In Turchia, l’identità dello Stato e l’identità della società stanno divergendo: mentre la religione è sempre più utilizzata dalla politica in tutti gli ambiti, le giovani generazioni hanno iniziato a prendere le distanze dall’Islam. Uno sviluppo che offre alcuni indizi sul futuro del Paese

Ultimo aggiornamento: 14/07/2022 14:30:18

A metà del 2020 la chiesa di Santa Sofia, museo dal 1934, è stata riconvertita in moschea. Il partito Giustizia e Sviluppo (AKP), al potere in Turchia dal 2002, ha annunciato il provvedimento con una dura e arcaica retorica nazionalista, descrivendo la conversione in termini di «diritto di conquista»[1]. Questa mossa ha scioccato le componenti non-musulmane e laiche della Turchia, e ha deluso profondamente alcuni gruppi che continuano a sperare nell’AKP, partito che apparentemente governa la Turchia in maniera indipendente ma in realtà è collegato con vari circoli di potere statale e sociale.

La conversione di Santa Sofia è stata oggetto di un grande dibattito incentrato sulla questione del patrimonio culturale mondiale, ma che tocca anche il tema dello scontro di civiltà. Tuttavia, la gravità del fatto e il crescente autoritarismo etno-religioso dell’AKP hanno ostacolato la discussione.

 

Purtroppo, non è la prima volta che un luogo di culto adibito a museo o un luogo di culto attivo viene convertito in moschea sotto il governo dell’AKP. La trasformazione di chiese cristiane armene, siriache e ortodosse, dismesse o in uso, in moschee che vengono poste sotto l’egida del Direttorato degli Affari religiosi (Diyanet Isleri Baskanligi, d’ora in avanti Diyanet) è stato un fenomeno ricorrente nell’era del partito di Erdoğan[2]. Questo è indubbiamente un segnale dell’importanza che l’Islam ha acquisito durante il governo dell’AKP, sia come strumento che come obiettivo. Per di più, negli ultimi anni il capo del Diyanet ha presenziato insieme al presidente Erdoğan a molte cerimonie di inaugurazione di nuove moschee accompagnate da preghiere, una pratica che contraddice la peculiare concezione peculiare della laicità della Turchia. Inoltre, più recentemente il capo del Diyanet è salito di 21 livelli nel protocollo di Stato, collocandosi al dodicesimo, senza che ciò fosse previsto da alcuna disposizione di legge.

 

Mentre la religione e il suo rappresentante ufficiale, il Diyanet, hanno assunto una posizione di grande importanza e forza nei ranghi dello Stato turco, le élite politiche straniere hanno iniziato a guardarlo con sospetto. Per esempio, la branca tedesca del Diyanet, che dalla fine degli anni ’70 apre moschee in Germania e nomina i loro imam, nel 2017 è stata indagata con l’accusa di aver raccolto informazioni sui dissidenti turchi e aver collaborato con i servizi segreti turchi[3]. Nel 2018, il governo austriaco ha tentato di chiudere le moschee finanziate dal governo turco sulla base dei loro possibili legami con il radicalismo. Più recentemente, nel 2021, il presidente francese Macron ha accusato la Turchia di essersi intromessa nelle elezioni francesi attraverso l’influenza che gli enti religiosi presenti in Francia esercitano sulla diaspora musulmana, e ha dichiarato che queste organizzazioni potrebbero essere soggette a un controllo più rigoroso[4]. Se questa è la situazione in Occidente, la Turchia sta costruendo grandi moschee e inviando imam in ogni dove, da Tirana a Bishkek, da Mogadiscio all’Avana, come parte dei suoi sforzi per ergersi a protettore del mondo musulmano.

 

La proiezione di due rappresentazioni della religione completamente scollegate da parte della Turchia denota una situazione decisamente paradossale. Le ragioni di questo paradosso sono molteplici, e riguardano per esempio le relazioni di potere tra i Paesi e il fatto che gli Stati hanno identità diverse. Eppure, lo stesso paradosso emerge in Turchia in modo specifico. Mentre la religione è utilizzata dalla politica in tutti gli ambiti, specialmente nell’istruzione, le generazioni più giovani in particolare hanno iniziato a prendere le distanze dall’Islam e a identificarsi con correnti filosofiche come il deismo, l’agnosticismo, il panteismo e il materialismo. Tale sviluppo, che dimostra come l’identità dello Stato e l’identità della società stiano divergendo, offre delle chiavi di lettura sul futuro della Turchia. Per comprendere questa trasformazione paradossale è necessario esaminare il rapporto tra Stato, religione e società nell’era precedente all’AKP e in quella dell’AKP. Questa lettura ci fornisce una prospettiva più ampia che riguarda non solo la Turchia, ma tutto il mondo musulmano e il ruolo della religione nella politica.

 

Religione, politica e società nella Turchia pre-AKP

 

La modernizzazione dell’Impero ottomano, della società turca o semplicemente della Turchia risale al XVI secolo e ha una storia che segue la storia globale della modernizzazione[5]. In effetti, a partire dal primo quarto del XVIII secolo si cominciarono a redigere piani di riforma dell’istruzione, dell’amministrazione e delle relazioni sociali, che però non portarono a cambiamenti significativi a causa di fattori sia interni che esterni. Questa eredità, fatta di continuità e rotture, sarebbe stata ripresa in seguito dall’élite fondatrice della Repubblica di Turchia, ovvero Mustafa Kemal e i suoi compagni. La dialettica tra continuità e rottura emerge chiaramente analizzando il rapporto tra religione, politica e società, che svolge un ruolo importante nell’identità dello Stato turco[6]. Si tratta di un tema cruciale, tanto più che esso spiega non soltanto il passato della Turchia, ma si candida a determinarne il futuro.

 

Le élite fondatrici della Repubblica affermavano di aver introdotto un sistema completamente nuovo, ma dietro ai loro grandi cambiamenti si nascondeva una continuità metodologica rispetto alla religione. In altre parole, esse abolirono il califfato e istituirono la repubblica, ma solo per fondare il Diyanet, un organismo che ricorda da vicino le istituzioni semi-burocratiche e semi-politiche che controllavano la religione in epoca bizantina e ottomana[7]. Quindi, se da un lato la classe dirigente della nuova Turchia repubblicana eliminò le cariche di vertice storicamente occupate dai musulmani sunniti, dall’altro esse utilizzarono il Diyanet per assumere il controllo della ricostruzione e della direzione religiosa generale. Allo stesso tempo, dichiarando illegali tutte le confraternite e le sette religiose, crearono un monopolio sull’Islam sunnita. Sebbene questo sistema non riconoscesse alcun posto agli aleviti o ai non-musulmani, i padri fondatori affermavano che esso stabiliva una separazione tra religione e Stato. Lo si potrebbe definire la forma turca di laicità, che non prevede una separazione completa tra religione e politica. Piuttosto, è la pratica politica di controllare la sfera religiosa e allinearla ai propri desideri[8]. Da questo punto di vista, è molto diversa sia dalla laicità anglosassone che dal modello francese di laïcité. Tuttavia, il desiderio di controllo dei padri fondatori, una situazione che essi pensavano sarebbe continuata per sempre, non ha funzionato come immaginavano: le dinamiche sociali e i diversi interessi politici hanno fatto saltare i loro piani.

 

Innanzitutto va sottolineato che nonostante tutti i proclami dell’élite repubblicana, le comunità religiose e le sette non scomparvero mai del tutto dalla società. Il nuovo e non particolarmente potente Diyanet della Repubblica non poteva competere con queste strutture storiche ben consolidate. Questo stato di cose divenne chiaro negli anni ’40, quando iniziò la transizione verso un sistema multipartitico. La consapevolezza che le strutture religiose erano una via importante e relativamente veloce verso il potere e l’influenza, e che la religione poteva essere trasformata in voti, spinse non solo i partiti di destra ma anche il Partito popolare repubblicano (Cumhuriyet Halk Partisi, CHP), fondatore della forma turca di laicità, a fare di tutto per stabilire relazioni con le strutture religiose, in particolare in Anatolia. Per quanto possa sembrare che questa dinamica sia stata alterata dalla serie di colpi di Stato militari iniziata nel 1960, o che ci fosse almeno un interesse a cambiarla, in realtà ciò non avvenne. Al contrario il riemergere della religione sulla scena politica tra il 1960 e il 1980 creò una struttura istituzionale dell’Islam politico, dalla quale successivamente sarebbe nato l’AKP. Questi furono anche gli anni in cui, in sintonia con le tendenze globali, le comunità religiose in Turchia iniziarono a organizzarsi a livello pubblico e a diversificarsi. Fu in questo contesto che nacque il movimento Gülen, il quale nei primi anni 2000 avrebbe intessuto rapporti stretti con l’AKP per poi scontrarvisi fino ad arrivare alla situazione attuale della politica turca[9].

 

Negli anni ’80 e ’90 del Novecento la Turchia si trasformò integrandosi maggiormente con il resto del mondo, così come era già accaduto a partire dal XVII se non addirittura dal XVI secolo. Mentre la politica si adattava a un ordine capitalista neoliberale secondo le regole del libero mercato, anche le strutture sociali e religiose dovettero adeguarsi alle condizioni dell’economia di mercato[10]. Gradualmente, queste strutture religiose evolvettero verso la classe media e acquisirono forza politica, vincendo prima le elezioni municipali a Istanbul e Ankara e diventando poco dopo il principale partner del governo centrale. Gli islamisti però entrarono in un conflitto latente con l’esercito, che si considerava il fondatore dello Stato e, in seguito al colpo di Stato “postmoderno” del 28 febbraio 1997, furono rimossi dal potere. O quanto meno fecero credere alla gente di essere stati rimossi dal potere, inaugurando anni di preparazione che avrebbero portato al cambiamento della Turchia.

In breve, l’intricato rapporto tra religione, politica e società in Turchia non è iniziato nel periodo repubblicano, ma è stato la continuazione di un’eredità di più vecchia data che ha avuto lo stesso andamento della politica globale. Riguardo a questa continuità, possiamo dire che gli angoli del triangolo religione-politica-società sono irrevocabilmente vincolati tra loro dall’interesse.

 

Gli anni dell’AKP: la degenerazione degli islamisti

 

Dopo gli eventi del 28 febbraio, gli islamisti si resero conto che se avessero preso il potere entrando in conflitto con lo Stato o con il sistema globale non sarebbero riusciti a mantenerlo a lungo. Annunciarono perciò di essere cambiati e di aver rotto con le proprie origini, fondando l’AKP sotto la guida dell’ex sindaco di Istanbul Recep Tayyip Erdoğan. Sebbene la maggior parte dei membri fondatori dell’AKP fossero devoti, il partito promise di non mescolare religione e politica e di agire in sintonia con le norme occidentali, comprese quelle dell’Unione Europea, dichiarando che il suo obiettivo principale era porre fine alla rigida tutela laica militare e rendere la Turchia un Paese pluralista compatibile con il sistema globale. Questo discorso fu accolto favorevolmente nei circoli liberali e persino in alcuni circoli di sinistra. Così, dopo aver conquistato i voti della destra conservatrice tradizionale alle elezioni del 2002, l’AKP salì al potere. Fino al 2007 il partito introdusse diverse innovazioni soprattutto rispetto all’UE e seguendo lo sviluppo del sistema economico globale riuscì a far crescere l’economia turca. Inoltre, l’AKP acquisì popolarità sulla scena mondiale presentando proposte radicali per risolvere i problemi cronici della Turchia, come quelli con Cipro e con l’Armenia. Mentre cresceva il sospetto verso l’Islam a causa degli attacchi terroristici dell’11 Settembre, l’AKP sembrava essere la prova che l’Islam e la democrazia potevano convivere[11]. Tuttavia, dietro le quinte le cose non erano così sane e trasparenti come sembravano. Da un lato, lo Stato distribuiva risorse ai sostenitori dell’AKP e alle comunità religiose, dall’altro iniziava a svilupparsi una classe media devota e conservatrice. Ciò ha creato una situazione in cui un governo con una sensibilità religiosa distribuiva risorse in modo non patrimoniale, utilizzando la religione come veicolo e come criterio.

 

Il 2006-2007 vide nascere una collaborazione d’interesse tra il movimento Gülen e l’AKP. Il movimento Gülen può essere descritto come una struttura multistrato che ha allo stesso tempo obiettivi religiosi e orientati al perseguimento di denaro e potere[12]. Questa partnership nacque inizialmente per creare un’alternativa alla struttura politica e sociale kemalista laica, che aveva stretti legami con l’esercito, e successivamente per eliminarne i sostenitori. Mentre l’AKP permise ai quadri gülenisti di accedere alla burocrazia giudiziaria e ai servizi di sicurezza, il movimento Gülen difese l’AKP sia con i suoi funzionari che con i suoi mezzi d’informazione, in Turchia e nel mondo. Sebbene questa relazione si sia manifestata soprattutto nella sfera economica e religiosa, essa riuscì a neutralizzare i quadri kemalisti e laici. Alla luce di tutto ciò, possiamo considerare gli anni compresi tra il 2006 e il 2012 come il periodo in cui la Turchia iniziò a trasformarsi secondo una visione occulta di religiosità. Questa trasformazione dell’identità dello Stato turco si sarebbe vista negli anni a venire.

 

L’ufficiosa e insolita coalizione tra l’AKP e il movimento Gülen agì fino al 2012-2013, riuscendo, o quanto meno credendo in quel momento di essere riuscita, a estromettere i blocchi di potere kemalisti dai ranghi dello Stato. Negli stessi anni, le due anime della coalizione ingaggiarono una lotta spietata causata apparentemente da divergenze ideologiche e di principio, ma in realtà innescata da disaccordi sulla spartizione delle spoglie del governo[13]. Fu questa lotta a produrre nella Turchia e nell’AKP governata e guidato da Erdoğan un cambiamento inedito. Per quanto vari fattori, come la congiuntura globale, le caratteristiche personali di Erdoğan e l’evoluzione economica, abbiano giocato un ruolo, la religione è stata senz’altro un fattore determinante. Da un lato l’AKP considerava il movimento Gülen un gruppo terroristico che si era infiltrato nello Stato e intendeva distruggerlo, dall’altro il movimento Gülen riteneva l’AKP una struttura politica religiosa estremista, repressiva e corrotta che aveva rotto con l’Occidente. Questa lotta è continuata sia in Turchia sia in altri Paesi del mondo fino al tentato golpe del 15 luglio 2016, che ha visto coinvolto il movimento Gülen ma i cui dettagli sono tuttora poco chiari. Il tentato colpo di Stato provocò l’emarginazione e la distruzione parziale del movimento Gülen e consegnò all’AKP e a Erdoğan un regime ormai senza vincoli[14].

 

Da quel momento l’AKP, che si è trasformato in tre direzioni, trasformando anche la Turchia, ha creato la situazione paradossale che ho riassunto all’inizio di questo articolo. In primo luogo, Erdoğan e il suo partito hanno adottato un discorso più nazionalista e devoto per garantirsi la loro base elettorale a fronte del conflitto politico interno e dei problemi economici causati da sviluppi inattesi. In secondo luogo, dal 2017 Erdoğan ha introdotto un sistema presidenziale in stile turco, auto-dichiarandosi il solo e unico leader e scegliendo di utilizzare una terminologia religiosa per legittimare questa dichiarazione. Il terzo aspetto riguarda le comunità islamiche. Nel momento in cui l’AKP ha messo in ginocchio un’organizzazione enorme e influente come il movimento Gülen, altre organizzazioni islamiste hanno scelto di seguire la linea dell’AKP. Ciò, a sua volta, ha garantito a queste organizzazioni una maggiore visibilità e influenza sia nella sfera pubblica che in quella politica e ha prodotto un cambiamento nell’identità dello Stato[15].

 

Tutte queste trasformazioni non significano però che l’AKP stia governando una Turchia senza problemi. La Turchia infatti è alle prese con molti problemi strutturali che sta cercando di superare usando un discorso religioso. Per esempio, durante il governo dell’AKP in Turchia è aumentato il numero di femminicidi[16] e dei suicidi legati alla povertà, e si è allargato il divario tra ricchi e poveri. Inoltre, mentre cresce la corruzione e la Turchia precipita nelle classifiche relative alla democrazia, l’importanza attribuita alla religione a scapito delle altre questioni è una delle principali fonti di malcontento. Nel 2021 il budget del Diyanet è stato superiore a quello di 7 ministeri, oltre al fatto che la Turchia è il Paese con il maggior numero di moschee pro capite al mondo. Inoltre, diversi ministeri e istituzioni burocratiche sembrano essere sotto il controllo delle comunità islamiche, ciò che ha portato la Turchia a reagire, sia nella sfera interna che esterna, in maniera inconsueta. Ciò può essere collegato direttamente a un cambiamento nell’identità dello Stato.

 

La religione nel futuro della Turchia

 

Uno dei più grandi paradossi dell’AKP riguarda la religione. Un governo che dice di avere una sensibilità religiosa si è rivelato responsabile di molte azioni riprovevoli, e questo ha portato da un lato le generazioni più giovani a prendere le distanze dalla religione, soprattutto a partire dal 2019, dall’altro a una maggiore popolarità dei gruppi kemalisti. Tale situazione non può essere letta in termini totalmente negativi, ma è molto difficile sapere come questi gruppi potrebbero interagire con i settori religiosi della società qualora ci fosse un cambio di regime. È anche difficile sapere in che misura gli islamisti saranno disposti a cedere il potere, dei cui vantaggi hanno beneficiato a partire dalla metà degli ’90, prima a livello locale e poi su scala nazionale. In questo contesto, il tema della religione non riguarda solo la lettura del passato o la comprensione del presente, ma rimane un criterio importante anche per definire il futuro della Turchia. È però necessario sottolineare un ultimo punto: nel caso della Turchia la religione non va mai letta isolatamente. Solo leggendola in relazione alla politica, alle relazioni di potere e all’identità essa assume un significato.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
 
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[1] Per ulteriori informazioni su questa complicata questione, si veda Ahmet Erdi Ozturk, Turkey’s Hagia Sophia decision: the collapse of multiculturalism and secularism or something more?, 3 agosto 2020, https://contendingmodernities.nd.edu/global-currents/hagia-sophia-multiculturalism/; e Ahmet Kuru, Hagia Sophia, Islamism, and secularism in Turkey, 17 luglio 2020, https://berkleycenter.georgetown.edu/responses/hagia-sophia-islamism-and-secularism-in-turkey
[2] Ahmet Erdi Öztürk, Turkey’s Diyanet under AKP rule: from protector to imposer of state ideology?, «Southeast European and Black Sea Studies», vol. 16, n. 4 (2016), pp. 619-635.
[3] Ahmet Erdi Öztürk, Does Turkey use ‘spying imams’ to assert its powers abroad?, «The Conversation», 15 aprile 2017, https://theconversation.com/does-turkey-use-spying-imams-to-assert-its-powers-abroad-75643
[4] Yusuf Ozcan, Macron maintains claims of Turkish elections meddling, «Anadolu Agency», 26 marzo 2021, https://www.aa.com.tr/en/europe/macron-maintains-claims-of-turkish-elections-meddling/2189442
[5] Metin Heper, The Ottoman legacy and Turkish politics, «Journal of International Affairs», vol. 54, n. 1 (2000), pp. 63-82.
[6] Ahmet Erdi Öztürk, Religion, identity and power: Turkey and the Balkans in the twenty-first century, Edinburgh University Press, Edinburgh 2021.
[7] İstar B.Gözaydın, Diyanet and politics, «The Muslim World», vol. 98, nn. 2-3 (2008), pp. 216–227; Chiara Maritato, Women, religion, and the state in contemporary Turkey, Cambridge University Press, Cambridge 2020; Ceren Lord, Religious politics in Turkey: From the birth of the Republic to the AKP, Cambridge University Press, Cambridge 2018.
[8] Ahmet T. Kuru, Secularism and state policies toward religion: The United States, France, and Turkey, Cambridge University Press, Cambridge 2009.
[9] Hakan Yavuz, Toward an Islamic enlightenment: the Gülen movement, Oxford University Press, Oxford 2013.
[10] Ayşe Buğra and Osman Savaşkan, New capitalism in Turkey: The relationship between politics, religion, and business, Edward Elgar Publishing, Cheltenham-Northampton 2014.
[11] Sultan Tepe, Turkey’s AKP: a model ‘Muslim-Democratic’ party?, «Journal of Democracy», vol. 16, n. 3 (2005), pp. 69-82.
[12] Simon P. Watmough e Ahmet Erdi Öztürk, From ‘diaspora by design’ to transnational political exile: the Gülen Movement in transition, «Politics, Religion & Ideology», vol. 19, n. 1 (2018), pp. 33-52.
[13] Hakkı Taş, A history of Turkey’s AKP-Gülen conflict, «Mediterranean Politics», vol. 23, n. 3 (2018), pp. 395-402.
[14] Ihsan Yilmaz e Galib Bashirov, The AKP after 15 years: emergence of Erdoganism in Turkey, «Third World Quarterly», vol. 39, n. 9 (2018), pp. 1812-1830.
[15] Ahmet Erdi Öztürk, An alternative reading of religion and authoritarianism: the new logic between religion and state in the AKP’s New Turkey, «Southeast European and Black Sea Studies», vol. 19, no. 1 (2019), pp. 79-98.
[16] Bethan McKernan, Murder in Turkey sparks outrage over rising violence against women, «The Guardian», 23 luglio 2020, https://www.theguardian.com/world/2020/jul/23/turkey-outrage-rising-violence-against-women

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