Rassegna stampa ragionata sul Medio Oriente e sul mondo musulmano

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:03:31

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In Libia è stato raggiunto l’accordo per la formazione di un governo provvisorio guidato da Abdul Hamid Dbeibah, un imprenditore nel settore delle costruzioni originario di Misurata, che a sorpresa è risultato la persona più votata dai partecipanti al Forum del dialogo libico. L’esecutivo sorto alla fine dei cinque giorni di negoziati è in realtà formato da un Consiglio presidenziale che riunisce, nelle figure di tre persone, le tre anime della Libia, cioè la Tripolitania, la Cirenaica e il Fezzan. Il nuovo governo dovrà ottenere la fiducia dal Parlamento, guidato da Aguilah Saleh, presidente della Camera dei rappresentanti di Tobruk e che era dato come favorito per la carica di primo ministro al posto di Dbeibah. Compito del nuovo esecutivo sarà quello di dar vita a un governo di unità nazionale che a sua volta dovrebbe guidare la Libia verso le elezioni previste per dicembre 2021.

 

Molti analisti non hanno visto con favore la creazione di questo governo ad interim. Scopo dei negoziati voluti dall’ONU era scardinare il controllo di un’élite politica che è invece stata riabilitata a tutti gli effetti. Dbeibah viene infatti associato all’ex dittatore Muammar Gheddafi perché nel 2007 quest’ultimo lo mise a capo della Libyan Investment and Development Company, una compagnia di costruzioni di proprietà statale.

 

Altro problema evidenziato dal Carnegie Endowment for International Peace è il fatto che le quattro personalità che compongono il governo (Dbeibah e le tre personalità del Consiglio) hanno dovuto ottenere i voti dei 74 membri del Forum, raccogliendo il sostegno di «fazioni e attori locali disparati» che con ogni probabilità chiederanno in cambio un posto nel nuovo gabinetto di governo. In questo modo sarà molto difficile lavorare per un obiettivo comune.

 

Non bisogna poi dimenticare il coinvolgimento degli attori esterni. Per un diplomatico europeo intervistato da Le Monde, Dbeibah è «l’uomo delle forze straniere in Libia», cioè della Russia e della Turchia, e non è ancora noto che decisioni verranno prese in merito alla presenza militare straniera nel Paese. Stessa cosa per quando riguarda la distribuzione dei proventi petroliferi, aspetto poco indagato dai media, ma che riveste un ruolo decisivo, essendo un pilastro dell’economia libica e una delle ragioni di contrasto tra la Tripolitania e la Cirenaica.

 

Per il sito filo-qatarino Middle East Eye invece, le potenze straniere coinvolte nel conflitto (oltre alla Russia e alla Turchia, l’Egitto, gli Emirati Arabi Uniti e la Francia) ne escono tutte sostanzialmente sconfitte, perché  i loro candidati sono stati rigettati. Una rottura con il passato quindi? Non sembra, e infatti anche L’Orient-Le Jour avverte: la vittoria inaspettata della lista di Dbeibah ha in realtà «sepolto» la possibilità di una riconciliazione tra est e ovest. La Libia, prosegue il quotidiano libanese, è diventata «il simbolo di un triplo fallimento»: quello delle sollevazioni popolari della Primavera araba, quello di porre fine a un conflitto fratricida e infine quello di una transizione democratica guidata dalle istituzioni internazionali.

 

Doha in soccorso di Beirut?

 

Il Qatar sarebbe disposto ad aiutare finanziariamente il Libano, ma condizione sine qua non affinché questo avvenga è la formazione rapida di un nuovo governo «a Beirut». Il ministro degli Esteri Mohammad al-Thani ha invitato i partiti politici libanesi a mettere da parte gli «interessi individuali», nella speranza che si possa trovare un accordo.

 

La situazione in Libano è di stallo totale: dall’esplosione del 4 agosto non sono stati fatti passi in avanti sulla formazione di un nuovo esecutivo, e anche le iniziative francesi proposte in prima battuta da Macron sono fallite. In una dichiarazione, l’arcivescovo maronita di Beirut, Boulos Abdel Sater, ha detto che gli attuali politici libanesi verranno ricordati come «tiranni, corrotti e assassini». Il piccolo Paese dei Cedri sta cercando di sopravvivere a «diverse crisi di grave portata», che vanno dall'ambito socioeconomico, a quello finanziario, al politico e al sanitario. Ma la classe politica libanese non riesce ad attuare le riforme necessarie per ottenere gli aiuti internazionali.

 

A soffrire per questa drammatica situazione non sono solo i libanesi, ma anche le migliaia di profughi siriani bloccati in un Paese sempre più in difficoltà e di conseguenza più inospitale. In questo reportage Francesca Mannocchi spiega che ai siriani, in prevalenza musulmani sunniti, non viene riconosciuto lo status di rifugiato perché questo prevederebbe degli obblighi che il governo libanese non può (e non vuole) sostenere. Quindi, per esempio, non esistono nemmeno dei veri campi profughi, ma solo degli ammassi informali di tende.

 

La scarcerazione di Loujain al-Hathloul

 

La stampa internazionale l’ha definita un’esperienza da mille e una notte: Loujain al-Hathloul, nota attivista per i diritti delle donne saudite, è rimasta in carcere per esattamente 1001 giorni prima di essere rilasciata, mercoledì scorso. Ora la aspettano tre anni di libertà vigilata, ma la scarcerazione di un volto noto anche all’opinione pubblica internazionale pare essere l’ennesimo tentativo di Riad di scrollarsi di dosso l’immagine di regime illiberale e conservatore che i sauditi si sono creati con azioni come l’uccisione di Jamal Khashoggi e l’intervento nella guerra in Yemen.

 

Il principe ereditario Mohammad bin Salman sta agendo in questo senso anche su altri fronti (tra cui la redazione di un corpus legislativo codificato che potrebbe affiancarsi alla shari’a) per evitare la rottura con il nuovo presidente americano Joe Biden. Come spiega Axios, l’Arabia Saudita sembra disposta a cooperare anche in Yemen: Biden ha congelato l’invio di armi al Regno e ha rimosso gli Houthi dalla lista della organizzazioni terroristiche. MbS non ha criticato le azioni americane, al contrario sta cercando di navigare nelle nuove acque, e infatti il ministro degli Esteri saudita, sempre mercoledì, ha incontrato Tim Lenderking, inviato statunitense per lo Yemen, per trovare una soluzione politica al conflitto in Yemen.

 

In un paragrafo

 

Rivalità spaziali

 

Che la Turchia avesse mire espansionistiche si era capito, così come è ormai nota la contesa geopolitica e ideologica con gli Emirati Arabi Uniti. Ma forse non molti pensavano che la rivalità tra le due potenze potesse arrivare fino allo spazio. Martedì il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha parlato di un «ambizioso programma spaziale» nazionale che si svilupperà nell’arco di dieci anni e il cui primo obiettivo dovrebbe essere un allunaggio nel 2023. Agli osservatori internazionali non è sfuggito il tempismo delle dichiarazioni di Erdogan: lo stesso giorno, infatti, la navicella spaziale Al-Amal (speranza), lanciata nello spazio dagli Emirati Arabi Uniti l’estate scorsa, ha raggiunto l’orbita di Marte. Turchia ed Emirati giocano su fronti opposti in diversi teatri geopolitici: in Libia, nel Mediterraneo orientale e nella crisi diplomatica con il Qatar. Ma anche l’Arabia Saudita aumenterà gli investimenti nel settore spaziale.

 

Un nuovo ministro degli Esteri emiratino

 

Il ministro degli Esteri emiratino Anwar Gargash ha rassegnato le dimissioni e si sposterà all’ufficio presidenziale emiratino. Diventa invece Ministro di Stato (ma di rango inferiore a Gargash) Sheikh Shakhbout bin Nahyan al-Nahyan, nipote di MbZ. Cinzia Bianco spiega che il cambio è generazionale ed è stato effettuato in un’ottica di lungo termine. Gargash ha avuto un ruolo di primo piano nella firma degli accordi di Abramo con Israele e nel recente scongelamento dei rapporti con il Qatar.

 

In una frase

 

Lo Stato Islamico ha ucciso sei beduini nel Sinai, in Egitto (Associated Press)

 

Costruire una chiesa in Arabia Saudita? Secondo quanto riportato da Insider potrebbe essere possibile in un futuro non troppo lontano.

 

Secondo quanto riportato da un comunicato della coalizione a guida saudita in Yemen, i ribelli Houthi avrebbero attaccato l’aeroporto di Abha, nella zona meridionale dell’Arabia Saudita (Reuters).

 

Dopo la scoperta di una fossa comune, la comunità yazida ha celebrato i funerali di 103 uomini e ragazzi uccisi nel 2014 dall’Isis (New York Times).

 

Secondo la ricostruzione del Jewish Chronicle, lo scienziato iraniano Mohsen Fakhrizadeh è stato ucciso da un’arma automatica comandata a distanza e fatta entrare in Iran da agenti del Mossad (Reuters).

 

Negoziare con i jihadisti? In Burkina Faso potrebbe non essere più un tabù (Le Monde).

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
 
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