Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 17:22:33

In quest’ultima settimana l’offensiva israeliana si è concentrata nel nord della Striscia di Gaza, in particolare sugli ospedali, ritenuti dalle Forze di Difesa Israeliane (IDF) dei posti di comando utilizzati da Hamas. Martedì sera i militari dello Stato ebraico hanno attaccato l’ospedale più grande di Gaza City, il Dar al-Shifa, nonostante il direttore della clinica abbia negato la presenza di forze legate ad Hamas all’interno dell’edificio. L’idea israeliana della sovrapposizione tra strutture sanitarie (non solo l’ospedale al-Shifa) e strutture militari è condivisa dagli Stati Uniti, come ha dichiarato John Kirby, portavoce del Consiglio per la Sicurezza Nazionale statunitense. La versione ufficiale di Gerusalemme recita che le forze ebraiche avrebbero trovato invece «prove» della presenza di Hamas nei sotterranei del complesso ospedaliero, evidenziato dal ritrovamento di fucili AK-47, granate, uniformi e computer portatili: «queste scoperte dimostrano inequivocabilmente che l’ospedale è stato usato per il terrorismo, in completa violazione del diritto internazionale», ha affermato il portavoce dell’Esercito, Daniel Hagari. Tuttavia, sia diversi specialisti che alcune testate internazionali hanno sollevato più di qualche dubbio sulla veridicità delle prove fornite da Israele: i materiali ritrovati non sembrano tali da giustificare la presenza di un centro di comando, mentre è diventato virale il video nel quale il portavoce delle IDF indica un documento in arabo descrivendolo come una lista di nomi di miliziani che giornalmente controllavano i prigionieri, mentre il foglio appeso al muro non è altro che un elenco dei giorni della settimana. Anche secondo il Washington Post «mancano prove chiare» dell’utilizzo dell’ospedale da parte delle organizzazioni terroristiche palestinesi (Hamas e Jihad islamica).

 

La crisi dell’ospedale di al-Shifa, ha commentato l’Economist, «è una tragedia a pieno titolo e un microcosmo dei terribili trade-off creati dalle atrocità di Hamas e dall’invasione di Gaza da parte di Israele». Anche ammettendo che le informazioni israeliane siano corrette, e che dunque Hamas abbia utilizzato l’ospedale come centro operativo (fatto che si configurerebbe come un crimine di guerra), ciò non significa che le IDF possano attaccare impunemente la struttura, sostiene la rivista britannica, che propone un parallelo con il caso di Mosul: durante la campagna per riprendere la città dall’ISIS, la coalizione ha attaccato un ospedale, ma «ha dato un periodo di preavviso considerevole, al termine del quale l’ospedale era essenzialmente non funzionante, e ha fornito centri traumatologici a 10-15 minuti dalle linee del fronte». Il periodo di preavviso, poi, implicava che i pazienti avessero un posto sicuro dove andare. Un “lusso” di cui i palestinesi di Gaza non beneficiano, alla luce della disastrosa situazione umanitaria nel sud della Striscia. Dal punto di vista militare, Israele ha già raggiunto alcuni dei suoi obiettivi, ma affinché «la sua campagna sia legittima e anche solo parzialmente riuscita, devono essere superati altri due test: i civili hanno bisogno di una rete di sicurezza e deve esserci una ripresa del processo di pace», ha concluso l’Economist.

 

Dal punto di vista dello Stato ebraico, però, l’attacco ad al-Shifa ha sì motivazioni militari e di intelligence ma, come ha spiegato Amos Harel sul quotidiano israeliano Haaretz, vi è anche uno scopo simbolico. Si tratta secondo Harel, di far comprendere ad Hamas che «non c’è luogo in cui le forze [di Israele] temano di entrare e non c’è posto in cui Hamas possa sentirsi al sicuro. Questo vale per il nord della Striscia di Gaza, dove la presa di potere di Hamas è stata completamente minata. Nel sud, dove Israele ha operato finora in maniera limitata, Hamas si nasconde dietro uno scudo umano di circa due milioni di persone, di cui la metà rifugiati fuggiti dal nord su ordine dell’IDF». Lo ha confermato anche Netanyahu mercoledì, quando rivolgendosi alle truppe ha dichiarato che «non c’è luogo a Gaza che non raggiungeremo. Non c’è nascondiglio, non c’è riparo, non c’è rifugio per gli assassini di Hamas». Ciò che molti temono, dalla stampa internazionale fino agli alleati di Israele come gli americani, è che la prossima fase della guerra, con l’estensione delle operazioni al sud di Gaza, sia ancora più costosa dal punto di vista umanitario. Tuttavia, per ora la pressione internazionale non è riuscita a fermare Israele e, secondo Giora Eiland, ex capo del Consiglio di Sicurezza Nazionale Israeliano, anche in futuro avrà «scarsa influenza», nonostante per la prima volta dallo scoppio della guerra il Consiglio di Sicurezza dell’ONU abbia approvato una risoluzione che chiede «pause umanitarie urgenti e prolungate». La risoluzione è passata con 12 voti favorevoli, nessun contrario e la significativa astensione di Russia, Regno Unito e Stati Uniti. Secondo il ministro degli Esteri saudita Faisal bin Farhan, la pressione dei Paesi della regione su Israele sta invece iniziando a dare frutti.

 

Scarsa influenza su Israele la eserciteranno probabilmente anche i Paesi arabi e musulmani che si sono riuniti nello scorso fine settimana a Riyad per il vertice congiunto di Lega Araba e Organizzazione per la Cooperazione Islamica (OIC). Cionondimeno, il summit ha portato all’adozione di una dichiarazione congiunta (il testo completo è disponibile in inglese anche sul sito di ArabNews) nella quale si richiede l’immediato cessate-il-fuoco e la consegna di aiuti umanitari ai palestinesi. Come riporta Le Monde, «i leader arabi e musulmani hanno condannato le azioni “barbare” delle forze israeliane a Gaza, ma si sono rifiutati di approvare misure economiche e politiche punitive contro il Paese per la sua guerra contro Hamas». Inoltre, la dichiarazione pubblicata respinge le affermazioni di Israele secondo cui lo Stato ebraico starebbe agendo per «autodifesa».

 

Dal punto di vista politico la conferenza di Riyad sembra essere significativa soprattutto per valutare lo stato delle relazioni tra i Paesi musulmani. Secondo Ahmed Al Omran e Yara Bayoumy (New York Times) la presenza del presidente iraniano Ebrahim Raisi in Arabia Saudita (prima volta in oltre un decennio) mostra che «il bombardamento di Gaza da parte di Israele [ha] accelerato il riavvicinamento tra Arabia Saudita e Iran». Vedremo nei prossimi mesi e anni se sarà davvero così. La posizione saudita sembra piuttosto caratterizzata dal pragmatismo: come ha affermato Kristin Diwan (Arab Gulf State Institute), a Riyad «sanno che la cooperazione iraniana è necessaria per evitare che il conflitto si estenda e, forse, anche per trovare una soluzione definitiva con Hamas». Inoltre, con «alcuni leader “bloccati” dalla [avvenuta] normalizzazione [con Israele] e altri che chiedono misure più dure, l’Arabia Saudita si trova in una buona posizione per mantenere la via di mezzo. Per riuscirci, avrà bisogno che gli americani si facciano avanti». Se consideriamo poi che le monarchie arabe si sono opposte con successo alle richieste iraniane di interruzione dei rapporti con Israele e, soprattutto, di invio di armamenti ai palestinesi – ne ha parlato il Guardian – ci accorgiamo che la posizione di Teheran è molto distante da quella dei Paesi del Golfo.

 

È nelle relazioni tra Iran e Turchia, invece, che si aprono nuovi scenari secondo Fehim Tastekin (Al-Monitor): «Turchia e Iran sembrano disposti a verificare se la loro convergenza su Gaza possa aiutare a risolvere spinosi problemi bilaterali». Tuttavia, anche sul tema delle relazioni con Israele, Ankara e Teheran hanno opinioni ben diverse, con Erdoğan che non sembra intenzionato a cedere alle richieste iraniane di interrompere le relazioni con lo Stato ebraico.

 

Nel frattempo, la situazione in Cisgiordania e a Gerusalemme est è sempre più tesa, mentre si moltiplicano le violenze contro i palestinesi per mano dei coloni. In queste ore le IDF hanno circondato l’ospedale di Ibn Sina nel corso di un’operazione militare a Jenin. Al-Jazeera ha raccontato la storia e le azioni del rabbino Arik Ascherman, che difende i contadini palestinesi nella West Bank: oggi – ha detto Ascherman – l’israeliano medio non riesce a «distinguere tra il terrorista palestinese e il palestinese terrorizzato». Sul fronte politico israeliano il leader dell’opposizione Yair Lapid ha nuovamente richiesto le dimissioni di Netanyahu e delle componenti più estremiste del suo governo, ribadendo la disponibilità all’ingresso nella coalizione qualora non fossero presenti queste figure.

 

La situazione è sempre più complessa anche per i cristiani che vivono in Israele, come dimostra la vicenda degli armeni di Gerusalemme. Secondo l’Armenian Weekly la comunità armena in Terra Santa si trova davanti a una «minaccia esistenziale» a causa delle azioni dei coloni israeliani.

 

La “guerra dimenticata” in Sudan [a cura di Mauro Primavera]

 

La guerra civile in Sudan tra Abdel Fattah al-Burhan e Mohamad Hamdan Dagalo (Hemeti) iniziata lo scorso aprile si è eclissata dal radar dei media, non si è mai conclusa, anzi nelle ultime settimane si è aggravata. Come ammonisce l’Economist, «un mondo distratto ha dato poca attenzione al Sudan. L’Occidente è concentrato sulla controffensiva in Ucraina, sulle manovre militari della Cina e sulla guerra a Gaza. I leader africani, preoccupati dai loro problemi interni, hanno dimostrato l’urgenza di un cammello che attraversa il Sahara». Nelle ultime settimane, infatti, le Forze di Supporto Rapido (RSF) di Hemeti hanno sconfitto le truppe regolari, conquistando Nyala, la seconda città più popolosa del Paese, e cinque province, compresa quella del Darfur; scontri a fuoco si sono registrati anche nella capitale Khartoum, dove è stato distrutto un ponte sul Nilo, lo Shamat, strategico per i rifornimenti militari delle RSF. La campagna militare, avviata a poche settimane dai negoziati di pace in Arabia Saudita, è stata particolarmente violenta e ha provocato almeno ottocento morti e innescato l’ennesima crisi umanitaria su un territorio notoriamente fragile e povero. Secondo Middle East Eye, nel Darfur sarebbe stata messa in atto una vera e propria pulizia etnica, perpetrata dai miliziani arabi ai danni della popolazione locale di colore. Vi è poi un dramma nel dramma: l’eccidio dei «Colombiani», termine che indica i giovani sudanesi appartenenti a tribù sfollate durante il conflitto del 2003-2005. Come riporta le Monde, per il Sudan si profila «uno scenario libico» e la definitiva frammentazione politico-militare del Paese. Le Forze di Supporto Rapido sono in ascesa: controllano le regioni più ricche e continuano a reclutare nuovi miliziani, ma le loro capacità di amministrare i territori sono pessime. Per contro, l’esercito regolare di al-Burhan è debole e incapace di contenere l’avanzata delle RSF. Khartoum è ormai nelle mani di Hemeti mentre i governativi conservano la zona tra il Nilo e il Mar Rosso e la striscia frontaliera con l’Egitto: «con i suoi equipaggiamenti obsoleti, la sua catena di comando sclerotizzata e incancrenita dalle fazioni islamiste nostalgiche di Omar Al-Bachir, l’esercito è in grave sofferenza».  

 

Mandato d’arresto per Assad [a cura di Mauro Primavera]

 

Mercoledì 15 novembre il tribunale di Parigi ha emesso quattro mandati d’arresto nei confronti del presidente siriano Bashar Assad, di suo fratello Maher, comandante della Guardia repubblicana, e di altri due generali dell’esercito, Ghassan Abbas, direttore della ricerca scientifica militare, e Bassam al-Hassan, consigliere strategico del presidente. Per tutti l’accusa è quella di crimini contro l’umanità e crimini di guerra per quanto avvenuto all’inizio del conflitto civile, il 21 agosto 2013, quando nella regione agricola della Ghuta diverse centinaia di civili siriani persero la vita a causa di un attacco condotto dall’esercito siriano con missili contenenti sarin, un gas nervino. France 24 ricorda che non è la prima volta che la giustizia francese porta sul banco degli imputati personalità del regime – già a ottobre erano stati spiccati quattro mandati d’arresto per i bombardamenti di Deraa del 2017 – ma il fatto che ora sia incluso anche il ra’īs costituisce certamente un «precedente storico». La testata libanese L’Orient-Le Jour osserva come i tribunali di Germania, Paesi Bassi e Canada siano attivi da tempo in questo ambito, ma sottolinea che questa è la prima volta in cui un Capo di Stato nell’esercizio delle sue funzioni viene incriminato da una corte nazionale. Per la testata Enab Baladi, vicina all’opposizione siriana, l’azione della giustizia francese non riveste soltanto un valore simbolico, ma ha anche un peso sostanziale, in quanto ha avviato un vero e proprio procedimento giudiziario grazie anche al ruolo giocato dagli attivisti siriani che hanno fornito la documentazione necessaria. L’efficacia di questa giustizia si basa sul principio dell’“extraterritorialità”, che permette di istruire processi per crimini di guerra supplendo agli organismi giuridici internazionali e intergovernativi che sono sempre stati impossibilitati a procedere a causa del veto della Russia, alleata di lungo corso del regime damasceno.

 

La decisione del tribunale di Parigi è stata presa proprio nel periodo in cui Assad, dopo un decennio di isolamento, era stato riammesso nella Lega Araba. Per l’analista Charles Lister il procedimento penale mette in imbarazzo gli Emirati Arabi Uniti, in ottimi rapporti sia con la Francia che con il presidente siriano. Quest’ultimo, infatti, parteciperebbe alla Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP28) che si terrà a Dubai fra due settimane, nella duplice veste di “invitato” dagli emiratini e di “ricercato” dai francesi.

 

Il Mali riconquista Kidal [a cura di Francesco Pessi]

 

Il presidente ad interim del Mali Assimi Goïta ha annunciato martedì la riconquista di Kidal, cittadina settentrionale di circa 25 mila abitanti e snodo chiave per raggiungere l’Algeria, da parte delle Forze Armate maliane (FAMa). Dal 2014 Kidal e la zona circostante si trovavano sotto il controllo delle milizie indipendentiste tuareg ostili al governo di Bamako. Il nord del Mali, cuore della fascia desertica saheliana che connette il golfo di Guinea al Nord Africa, è da un decennio un teatro chiave anche della lotta contro ISIS, al-Qaida e le altre sigle terroristiche islamiche.

 

La riconquista di Kidal da parte del governo centrale centrale maliano, ricostruita dalla rivista francofona Jeune Afrique, fa seguito al definitivo ritiro del contingente di pace ONU dal Mali, richiesto lo scorso giugno dalla giunta militare di Goïta che, cosciente di avere ora mano libera, punta a consolidare il proprio dominio sull’intero territorio nazionale, anche con l’aiuto delle milizie russe della Wagner. La presenza di queste ultime a fianco delle FAMa a Kidal, ipotizzata da Voice of America, organo ufficiale del governo statunitense, ma finora non confermata da alcun testimone sul campo (da venerdì i ribelli hanno tagliato le linee telefoniche della città, rendendo dunque difficile accertare lo svolgimento dei fatti), si iscriverebbe nel complessivo fallimento del peacekeeping occidentale nel Sahel, fallimento cominciato a maggio 2022 proprio in Mali con il ritiro dell’esercito francese. Jeune Afrique ritiene che «la ripresa di Kidal confermi [la giunta militare] nella propria scelta di rompere con la Francia per rivolgersi alla Russia di Vladimir Putin, checché ne dicano gli occidentali».

 

 I 13 mila caschi blu di stanza nei 12 campi ONU, che si trovavano in Mali dal 2013 con la doppia missione di mantenere la pace tra il governo di Bamako e gli indipendentisti tuareg del nord e di contenere il terrorismo jihadista, hanno infatti terminato l’uscita dal Paese a metà ottobre, come riferisce France24. La piattaforma francese ricorda la genesi del conflitto attuale: nel 2012, gli indipendentisti tuareg erano insorti a nord, in parallelo ai jihadisti, le cui violenze non si sono mai veramente arrestate malgrado la pace siglata nel 2015 ad Algeri tra governo e tuareg. Nel 2020 tuttavia il conflitto Bamako-Kidal si è riaperto, a causa della presa del potere da parte della giunta militare guidata da Goïta, la quale, contestando la missione di pace ONU e ordinandone il ritiro, ha spinto i tuareg a impugnare nuovamente le armi lo scorso agosto.

 

Sempre Jeune Afrique descrive il trionfo del colonnello Goïta per le strade di Bamako all’indomani della ripresa della città settentrionale, il cui controllo da parte dei ribelli a partire dal 2014 era considerato da molti maliani come «un insulto alla sovranità nazionale». Malgrado la generale euforia, Goïta ha ricordato che la sua «missione non è ancora compiuta», dal momento che essa «consiste nell’assicurare l’integrità del territorio, senza eccezione alcuna».

 

«In effetti», commenta il giornale, «al di là della simbolica [presa di] Kidal, la sfida securitaria rimane intatta in Mali, dove zone intere sono controllate dai gruppi jihadisti», mentre gli stessi indipendentisti, tramite il portavoce al-Maouloud Ramadan, hanno fatto sapere che il ritiro dalla città-bastione è motivato «da ragioni ritenute strategiche per questa fase dei combattimenti», non dandosi dunque per sconfitti.

 

Intanto, dopo il rinvio delle elezioni previste per lo scorso settembre, il governo ad interim non ha ancora annunciato una data per le elezioni presidenziali, che dovrebbero tenersi a febbraio 2024. E, per Jeune Afrique, con la vittoria a Kidal il colonnello Assimi Goïta «ha […] un viale davanti a sé».

 

In breve

 

La Corte Suprema britannica ha bocciato il “Piano Rwanda”, il progetto di trasferimento dei richiedenti asilo nel Paese africano durante la fase di valutazione della richiesta (Reuters). Il ministro degli Interni Suella Braverman è stata licenziata dopo aver criticato la polizia inglese per essere stata troppo morbida nei confronti dei manifestanti filopalestinesi (Al-Jazeera).

 

La Commissione Affari Esteri del parlamento turco ha rimandato a data da definirsi la ratifica dell’entrata della Svezia nella NATO, malgrado le misure prese da Stoccolma per venire incontro alle richieste di Ankara. La Commissione ha valutato tali misure «valide, ma non sufficienti» per la ratifica (Reuters).

 

Papa Francesco si rivolgerà ai partecipanti alla Conferenza delle Nazioni Unite sul Cambiamento Climatico (COP28) prevista per dicembre a Dubai. Nella stessa occasione, il Santo Padre inaugurerà insieme al Muslim Council of Elders il Padiglione della Pace, all’interno della Città Expo di Dubai (Vatican News).

 

Un report dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (IAEA) ha segnalato che l’Iran ha raggiunto uno stock di 128,3 chili di uranio arricchito al 60%, che, se arricchito al 90%, è sufficiente per la fabbricazione di tre ordigni atomici (Associated Press).

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