La sfida dell'integrazione in Francia si complica con il rafforzarsi della violenza. La via del dialogo è da cercare nella tradizione stessa dell’Islam

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:09:41

A gennaio, dopo le uccisioni alla redazione del settimanale satirico Charlie Hebdo e in un supermercato ebraico, ho scritto per il settimanale cattolico americano Our Sunday Visitor che i francesi potevano ormai capire come sarebbe una guerra nel XXI secolo. Quello che è accaduto a Parigi nella notte tra il 13 e il 14 novembre obbedisce a una logica già in opera. È tuttavia naturale essere sconvolti dalla violenza di un colpo inimmaginabile, anche se la sua eventualità non poteva essere ignorata e anche se avevamo già appreso che aggressioni di una simile barbarie erano state sventate. La sfida si ripropone ora con rinnovata gravità. La prima cosa da fare è cercare di capire le motivazioni dell'odio che suscita questi attacchi così ciecamente feroci. La vendetta in seguito ai bombardamenti francesi contro lo Stato islamico non spiega tutto. Perché sembra che queste rappresaglie omicide siano state organizzate e portate a termine da giovani nati e cresciuti in Francia, che sapevano dove e come agire, per fare più male possibile. Occorre quindi interrogarsi sul fallimento dell'integrazione di questi nipoti di immigrati, sulle frustrazioni che li hanno portati a partire e a tornare per uccidere più persone possibili prima di suicidarsi. Da qui nasce la questione di sapere se, di fronte a tali disfunzionalità, sia sufficiente brandire ancora una volta la bandiera dei "valori" come la libertà, l'uguaglianza, la fratellanza del motto repubblicano, aggiungendo la tolleranza, la democrazia, il pluralismo e la secolarizzazione. In un periodo di crescita economica quasi nulla, dove l'educazione stessa è in crisi perché non si sa più che cosa trasmettere e la scuola serve soltanto a selezionare, le diversità culturali e in particolare religiose accentuano la marginalizzazione. Questo solleva un terzo problema, forse il più acuto: quale riconoscimento accordare all'Islam, che è innegabilmente presente in Francia e nel nome del quale la Francia è sotto attacco? Nessuno si sogna naturalmente di prendere come pretesto questi avvenimenti per farne l'ideologia del nemico, e le condanne della barbarie terroristica da parte delle autorità musulmane di Francia non sono mancate. Resta il fatto che l'islamismo jihadista non può essere considerato come un'aberrazione che sparirà nel nulla da sola. Resta anche il fatto che il "culto" musulmano (come lo definisce la legislazione francese) non può essere trattato come il Cattolicesimo, a cui non sono estranei l'indipendenza della dimensione temporale e l'autonomia dello Stato, visto che li ha generati. Per fare realmente spazio ai suoi cittadini musulmani, la Francia ha dunque interesse sia a ripensare la sua nozione di laicità sia a comprendere meglio l'Islam - e non soltanto sul suo territorio, ma là dove è dominante, con le sue varianti e le sue divisioni. Non può attendere che sparisca o che si lasci assorbire nella mentalità maggioritaria dei Paesi dove costituisce una minoranza non trascurabile. Se non ci rassegniamo a un confronto a morte, è nella sua tradizione che si troveranno le risorse che permetteranno all'Islam di non essere né padrone, né schiavo, ma di rispettare e essere rispettato. E in parallelo, non è neutralizzandolo in nome della neutralità dello Stato che si riuscirà a integrarlo, perché accogliere richiede conoscere e persino amare.