A due anni dal 7 ottobre 2023, il conflitto innescato dall’attacco di Hamas si avvia forse verso una conclusione. Un tragico biennio che non è solo un capitolo nella storia della questione israelo-palestinese, ma uno snodo epocale le cui conseguenze peseranno a lungo
Ultimo aggiornamento: 07/10/2025 12:42:14
Il secondo anniversario dell’attacco del 7 ottobre 2023 potrebbe coincidere, e ce lo auguriamo vivamente, con l’inizio della fine della guerra scatenata dal “Diluvio di al-Aqsa”. Purtroppo, anche a prescindere dalla data della sua conclusione, essa è già la più sanguinosa nella storia dei conflitti arabo-israeliani e israelo-palestinesi. Tale eccezionalità fa di questa guerra più di un semplice, nuovo capitolo di una dolorosa sequenza. Il 7 Ottobre, con tutto quello che ne è seguito, è uno snodo epocale. Ancora non possiamo calcolarne tutte le implicazioni, ma alcune sono di portata tale da consentire qualche valutazione.
C’è innanzitutto la conseguenza più immediata e concreta: l’ostilità, la profonda diffidenza e probabilmente l’odio che sempre più separano ebrei e palestinesi. In una bellissima e struggente intervista, il Cardinal Pizzaballa ha recentemente ricordato che la sospensione dei combattimenti armati non equivale alla fine del conflitto e ha insistito sul lavoro che occorrerà portare avanti perché ognuna delle due comunità riconosca le responsabilità proprie e il dolore dell’altro.
Per contribuire a questo lavoro è bene mettere a fuoco i cambiamenti profondi che la guerra ha innescato o portato alla luce. Uno di questi riguarda l’evoluzione e le scelte d’Israele. Quest’ultimo è nato come patria in cui gli ebrei potessero finalmente vivere al sicuro dopo le persecuzioni subite in Europa. L’efferata operazione di Hamas, il più grave attentato compiuto contro degli ebrei dalla fine della Shoah, ha fatto crollare questa certezza, ma ha anche evidenziato i grossi limiti delle politiche attuate negli ultimi decenni da Israele per ristabilire, come si è letto e sentito tante volte, una “deterrenza” che appare sempre più chimerica. Azioni militari, espansioni territoriali, muri e barriere di vario tipo hanno semplicemente alzato il livello dello scontro, producendo più problemi di quelli che intendevano risolvere. E se i tanti fronti aperti dopo il 2023 hanno permesso allo Stato ebraico di assestare un duro colpo ai suoi nemici esterni, il semplice uso della forza non lo garantisce contro l’odio e il risentimento che le sue azioni inevitabilmente producono.
In secondo luogo, questo tragico biennio ha rimosso la spessa coltre d’indifferenza che per molto tempo aveva ricoperto la questione palestinese. Si potrebbe dire, e qualcuno l’ha forse detto, che è questo il vero risultato conseguito da Hamas, che ha invece fallito l’obiettivo dichiarato di avviare una guerra di liberazione generalizzata, capace di mobilitare a cerchi concentrici prima i palestinesi della Cisgiordania, di Gerusalemme e d’Israele, quindi i membri dell’Asse della Resistenza a guida iraniana, e infine tutti i Paesi arabi e musulmani del mondo. In realtà, la rinnovata attenzione verso la condizione palestinese non è tanto l’esito dell’operazione del movimento islamista, quanto l’effetto della brutalità della risposta israeliana. Tollerata a lungo a livello internazionale, la trasformazione di Israele in un Superstato svincolato da qualsiasi legge comune inizia a suscitare un’opposizione crescente in settori cospicui dell’opinione pubblica occidentale. Le tante manifestazioni recentemente organizzate in Italia e in altri Paesi europei indicano una salutare presa di coscienza, che tuttavia non va sprecata nella riproposizione di uno scontro ideologico tra visioni massimaliste.
Il sommarsi di questi processi sta intanto creando un progressivo rovesciamento dei termini del problema. Israele, ricordavamo all’inizio, è nato per dare a un popolo privo di una terra una patria in cui sentirsi finalmente al sicuro dopo gli orrori patiti in Europa. Ora è lo Stato ebraico a essere sul banco degli imputati, accusato di un abominio simile a quello subito dagli ebrei nel secolo scorso. E se il ricorso alla categoria del genocidio è tutt’altro che unanime, rimane innegabile che Israele abbia commesso gravi crimini contro l’umanità, tra cui tentare una pulizia etnica della Striscia di Gaza che per il momento è almeno parzialmente scongiurata dalla proposta di pace del presidente Trump. Allo stesso tempo, oggi è quello palestinese il popolo che aspira ad avere finalmente uno Stato e un territorio propri. Per quanto simbolico, il riconoscimento della legittimità di questa aspirazione da parte di un numero crescente di governi europei segnala un cambiamento non trascurabile, che tuttavia è destinato a rimanere lettera morta se non si tradurrà in un impegno stabile.
Ma decenni di ostilità, e in particolare quest’ultima guerra, hanno anche fatto riemergere in Europa un preoccupante antisemitismo, che rischia di ricreare un clima simile a quello che alla fine dell’Ottocento aveva spinto alcuni intellettuali ebrei a dar vita al sionismo politico.
Il piano americano in discussione in queste ore ha il merito di interrompere la fase più distruttiva del conflitto. Non risolve, ma neppure affronta, i nodi decisivi della questione. È comunque l’unico spiraglio che si è aperto in questi due anni. Come ha scritto ancora il Cardinal Pizzaballa, «la fine della guerra non segna necessariamente l’inizio della pace. Ma è il primo passo indispensabile per cominciare a costruirla. Ci attende un lungo percorso per ricostruire la fiducia tra noi, per dare concretezza alla speranza, per disintossicarci dall’odio di questi anni. Ma ci impegneremo in questo senso, insieme ai tanti uomini e donne che qui ancora credono che sia possibile immaginare un futuro diverso.». Sono parole indirizzate alla Diocesi del Patriarcato Latino di Gerusalemme, ma valgono per tutti.