Il dramma dei villaggi dell’Alto Atlante distrutti dal sisma, ma anche la grande solidarietà del popolo marocchino e la realtà della Chiesa locale. Una conversazione con Fra’ Franco Drigo.

Ultimo aggiornamento: 14/03/2024 14:19:07

Fra’ Franco Drigo è un frate francescano che dall’ottobre 2020 vive a Meknès, dove è in contatto costante con i suoi confratelli di Marrakech. Gli abbiamo chiesto di raccontarci la realtà dei villaggi colpiti dal sisma.  

 

L’8 settembre scorso i villaggi sull’Alto Atlante sono stati colpiti da un forte terremoto. Si contano più di 2500 morti e villaggi interi sono andati distrutti. Intanto, come stanno i frati francescani che vivono a Marrakech? Hanno subito dei danni le vostre strutture?

 

Stanno tutti bene, il convento ha subito soltanto qualche lieve danno. Nella chiesa dei Santi Martiri a Marrakech si è sgranato un po’ l’intonaco, ma per fortuna non ci sono stati danni strutturali. In generale, la situazione a Marrakech non è stata così drammatica. Basti pensare che nell’epicentro del terremoto ci sono stati 2000 morti, mentre a Marrakech, una città con più di un milione di abitanti, i morti sono stati quindici e sono cadute solo le abitazioni più fatiscenti della Medina, la parte vecchia della città. È un terremoto che ha colpito più che altro i poveri, sono soprattutto loro a farne le spese. Il problema è nei villaggi rurali, dove il sisma è stato molto forte. Lì è cambiata la conformazione morfologica della terra, c’è stata una variazione delle falde acquifere e adesso esce acqua da una parte e non più da un’altra. I villaggi erano sorti dove c’erano delle sorgenti d’acqua, e dopo il terremoto alcuni sono rimasti senza risorse idriche. I problemi maggiori al momento sono l’acqua, il cibo e i medicinali, non certo la casa. Anche perché, in un contesto come quello dei villaggi, dormire in tenda e senza elettricità è la norma, non è grave.

 

Quindi se le falde acquifere si sono spostate, i villaggi che non hanno più accesso all’acqua verranno abbandonati?

 

Probabilmente sì, poi dipende anche dalla storia del villaggio. Quelli più grandi hanno secoli di storia, ma altri sono sorti recentemente, hanno cinquanta, cent’anni al massimo.

 

Può raccontarci la realtà socio-culturale di questi villaggi rurali? Come vivono le persone sull’Alto Atlante?

 

Fare una sintesi è davvero difficile. I villaggi rurali sono composti da abitazioni costruite in terra battuta o in cemento di scarsa qualità. Sono abitati da persone che spesso hanno mantenuto anche la tenda, o che hanno trovato un luogo sedentario in cui fermarsi ma che comunque arrivano dalla cultura nomade. In quel contesto, quando si dice “casa” s’intende probabilmente un’unica stanza dove si mangia e si dorme, con un servizio igienico esterno, e per servizio igienico s’intende solo la toilette perché nei villaggi ci si lava direttamente nei torrenti o negli hammam delle moschee. Alle persone è sufficiente una stanza, che di fatto ha sostituito la tenda. Prima tutto era sotto la tenda, adesso tutto è in una stanza murata, e questo è una forma di riscatto dalla vita precedente. Agli occhi di un’occidentale sono situazioni che rasentano la dignità. Sono dignitose perché sono pulite, ma sono veramente molto, molto povere. Le persone sono dedite all’agricoltura e alla pastorizia. I villaggi si evolvono nel momento in cui si riesce a costruire un sistema per portare l’acqua e l’elettricità nelle case. L’economia cinese è arrivata anche lì, per cui si vedono dei pannellini solari un po’ ovunque. Non si immagini però i pannelli solari a cui siamo abituati noi, i loro sono poco più di quelli che noi utilizziamo per alimentare le torce. Loro riescono a sfruttare la grande quantità di sole per avere una corrente elettrica di base, per alimentare un frigorifero – che non tutti hanno perché è considerato un bene di lusso – o per riuscire a caricare il cellulare. Questi sono i segni di un’evoluzione che c’è stata negli ultimi anni. Quando vado nei villaggi dell’Atlante rimango sempre colpito dalla sobrietà, dalla dignità, dalla semplicità della vita. Il problema grande è quando si ammala qualcuno, perché trasformare l’agricoltura in medicinali è difficile. E allora devono cominciare a vendere qualcosa, c’è chi vende una capra per comprare le medicine o per fare le visite mediche. Infatti, per un marocchino che arriva in città dai villaggi il problema è scoprire che tutto si paga e che non si può fare il baratto. E così che inizia il fenomeno delle baraccopoli e della povertà nelle città: queste persone aspirano a una condizione di vita più favorevole, ma si scontrano con una mentalità molto diversa da quella rurale.

 

Voi come frati francescani stati portando aiuti nelle zone colpite dal terremoto?

 

Sì, ci stiamo coordinando con la Caritas. Per questioni politiche il Marocco ha scelto di accettare gli aiuti soltanto dalla Spagna, dall’Inghilterra, dal Qatar e dagli Emirati. Noi stiamo cercando di capire se possiamo raccogliere donazioni dall’estero per poi acquistare in loco beni di prima necessità. Stiamo provvedendo ai primi soccorsi, ma soprattutto stiamo cercando di organizzare bene il dopo. Il Marocco è molto abitato nei centri urbani, mentre le zone rurali sono costellate di villaggi a cui si accede attraverso stradine precarie, percorribili solo con l’auto o a dorso d’asino. Molte di queste strade già precarie hanno subito gravi danni a causa del terremoto; quindi, far arrivare gli aiuti non è semplice. I nostri informatori ci dicono che in questi giorni le autostrade del Paese sono intasate di tir e camion provenienti da Tangeri e dalle altre grandi città del nord del Marocco, che trasportano aiuti. La difficoltà è proprio farli arrivare a destinazione. I marocchini hanno dato prova di una grandissima solidarietà; ci sono donne che hanno donato tre chili di farina perché avevano soltanto quello. Mi ricorda molto l’episodio raccontato dal Vangelo della vedova che getta nel tesoro due monete, gli unici suoi averi! Prendersi cura del fratello fa parte della spiritualità musulmana, quindi non è mancata la risposta della popolazione. Oltre al numero elevato di morti ci sono tantissimi feriti molto gravi e c’è bisogno di sangue. Ma anche da questo punto di vista la popolazione sta rispondendo molto bene, gli ospedali sono intasati di persone che vanno a donare il sangue. Il problema adesso è organizzare gli aiuti. Il re è intervenuto attraverso l’esercito, a cui ha affidato il coordinamento delle operazioni.

 

Nel vostro convento a Marrakech state accogliendo sfollati?

 

Parlare di sfollati nel contesto rurale marocchino è improprio e suona un po’ strano. La gente che vive nei villaggi è semi-nomade. Hanno un’economia di sussistenza molto povera, vivono di quello che coltivano e di quello che allevano. Nel loro caso specifico non si può parlare di sfollati. Sfollati invece sono quei migranti, spesso clandestini, che vivevano nelle case di terra battuta nella periferia di Marrakech, crollate in seguito al terremoto. Non dobbiamo dimenticare infatti che il Marocco è terra di migranti: entrano dalla Mauritania e si dirigono verso il Nord del Paese per tentare di raggiungere la Spagna. La nostra preoccupazione come frati è collaborare per portare gli aiuti nei villaggi da un lato, e aiutare i migranti rimasti senza un tetto e senza alcuna risorsa, dall’altro. A Marrakech abbiamo un centro di accoglienza per i migranti. Prima del terremoto era un centro diurno, ma ora è aperto giorno e notte.

 

Nei contesti rurali dell’Atlante vivono anche immigrati o soltanto marocchini?

 

No, i migranti fanno tappa nelle città, non si fermano nei contesti rurali. Infatti, il problema dei migranti lo sentiamo a Marrakech. I migranti seguono le vie di comunicazione più trafficate, perché il loro obbiettivo è arrivare a Nord. Un migrante trova il confine con la Mauritania aperto, senza nessun ostacolo, entra in Marocco, e poi entra in un giro economico, non legale sicuramente, e non organizzato. Io pensavo che i migranti fossero considerati capitale umano, nel senso che venissero sfruttati dalle mafie per farci i soldi. In realtà, non è così. Vedo invece che domina la mentalità di approfittare l’uno dell’altro, in base alla composizione del gruppo in quella città o in quel luogo. Faccio un esempio. Se in un momento sono predominanti i migranti senegalesi rispetto a chi arriva dal Togo, saranno i senegalesi a gestire il traffico. Entrano dal Sud, senza niente, arrivano nelle città e cominciano a mendicare ai semafori. Scoprono che il Marocco è uno dei Paesi africani in cui si vive meglio, ma vivono con le aspettative dei clan di appartenenza, che hanno messo insieme i soldi necessari per farli partire e si aspettano che chi è emigrato rimandi indietro i soldi. L’idea diffusa è che per i minori è più facile essere accolti in Europa. Quindi l’età dei migranti si sta abbassando considerevolmente e sono tanti i ragazzi che, non riuscendo a sopportare il peso di questa aspettativa, iniziano ad avere patologie psichiatriche. Molti ragazzi impazziscono e sentono di non avere la forza di continuare. Ci sono frati, soprattutto al Nord, che spendono serate intere al telefono con le famiglie d’origine per spiegare loro che il figlio è stato accolto, ma non possono pretendere di più perché non ce la fa. Questi ragazzi entrano in un giro economico in cui tutti approfittano di tutti. Tutto diventa lecito pur di riuscire ad accumulare i soldi necessari per partire. Da quando sono qua, la questione migratoria mi lascia senza fiato. È un’ingiustizia, è il povero che approfitta del povero. Forse dietro al primo povero c’è qualcuno di più potente che approfitta, ma apparentemente non c’è più rispetto per nessuno, tutto è lecito pur di fare i soldi destinati al passaggio.

 

Da quanto tempo vive a Meknès?

 

Dall’ottobre 2020. In Italia mi occupavo dei giovani, ma l’ambito caritativo fa parte della mia vocazione. Prima di arrivare qui abitavo a Bologna, dove ero cappellano del carcere minorile. Inoltre, collaboravo con la Comunità Papa Giovanni XXIII per il recupero delle prostitute contro la tratta. Io devo ringraziare il Marocco, perché adesso riesco a capire meglio i tanti ragazzi che seguivo nel carcere minorile. Adesso comincio a masticare un pochino la loro cultura e capisco alcune storture che non riuscivo a capire in Italia, perché questa è una cultura molto diversa dalla nostra. E soltanto se si parte da questa diversità si può cominciare ad accogliere e ad aprirci all’ascolto dell’altro, altrimenti si rischia di giudicare e basta.

 

Può raccontarci la realtà della Chiesa locale?

 

Con il vescovo utilizziamo tre aggettivi per definire la Chiesa marocchina: nera, maschile e giovane. È nera perché a parte le zone in cui c’è ancora qualche ex colono (Tangeri, Rabat, Casablanca, Marrakech), la Chiesa in Marocco è fatta di persone provenienti dall’Africa subsahariana. Sono migranti e studenti con borse di studio che vengono in Marocco per la propria formazione professionale. Alcuni arrivano con il sogno di potersi fermare, altri desiderano specializzarsi per poi tornare nel proprio Paese oppure andare in Europa. Il 98% dei cattolici, perciò, sono di origine subsahariana. È una Chiesa maschile, perché per una donna questo non è un contesto semplice, anche se effettivamente stanno aumentando le donne che vengono qua. E infine, è una Chiesa giovane, fatta di persone mediamente sotto i 30 anni. Quando sono arrivato in Marocco, la cosa che accendeva il mio cuore era il dialogo interreligioso. Non avevo però considerato i migranti: per me la questione era convivere con una fede diversa, poter testimoniare un’amicizia tra fedi diverse, per loro invece il dialogo interreligioso non è la priorità, perché hanno problemi molto più grandi. Loro pensano a sopravvivere, non a fare amicizia con i marocchini. Questo è stato un aspetto imprevisto. L’esperienza in Marocco, comunque, mi sta dando tantissimo. La Chiesa africana è molto diversa, con questi ragazzi bisogna trovare una pastorale adeguata. Da un certo punto di vista, bisogna provare a fargli trovare qualcosa di quello che hanno lasciato nel Paese d’origine, per far sì che si sentano accolti e si sentano un po’ a casa. Dall’altro bisogna trovare un sistema di evangelizzazione, di pastorale e di formazione adeguato a un tempo molto ridotto, perché qui c’è un ricambio di persone continuo. La domanda è come inserirsi in questo tempo di vita per loro e di cammino di fede. È una bella sfida. Io ringrazio il Signore di questo, perché si cambia continuamento l’orizzonte e perché per forza di cose, cambiando le persone deve cambiare anche la risposta. Un nostro ministro generale utilizzava questa immagine molto esplicativa: quando abbiamo pronta la risposta, cambia la domanda. È proprio così, però è bello sentirsi in una Chiesa che è in cammino e che cerca di accompagnare.

 

 

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