Teheran avrebbe retto alla prova dei fatti. Per ora, dunque, il riavvicinamento sembra proseguire senza troppi intoppi. A differenza di quanto avvenuto il mese scorso, però, nell’accordo di oggi sono “a bordo” anche gli Stati Uniti, come confermato dalla telefonata avvenuta martedì tra il consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan e il principe ereditario Mohammed bin Salman.

 

Netanyahu: il primo ministro che rende Israele meno sicuro?

 

Nel fine settimana scorso sono aumentati significativamente i timori per una nuova escalation tra Israele e Hamas, dopo che dal Libano erano stati lanciati diversi razzi verso lo Stato ebraico. Sei razzi sono stati lanciati anche dalla Siria verso le alture del Golan, ai quali le forze israeliane hanno risposto con un bombardamento. Il lancio di razzi dalla Siria è stato rivendicato da un gruppo palestinese locale, noto come Liwa al-Quds. Per ora l’escalation con il Libano sembra evitata ma il clima generale di (in)sicurezza ha fatto sì che Benjamin Netanyahu decidesse di fare un passo indietro rispetto al licenziamento del ministro della Difesa Yoav Gallant, avvenuto il 26 marzo scorso in seguito alle dichiarazioni di quest’ultimo sulla riforma della giustizia promossa dal governo. Il timore, ha scritto il New York Times, era che il licenziamento avrebbe dato ulteriore prova delle divisioni di Israele, rafforzando la posizione dei suoi avversari esterni. Un paradosso per Netanyahu, il quale si è sempre dipinto come il politico che mette al primo posto la sicurezza di Israele.

 

Tuttavia, in seguito all’accordo tra Iran e Arabia Saudita per il ristabilimento delle relazioni diplomatiche, è fallito il progetto di Netanyahu di creare un’alleanza con i Paesi arabi sunniti contro Teheran. Riyad (ma non solo) ha dimostrato di non essere intenzionata a dare il via a una guerra contro il vicino persiano. Al contrario, invece, il timore di Israele è che si produca un’alleanza tra Hamas ed Hezbollah proprio contro lo Stato Ebraico. Pericolo che sembra realizzarsi se guardiamo all’incontro avvenuto recentemente a Beirut tra Hassan Nasrallah e i vertici di Hamas per «coordinare le loro mosse contro Israele». Ne ha scritto Ben Caspit su al-Monitor, dove si legge anche che secondo l’intelligence israeliana le probabilità dello scoppio della «guerra totale» al confine nord di Israele sono aumentate. Ciò sarebbe dovuto proprio al venir meno della deterrenza su cui si basa Israele: lo Stato ebraico sarebbe percepito come più debole dai nemici proprio a causa della crisi politica interna, che ha radici ben più profonde dell’attuale impasse legata alla riforma della giustizia. Secondo l’intelligence militare israeliana, tutto ciò potrebbe invogliare Hezbollah e gli iraniani ad approfittare della situazione.

 

Una guerra avrebbe effetti catastrofici per il Libano, già piagato da una gravissima crisi economica. Il Paese subirebbe infatti l’ennesima iniziativa unilaterale del partito-milizia sciita. In realtà, Hilal Khashan ritiene che il “Partito di Dio” sia già coinvolto nel lancio di razzi verso Israele avvenuto la settimana scorsa: è verosimile, ha affermato il politologo della American University di Beirut, che Hamas abbia agito solo dopo aver ricevuto il via libera da Nasrallah. La decisione di Hezbollah, afferma Khashan, avrebbe irritato pesantemente i cristiani libanesi, incrementando la loro contrarietà all’elezione di un presidente della Repubblica pro-Hezbollah.

 

Tornando in Israele, è anche nell’ottica di evitare ulteriori escalation che il governo ha deciso di vietare l’accesso al complesso di al-Aqsa ai non-musulmani fino alla fine del mese di Ramadan. Se le discriminazioni nei confronti degli arabi israeliani e dei palestinesi continuano ad aumentare, anche per i cristiani che vivono in Israele la situazione peggiora: crescono gli attacchi da parte di estremisti ebraici e secondo il Patriarca di Gerusalemme dei Latini Pierbattista Pizzaballa ciò avviene perché «queste persone si sentono protette. [Sentono] che l’atmosfera culturale e politica può giustificare, o tollerare, le azioni contro i cristiani». Dichiarazioni che si sommano alle proteste della Chiesa Greca Ortodossa di Gerusalemme, che ha accusato la polizia israeliana di limitare la libertà di culto dei cristiani.

 

Erdoğan tiene duro

 

Erdoğan potrebbe pagare caro il suo approccio eterodosso alla gestione dell’economia. «Voglio il cambiamento», ha affermato un lavoratore interpellato dal Financial Times a Konya, una delle roccaforti del presidente turco. A motivare questa voglia di novità sarebbe proprio la situazione economica e in particolare l’inflazione e la svalutazione della lira, che abbattono il potere d’acquisto delle famiglie. Il prodotto interno lordo pro capite nella provincia di Konya è aumentato in maniera vertiginosa da quando Erdoğan ha preso il potere: nel 2004 si attestava a 4250 dollari a persona, nel 2013 era salito a 9690. Ora, invece, è sceso a 7340 dollari, secondo i dati di Turkstat. Consapevoli del rischio che corrono, con l’avvicinarsi delle elezioni le autorità stanno cercando stabilizzare il valore della lira. Tuttavia, come ha spiegato l’economista turco Mustafa Sonmez a Foreign Policy, «questa stabilità è un’illusione e non riflette il reale valore di mercato della lira turca. È un sollievo temporaneo, aiutato in parte dagli investimenti russi e del Golfo, ma non è una soluzione di lungo periodo». Conscio del rischio che corre, Erdoğan ha lanciato la campagna elettorale da Ankara promettendo proprio di «riportare l’inflazione a valori a una cifra». Tuttavia, benché anche l’opposizione prometta di tornare a una gestione economica ortodossa, l’imponente costo della ricostruzione post-terremoto pone un punto interrogativo sul margine di manovra che potrà avere il prossimo governo. È anche per questo che l’agenzia S&P Global Ratings ha modificato l’outlook della Turchia da “stabile” a “negativo”, citando come motivazioni proprio le politiche eterodosse sui tassi di interesse, la svalutazione della lira e i costi della ricostruzione.

 

A questo si somma poi la scelta, non gradita neanche a diversi elettori di Erdoğan, di rifugiarsi in un sistema politico che concentra il potere nelle mani del presidente. Eppure, nonostante la crisi economica, il terremoto e il crescente autoritarismo, i sondaggi non mostrano grandi distacchi tra Erdoğan e Kılıçdaroğlu. Ciò si deve al fatto che «in posti come Konya», dove alle ultime elezioni 3 su 4 elettori votarono per l’AKP e dove «c’è un blocco di elettori pio e conservatore», molti hanno deciso di non abbandonare il partito del presidente. Secondo Berk Esen (Sabanci University) questo è dovuto almeno in parte al fatto che «l’opposizione non offre un’alternativa credibile». Chiunque vinca le prossime elezioni, dovrà affrontare nuovamente il dossier delle relazioni complicate con la Grecia. Atene, complice forse il generale clima di distensione che sta prendendo piede nella regione, ha già detto che è disponibile a rafforzare la cooperazione con Ankara dopo le elezioni.

 

In breve

 

Il primo marzo di quest’anno è stata inaugurata ad Abu Dhabi la Abrahamic Family House, il complesso che ospita una moschea, una chiesa e una sinagoga. Secondo Jon Hoffman (Democracy for the Arab World Now – DAWN) queste iniziative intraprese dai regimi autocratici servono per spostare l’attenzione dalle loro politiche repressive.

 

Siria e Tunisia hanno comunicato che riapriranno le rispettive ambasciate (Al Jazeera). L’Arabia Saudita si appresta invece a riprendere i servizi consolari e a ristabilire i collegamenti aerei con Damasco. Marocco, Kuwait, Qatar e Yemen si sono opposti al reintegro della Siria nella Lega Araba (Middle East Eye).

 

La compagnia di bandiera russa Aeroflot, colpita dalle sanzioni occidentali, ha inviato uno dei suoi aerei in Iran per svolgere la manutenzione (Reuters). Mosca ha incominciato anche a esportare (su rotaia) carburante in Iran (Reuters). Intanto gli Stati Uniti hanno pubblicizzato l’invio di un sottomarino a propulsione nucleare in Medio Oriente, una dimostrazione di forza nei confronti della minaccia posta dalle milizie filo-iraniane (Wall Street Journal).

Tags