Dopo anni di compromessi forzati, la crisi yemenita è entrata in una fase nuova in cui la questione del Sud torna a imporsi. Il rischio della secessione e la crisi tra Emirati Arabi e Arabia Saudita

Ultimo aggiornamento: 16/12/2025 11:10:30

La proclamazione di uno stato del sud dello Yemen non è mai stata così vicina dalla riunificazione del 1990. Solo sul piano territoriale, però. Perché tutt’altro discorso è capire se lo scenario della partizione prevarrà, travolgendo interessi di sicurezza altri e tentativi di mediazione, soprattutto dell’Arabia Saudita.

Ora che i secessionisti del Consiglio di Transizione del Sud (STC), sostenuti informalmente dagli Emirati Arabi Uniti (EAU), hanno preso il controllo, in sole quarantotto ore (3-4 dicembre), di due grandi governatorati dell’est, Hadhramaut e Mahra, l’equilibrio precario che aveva fin qui congelato il conflitto in Yemen si è rotto.

I prossimi giorni saranno decisivi per scoprire se un altro equilibrio, seppur instabile, sarà trovato, stemperando così lo scontro. O se lo Yemen, in guerra dal 2015, entrerà in una fase politico-militare nuova, non priva di riflessi regionali.

 

Tre livelli di scontro

Ciò che sta accadendo nell’est yemenita ha tre livelli di lettura, inestricabilmente legati l’un l’altro. Il primo riguarda l’epicentro della contesa, ovvero l’Hadhramaut, regione che ospita nelle valli settentrionali l’80% delle risorse di petrolio e gas del paese: prima del golpe degli Houthi a Sanaa e della guerra, quindi prima del 2014-15, la rendita energetica, seppur in declino, rappresentava ancora il 70% delle entrate del governo yemenita.

Il secondo livello è quello nazionale, ovvero la contrapposizione, interna al fronte anti-Houthi, tra i secessionisti e le forze che sostengono il governo riconosciuto e rilocato ad Aden, tra cui l’esercito e gruppi paramilitari come le Nation Shield Forces (NSF), che rispondono direttamente al capo del Consiglio della Leadership Presidenziale (PLC), ovvero l’organo inclusivo di presidenza creato nel 2022.

C’è poi un terzo livello di lettura, che nelle analisi e sui media tende quasi sempre a prevalere offuscando i primi due: la rivalità geostrategica fra gli Emirati Arabi e l’Arabia Saudita, con quest’ultima che difende l’unità dello stato yemenita, quindi il governo e il capo del PLC Rashid Al Alimi. L’uomo che, insieme al primo ministro, ha lasciato il Palazzo presidenziale di Aden per riparare (di nuovo) a Riyadh durante l’avanzata dell’STC.

 

Il compromesso del 2019

In Yemen, la competizione geopolitica tra emiratini e sauditi dura da un decennio e come un fiume carsico torna periodicamente in superficie. Il momento di scontro più acuto fu l’estate del 2019, quando filo-emiratini e filo-sauditi si combatterono per le strade di Aden. La guerra civile nella guerra civile fu a un passo. A bloccarla fu la mediazione delle due potenze regionali – alleate nel combattere gli Houthi nel nord ovest, rivali nella contesa per l’influenza nel sud – mediante l’Accordo di Riyad, che sancì lo stop ai combattimenti e l’ingresso dell’STC nel governo.

Un compromesso ai limiti della realtà: i secessionisti accettarono di entrare a far parte di un esecutivo dichiaratamente pro-unità nazionale. Nonché dell’esercito, seppur solo formalmente. La stessa logica che vide poi nel 2022 il leader dell’STC Aydarous Al Zubaidi diventare uno dei vicepresidenti del PLC voluto dai sauditi: ovvero il numero due di uno Stato, quello yemenita, da cui i nostalgici della Repubblica Democratica Popolare dello Yemen vorrebbero staccarsi.

Così, se nel breve periodo la tattica inclusiva di Riyadh ha permesso di tenere insieme le anime diverse che si contrappongono agli Houthi, nel medio periodo i secessionisti hanno vinto la loro scommessa: penetrare lo Stato e le sue istituzioni per posizionarsi e trarne il maggior vantaggio possibile, aspettando il momento giusto per sferrare lo “scacco matto” al potere centrale. L’esclusione dell’STC – e dello stesso governo di cui è parte – dai colloqui per il cessate il fuoco tra sauditi e Houthi nel 2022-23 è stato il primo segnale, agli occhi dei secessionisti, che il tempo dello showdown si avvicinava.

Il forte peggioramento della situazione economica, i frequentissimi blackout elettrici, le proteste popolari (specie nei centri urbani del sud di fatto guidati dall’STC), e infine il cessate il fuoco a Gaza, con lo stop degli attacchi Houthi fuori dallo Yemen, hanno spinto Al Zubaidi a procedere con la mossa decisiva: prendere tutto l’Hadhramaut e Mahra, provocando fin qui deboli, scoordinate reazioni armate. Dopo il doppio blitz, l’STC controlla ora i governatorati del sud yemenita dall’ovest all’est: parte di Al-Dhalae, Lahj, Aden, Abyan, Shabwa, Hadhramaut, Mahra, più l’isola di Socotra.

 

Il microcosmo dell’Hadhramaut: tribù, sufi e interferenze esterne

La grande regione dell’Hadhramaut, di cui i secessionisti filo-emiratini hanno ora il controllo pressoché completo, è stata per anni l’ago della bilancia di quel fragile equilibrio ora in frantumi. Da un lato vi erano i secessionisti dispiegati nel sud costiero del governatorato e nel porto-capoluogo di Mukalla; dall’altro l’esercito yemenita a controllare il nord (qui con numerose unità nordiste e affiliate a Islah, il partito che raccoglie i Fratelli Musulmani e parte dei salafiti), conosciuto come Wadi Hadhramaut.

Per anni, questa è stata così una regione divisa in due, con la “valle del petrolio” a simboleggiare la linea da non valicare tra gli interessi dei secessionisti della costa e quelli dei governativi a nord.

Oltre al fattore legato al greggio, questa non è una regione come le altre. Già “perla” del protettorato britannico, l’Hadhramaut si affaccia sull’Oceano Indiano: i commerci e le diaspore hadhrami si estendono dall’Africa orientale all’India occidentale, fino al sud-est asiatico (Indonesia e Singapore).

Questa regione che è insieme deserto, valli e mare è un microcosmo della realtà yemenita composta da tribù e classi/strati sociali accomunati da un forte senso di identità locale, prima hadhrami e poi yemenita. Nel 2017, il governatorato ha negoziato con l’esecutivo centrale di trattenere localmente il 20% della rendita energetica: il culmine di una lotta pluridecennale contro il centralismo neopatrimoniale di Sana’a.

Oltre alle rivendicazioni centro-periferia, nell’odierna fase acuta della crisi pesano anche le tensioni “storiche” all’interno del campo sunnita tra l’Islam tradizionale locale, shafi‘ita come in gran parte dello Yemen, e i salafiti, che soprattutto i sauditi sostengono per rafforzare la propria influenza e che alcuni osteggiano. Qui sufismo ed élite religiosa si intrecciano. I sāda (sing. sayyid), ovvero l’élite religiosa che nella sua variante sciita del nord-ovest esprime la leadership degli Houthi, è presente nella sua variante sunnita anche nell’Hadhramaut, dove i sāda sono chiamati invece habā’ib (sing. habīb). Questi ultimi, presenti soprattutto nel nord della regione, ricoprono posizioni di rilievo negli ordini sufi locali, come nella celebre scuola di Tarim, seguendo una stretta politica matrimoniale interna.

L’escalation dell’STC sta preoccupando la comunità sufi: tra i gruppi armati – specie tra i non hadhrami – che hanno partecipato alla presa del nord della regione ci sono anche dei salafiti. Le rivolte popolari del 2011 contro il regime di Ali Abdullah Saleh e poi la creazione di milizie nel sud addestrate, armate e sostenute dagli Emirati Arabi, hanno favorito la militarizzazione di parte della galassia salafita. Un fenomeno nuovo rispetto alla tradizione quietista del salafismo yemenita, che adesso si interseca, in parte, con la causa separatista.

Di fronte all’appuntamento con la storia che l’STC vorrebbe di secessione, le tribù hadhrami – che rappresentano lo strato sociale prevalente anche nel governatorato – si presentano divise, logorate da un decennio di interferenze regionali e di conflitto, seppur vissuto soprattutto ai propri confini. Alcune sostengono i secessionisti e il loro sogno indipendentista, altre temono l’invadenza degli Emirati Arabi e il loro avventurismo con pochi freni. Altre ancora condividono gli sforzi dell’Arabia Saudita per mantenere la regione, seppur con una forte connotazione federale, all’interno dello Yemen unito.

Per l’Hadhramaut, in cui albergano anche aspirazioni indipendentiste – quindi autonome rispetto a un ipotetico Stato del Sud – la secessione dell’STC potrebbe essere un danno strategico. Di certo, un eventuale Stato del Sud godrebbe del sostegno materiale emiratino: ma il primo asset di ricchezza locale sarebbero proprio il petrolio e il gas dell’Hadhramaut, che andrebbe così a sostenere economicamente il resto del Paese.

Quasi una replica del pluridecennale conflitto centro-periferia tra Mukalla e Sana’a e poi tra Mukalla e Aden. Ecco perché, quando nel 2014 la presidenza ad interim dello Yemen approvò una riforma federale mai entrata in vigore (causa guerra) per riunire Hadhramaut, Shabwa e Mahra in un’unica macro-regione, furono molte le voci di malcontento a levarsi dal governatorato. Nel timore di dover alla fine pagare, tramite risorse e rendita, per tutti. Nella partita della secessione, è dunque l’STC ad aver bisogno dell’Hadhramaut, non il contrario.

 

I confini con Arabia Saudita (Hadhramaut) e Oman (Mahra)

Rispetto alla crisi del 2019, oggi l’Arabia Saudita può contare su alcuni attori armati proxy e alleati presenti nell’area, come le NSF volute e stipendiate da Riyadh, nonché le Hadhramaut Protection Forces guidate da Amr bin Abrish, uno dei vicegovernatori e già capo dell’Hadhramaut Tribal Alliance. Proprio le forze di bin Abrish, qualche giorno prima dell’offensiva secessionista, avevano preso il controllo di due settori del grande impianto petrolifero di PetroMasila nel Wadi Hadhramawt, poi occupati dall’STC: l’ultima di una serie di dimostrazioni locali contro lo status quo economico-energetico che è sopravvissuto alla caduta del regime di Saleh.

Di certo, l’escalation dei secessionisti rappresenta per l’Arabia Saudita un rischio di sicurezza. La presenza degli Houthi nel borderland del nordovest rende ancora più strategico il controllo del confine yemenita-saudita nell’Hadhramaut. Parallelamente, la frontiera ovest dell’Oman con la regione yemenita di Mahra è percepita dal Sultanato come un territorio di naturale influenza in cui presenze altre – specie indipendentiste – sono viste come potenziali minacce.

Difficile immaginare che sulla questione del controllo dei confini non vi possa essere un punto d’intesa tra sauditi, omaniti ed emiratini, anche nel quadro di un contrasto più efficace al contrabbando di armi per gli Houthi, che spesso sfruttano l’estrema porosità e informalità di queste aree per le linee di rifornimento.

Altrettanto difficile, però, è immaginare che la spinta dei secessionisti possa arrestarsi a un passo dal traguardo. E senza incontrare alcuna resistenza.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
 
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Oasiscenter
Abbiamo bisogno di te

Dal 2004 lavoriamo per favorire la conoscenza reciproca tra cristiani e musulmani e studiamo il modo in cui essi vivono e interpretano le grandi sfide del mondo contemporaneo.

Chiediamo il contributo di chi, come te, ha a cuore la nostra missione, condivide i nostri valori e cerca approfondimenti seri ma accessibili sul mondo islamico e sui suoi rapporti con l’Occidente.

Il tuo aiuto è prezioso per garantire la continuità, la qualità e l’indipendenza del nostro lavoro. Grazie!

sostienici