Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:41:16

Ciascuno accoglie un avvenimento a partire dalla sua peculiare situazione. Così accade a me che ho partecipato, e con molta emozione, attraverso la televisione, alla celebrazione del venticinquesimo anniversario dell’incontro di preghiera per la pace promosso ad Assisi il 27 ottobre 1987 da Giovanni Paolo II. Io accolgo questo nuovo incontro dei rappresentanti delle grandi tradizioni religiose del mondo – e questa volta anche di alcuni agnostici di buona volontà – a partire da questa città di Tlemcen, nella quale ora vivo. Ho avuto occasione, questa mattina, di celebrare un’eucarestia, in comunione spirituale con questo anniversario, con la piccolissima comunità cristiana della città di Tlemcen. C’erano i due Padri Domenicani animatori del gruppo di studenti africani che costituiscono attualmente quasi tutta la nostra comunità. C’era una religiosa di Nostra Signora degli Apostoli, venuta dal vicino villaggio di Hennaya, dove lei e le sue sorelle assicurano una presenza di servizio e di amicizia in una località nella quale sono le uniche cristiane. Era presente un’unica laica, esponente della popolazione europea di un tempo, oggi interamente rientrata in Europa a seguito dell’indipendenza del Paese. E per finire, erano presenti i membri del Focolare maschile della città, che mi ospitano e che avevano appena concluso un incontro di riflessione spirituale con gli amici musulmani algerini del loro movimento apostolico. Questa mattina, pregando in profonda comunione con i rappresentanti delle religioni riuniti ad Assisi, di fatto pregavamo per affidare di nuovo a Dio ciò che costituisce la nostra specifica vocazione: quella di essere una piccolissima comunità cristiana in una città interamente musulmana e di cercare il modo di sviluppare con la popolazione della città rapporti di servizio e di amicizia che impegnino, attraverso di noi, la Chiesa nell’incontro con l’Islam e i musulmani. In fondo, celebrando l’anniversario di Assisi, noi stavamo celebrando la vocazione di tutti i cristiani che vivono in relazione quotidiana con gli uomini delle altre religioni. E questo non solo vale nei paesi dove la popolazione cristiana costituisce un’infima minoranza, come nel caso dell’Algeria: vale ugualmente in molti quartieri periferici delle grandi città dove tutte le appartenenze religiose sono ormai rappresentate. Così l’iniziativa di Giovanni Paolo II, che allora aveva un carattere chiaramente profetico, è diventata, venticinque anni dopo, il riconoscimento di una realtà che non sfugge più a nessuno. E che ha indotto Benedetto XVI, nella sua responsabilità di pastore universale, a dare a questo anniversario una risonanza pari a quella che caratterizzò l’incontro del 1986, al quale non era presente. Guardando questa celebrazione io pensavo in particolare alla piccola comunità cristiana di Libia che, nelle sue due diocesi di Tripoli e di Bengasi, ha attraversato con tutta la popolazione del Paese una grave crisi. E i cristiani di quella Chiesa erano sul campo, con le infermiere filippine spesso sole al lavoro negli ospedali, con i preti, le suore e i laici fedeli alla loro vocazione di servizio a una popolazione musulmana colpita dalla violenza. Come un tempo i monaci di Tibhirine, durante un’altra crisi, quella della società algerina. Si dà il caso che, per l’anno 2011, la città di Tlemcen sia stata scelta dall’Iseco (l’Unesco dei paesi musulmani) come Capitale della cultura islamica. Sono stati organizzati numerosi colloqui, con la partecipazione di universitari di tutti i paesi musulmani. Questa settimana in particolare l’incontro previsto era dedicato alla rievocazione dell’esodo forzato della popolazione musulmana dell’Andalusia dal XVI al XVII secolo. Ero stato invitato e ascoltavo, unico cristiano insieme a un altro, in un’assemblea musulmana nella quale contavo molti amici, la narrazione delle decisioni dell’Inquisizione e delle sofferenze delle popolazioni musulmane che al tempo dovettero scegliere tra l’esilio e l’abiura della loro fede musulmana per ordine di un potere cattolico e con l’appoggio della Chiesa. In tutte le storie delle nostre comunità religiose c’è un miscuglio di buono e di meno buono. L’attuale insistenza di Benedetto XVI sulla libertà religiosa, anche se non cancella il passato costituisce un necessario appello a favore dei diritti dell’uomo e del rispetto per ciascun essere umano. E noi oggi sappiamo delle prove subite, per esempio, dalla comunità cristiana dell’Iraq e di molti altri paesi. Il segno inviato da Assisi, per iniziativa della Chiesa cattolica è dunque un segno grande, prezioso per il nostro tempo, che chiama tutte le tradizioni religiose a un impegno sincero a favore della giustizia, della pace e del rispetto dell’uomo, di ogni uomo, di ogni donna, indipendentemente dal culto che pratica o dalla sua identità religiosa. È la libertà dell’atto di fede a farne un omaggio a Dio e un realizzarsi della persona del credente. Le religioni hanno la loro parte di responsabilità nelle travagliate vicende della giustizia e della pace. Il passato deve suggerire loro l’umiltà, ma anche la volontà, d’ora in poi, di onorare Dio rispettando l’essere umano, qualunque essere umano. Tlemcen (Algeria), 27 ottobre 2011 © Riproduzione riservata