Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 16:47:37

[a cura di Claudio Fontana]

 

Nelle prime ore di sabato scorso, 15 aprile, sono (ri)esplose le violenze in Sudan. Lo scenario è quello che i civili sudanesi «temevano da anni», ovvero che si materializzasse lo scontro tra l’esercito nazionale e la forza paramilitare nota come Forze di supporto rapido (RSF, eredi della milizia Janjaweed responsabile di atroci crimini in Darfur). I due gruppi, capitanati rispettivamente da Abdel Fattah al-Burhan e da Mohamad Hamdan Dagalo «si sono dichiarati guerra senza curarsi dei civili colti nel mezzo» degli scontri, come ha scritto Newlines Magazine.

 

Da tempo le forze armate sudanesi di al-Burhan e le RSF competono per il controllo del Paese. Come già accennato, le RSF sono una forza paramilitare la cui creazione risale al periodo del regime di Omar al-Bashir: a inizio anni 2000 il dittatore islamista reclutò e armò le tribù arabe per muovere guerra contro i gruppi armati non arabi che nel Darfur si stavano ribellando al potere centrale di Khartoum. Il risultato fu la morte di oltre 300.000 persone tra il 2003 e il 2009. Nel 2013 al-Bashir, nel tentativo di mettersi al riparo dall’eventualità di un colpo di Stato, riorganizzò le milizie arabe all’interno delle RSF, ponendo a capo di queste ultime Mohamad Hamdan Dagalo, noto come Hemedti (qui il Guardian ne traccia un ritratto, che comincia proprio dagli anni in cui combatteva nella milizia dei Janjaweed). A partire da quel momento, le Forze di Supporto Rapido hanno accresciuto il proprio potere e le proprie risorse, mettendo le mani sulle miniere d’oro e ricevendo ingenti fondi in cambio dell’invio di soldati in Yemen tra i ranghi della coalizione a guida saudita. In questo periodo, come ha scritto Mat Nashed, le RSF hanno stretto importanti legami anche con gli Emirati Arabi Uniti e con la forza paramilitare russa Wagner. Dopo la deposizione di Bashir nel 2019, Hemedti e il capo delle forze armate, il generale Abdel Fattah al-Burhan, hanno cooperato, presentandosi come i guardiani della transizione. Nell’ottobre 2021 al-Burhan ha guidato un colpo di Stato, sostenuto da Hemedti, ponendo fine all’esperimento democratico e al governo civile del Paese. Uno dei motivi del conflitto esploso in questi giorni è che al-Burhan aveva iniziato a fare affidamento sugli islamisti dell’epoca al-Bashir per riempire i ranghi della burocrazia statale e dell’esercito. Queste figure, tuttavia, odiano Hemedti, ritenuto colpevole di essersi rivoltato contro al-Bashir nel 2019. Le tensioni tra il capo delle RSF e il vertice delle forze armate regolari riguardano anche altri aspetti. Volendo sintetizzare, uno dei punti fondamentali è l’integrazione delle RSF all’interno dell’esercito regolare, che secondo Hemedti sarebbe dovuto avvenire in dieci anni, mentre secondo al-Burhan soltanto in due.

 

Sta di fatto che, come ha scritto Declan Walsh sul New York Times, per Khartoum lo scenario è «da incubo», con combattimenti che proseguono nonostante l’annunciata tregua, e aerei militari che lanciano razzi su una città popolata da milioni di abitanti. Sebbene il Sudan abbia purtroppo sperimentato diversi conflitti nel corso della sua storia, raramente questi hanno toccato la capitale. Secondo la descrizione di Mohamed Osman da Khartoum, la città «non è abituata alla guerra». Questo contribuisce ad alimentare il senso di impotenza a cui sono esposti i suoi cittadini, i quali secondo i sindacati dei medici sudanesi devono rimanere in casa, anche se – avvertono – nemmeno lì sono al sicuro. A conferma di questa insicurezza, purtroppo, arrivano i numeri: più di 185 civili sono morti in questi giorni.

 

I combattimenti hanno raggiunto rapidamente altre parti del Paese, incluso il Darfur e le zone a est, al confine con Etiopia ed Eritrea. A poco finora sono serviti gli appelli del segretario di Stato Antony Blinken, che ha parlato anche con i partner sauditi ed emiratini, e della Lega Araba, di cui il Sudan fa parte. Il generale Hemedti ha anzi affermato che al-Burhan ha di fronte a sé due opzioni: sottoporsi alla giustizia o «morire come un cane». Dal canto suo l’esercito ha sottolineato che «non ci saranno negoziati e dialogo prima della dissoluzione della milizia ribelle di Hemedti». Ci troviamo dunque davanti a una situazione che rischia seriamente di sfociare in una guerra civile totale, dal momento che le parti in causa concepiscono lo scontro «in termini esistenziali». Inoltre, fin dall’inizio sono stati coinvolti attori stranieri: è stato il caso dei militari egiziani catturati dalle RSF a nord di Khartoum e di un convoglio diplomatico statunitense colpito dal fuoco delle milizie di Hemedti. A seguito di quest’ultimo fatto Blinken ha avuto un colloquio con il generale Dagalo. Dopo aver parlato anche con il capo dell’esercito, è entrata in vigore una tregua di 24 ore ma, ha spiegato il Guardian, i combattimenti non si sono mai veramente fermati, ciò che impedisce anche che Khartoum venga rifornita con le più basilari risorse, come acqua e latte.

 

Dicevamo degli attori stranieri. Ne ha parlato, tra i tanti, Ishaan Tharoor sul Washington Post. Oltre all’Egitto che sostiene le forze di al-Burhan, occorre ricordare che finora il Paese è stato sostenuto dai «miliardi di dollari» ricevuti da Arabia Saudita ed Emirati Arabi, che considerano il Sudan «un Paese mediorientale […] che rientra nella loro sfera di influenza», come ha dichiarato Ahmed Soliman (Chatham House). Il Cairo, dal canto suo, ha tutto l’interesse a sostenere un alleato con cui potersi coalizzare nella disputa sulla diga etiope. Per usare le parole di Alan Boswell (Crisis Group), il regime militare di al-Sisi vuole che in Sudan ci sia un «mini-me». Il rischio, tuttavia, è che il Cairo si ritrovi coinvolto nel conflitto, ciò che porterebbe a un deciso peggioramento della stabilità regionale. Uno scenario pessimo anche per Riyad, che sta investendo pesantemente su progetti di sviluppo interno che coinvolgono in maniera significativa le coste che si affacciano sul Mar Rosso. La necessità di stabilità è dunque condivisa dal Cairo e da Riyad, ma i due pesi massimi regionali divergono su chi possa garantirla. Secondo un’analisi di TSC, gli Stati del Golfo «sperano di proteggere i loro interessi strategici di lungo periodo in Sudan, tra cui la capacità di proiettare il potere economico e militare in Yemen e nel Corno d’Africa da porti e altre installazioni» presenti nel Paese. Inoltre, «nel dicembre 2022 […] gli Emirati e il Sudan hanno firmato un accordo da 6 miliardi di dollari» per la costruzione di un nuovo porto sulla costa sudanese del Mar Rosso, lavoro che dovrebbe essere svolto da due aziende emiratine. In generale, la costa sudanese che si affaccia sul mar Rosso fa gola a molti, tra cui la Russia che, specie attraverso il gruppo Wagner, ha sviluppato legami soprattutto con le RSF.

 

I Paesi del Golfo non sono tuttavia gli unici sostenitori di Hemedti. Come infatti ha scritto il Wall Street Journal, a sostegno delle RSF si è mosso anche il generale libico Khalifa Haftar (a sua volta sostenuto dagli Emirati e dalla Russia), il quale avrebbe inviato almeno un aereo carico di rifornimenti. Haftar ha dunque ricambiato il favore, ricordandosi di quando i componenti delle RSF furono inviati in Libia per sostenere la sua avanzata su Tripoli (comunque fallita).

 

I fatti di questa settimana, comunque, non erano imprevedibili, anzi. La partnership tra Hemedti e al-Burhan si basava su alcuni interessi comuni, tra cui la volontà di non rispondere dei crimini compiuti sia ai tempi del genocidio in Darfur che, più recentemente, nella repressione delle manifestazioni pacifiche del 2019. Ma, soprattutto, al fondo del temporaneo matrimonio di convenienza tra i due generali c’era la condivisione dell’idea che i militari non debbano sottostare alle direttive di un governo civile. Nonostante queste premesse, la comunità internazionale si è nascosta dietro alla presunta impossibilità di non avere come interlocutori proprio i due generali, ha scritto l’ex inviato americano nella regione Jeffrey Feltman sul Washington Post. L’Occidente in particolare ha chiuso un occhio davanti ai continui abusi dei militari: «ci consideravamo pragmatici», ma probabilmente la descrizione più adeguata del nostro modo d’agire è quella del «wishful thinking». In definitiva, il Sudan ci dimostra che non possiamo fidarci dei generali, ha concluso Feltman.

 

Da un lato è chiaro che al-Burhan e Hemedti sono i primi responsabili dello scoppio delle violenze. Dall’altro se, come ha fatto l’Economist, allarghiamo lo sguardo a livello globale e ci spingiamo indietro negli anni, vediamo che è riduttivo concentrarsi esclusivamente su queste due figure. Il Sudan, si legge sul settimanale inglese, è stato tormentato da guerra o violenze per buona parte della sua storia di Paese indipendente e, in questo, è l’esempio di una tendenza generale riscontrata da diversi studiosi: la persistenza dei conflitti. Oggi tutta l’attenzione è sul conflitto “vecchio stile” in Ucraina, dove la Russia ha dato il via a un’invasione per accaparrarsi una porzione di territorio. Quello che però avviene in questi giorni in Sudan, e che negli ultimi anni è avvenuto sempre più frequentemente in altre zone del mondo, riguarda un conflitto più complesso e di difficile comprensione: ciò provoca l’aumento della durata delle ostilità. A metà anni ’80 le guerre duravano in media circa 13 anni; nel 2021 questo dato si aggirava intorno ai 20 anni. L’incremento è dovuto anche all’aumento delle fonti di scontri (non ultima quelle legate all’estremismo jihadista e alla crisi ecologica) e all’internazionalizzazione delle guerre civili. Proprio come rischiamo di vedere in Sudan: nel 1991 soltanto il 4% dei conflitti nel mondo vedeva la partecipazione, più o meno diretta, di attori stranieri, mentre oggi questo dato è salito al 48%, ciò che, a sua volta, rende più difficile la soluzione delle guerre perché gli attori stranieri hanno, nella lettura dell’Economist, meno incentivi a raggiungere la pace. In fondo, «non sono le loro città a essere distrutte».

 

 

In Tunisia regna l’arbitrio [a cura di Michele Brignone]

 

La sera di lunedì 17 aprile è stato arrestato a Tunisi l’ottantunenne Rached Ghannouchi, leader del partito d’ispirazione islamica Ennahda ed ex-presidente del Parlamento tunisino. Intervistata dal quotidiano libanese L’Orient le Jour, la politologa americana ed esperta di Tunisia Monica Marks ha commentato che «l’arresto era prevedibile, meno chiara è la tempistica». Perché proprio adesso, nella sera in cui tra l’altro i musulmani celebrano la Notte del Destino, il momento più sacro del mese di Ramadan? Il pretesto è contenuto in un video che è circolato subito dopo l’arresto, in cui si sente Ghannouchi dichiarare che «l’esclusione politica di Ennahda, dell’Islam politico, della sinistra e di altre forze tunisine rischia di creare le condizioni per una guerra civile». Sulla base di queste affermazioni, il presidente di Ennahda sarebbe stato accusato di incitazione alla violenza e cospirazione ai danni dello Stato. Marks ha aggiunto che il provvedimento sarebbe utile a Saied per ingraziarsi una parte della società tunisina, ostile a un leader che i sondaggi indicano da tempo come una delle figure politiche più impopolari del Paese: «un comodo capro espiatorio» per il presidente della Repubblica. Un ruolo potrebbe averlo giocato anche il nuovo ministro dell’Interno, Kamel Feki, noto come “Stalin” per i suoi metodi e le sue inclinazioni politiche. Ma il significato dell’ulteriore stretta autoritaria va al di là della persona di Ghannouchi: ancora secondo Marks, il presidente ha utilizzato l’arresto del politico islamista «per giustificare un attacco a 360° gradi contro la libertà di associazione in Tunisia. Martedì, il ministero dell’Interno ha proibito qualsiasi riunione e conferenza stampa di Ennahda e della coalizione anti-dittatura di cui esso fa parte, il Fronte di Salvezza Nazionale. Anche la sede del principale partito d’opposizione è stata chiusa. Saied fantastica da tempo sulla chiusura di tutti i partiti politici, più volte dichiarati fattori di corruzione e di divisione della società. Martedì si è avvicinato a questo obiettivo. Il pluralismo politico è quasi interamente scomparso in Tunisia».

 

Il clima che si respira nel Paese è sintetizzato dal presidente del Fronte di Salvezza Nazionale, Ahmed Nejib Chebbi, che a Le Monde ha dichiarato: «Le libertà stanno crollando e a regnare è l’arbitrio». La degenerazione della situazione politica va di pari passo con l’aggravamento di quella economica e sociale. In un articolo su Nawaat, il giornalista tunisino Hatem Nafti ha messo in luce l’inadeguatezza del pensiero economico del presidente, convinto che i problemi della Tunisia siano ultimamente riconducibili alla corruzione della classe dirigente che lui sta cercando di epurare. Eloquente la chiusura del pezzo: «a pagare il conto sarà il popolo, pietra angolare del progetto di Saied».

 

Anche Newlines evidenzia questo aspetto: intervistato dal magazine americano, l’economista tunisino Fadhel Kaboub ha affermato che «il governo di Kais Saied ha proposto una diagnosi molto superficiale e populista dei problemi strutturali del Paese». Tutto ciò contribuisce all’instabilità della Tunisia, oltre ad favorire alcuni fenomeni che secondo i governi europei Saied dovrebbe arginare, l’emigrazione e l’estremismo religioso: «Quando le forse di sicurezza tunisine controllano e sorvegliano da vicino gruppi già emarginati – giovani uomini, lavoratori poveri, sottoimpiegati – con il pretesto di combattere il terrorismo e l’emigrazione irregolare, in realtà stanno alimentando il fuoco che dovrebbero estinguere. Il salafismo è in crescita nelle prigioni tunisine e, nei quartieri popolari, gli imam conservatori sono diventati un punto di riferimento per molti giovani uomini che sono respinti da altre componenti della società».

 

Il compito quasi impossibile di Kılıçdaroğlu (che però è davanti a Erdoğan) [a cura di Claudio Fontana]

 

Le elezioni in Turchia sono sempre più vicine e questa settimana Erdoğan ha ricevuto una notizia che probabilmente lo avrà reso felice: la compagnia petrolifera nazionale Turkish Petroleum ha messo in funzione il giacimento di gas di Sakarya a tre anni di distanza dall’avvio del progetto nel Mar Nero. L’inizio della produzione di gas turco potrebbe rendere più credibile la promessa del presidente di tagliare il costo delle bollette dei consumatori. Il progetto è molto importante per il Paese, ha scritto il Financial Times, che ha sottolineato come l’importazione di energia contribuisca in maniera decisiva al deficit delle partite correnti se consideriamo che le importazioni di energia sono valse, nel 2022, circa 80 miliardi di dollari. La produzione iniziale dovrebbe ammontare a circa il 7% del consumo annuo turco, ma Turkish Petroleum ha già comunicato sia di aver avviato piani di sviluppo per aumentare l’utilizzo del giacimento, sia di voler esportare in Europa (che nel prossimo inverno sarà in difficoltà a causa dei gasdotti russi chiusi) una parte di ciò che produrrà. Tuttavia, «per quanto importante sia il gas di Sakarya», ha scritto Gerald Kepes su Al-Monitor (Pro Members), Ankara è lontana dal raggiungere il progetto che immagina il governo, ovvero trasformare la Turchia in un hub energetico dove il gas proveniente da fonti interne e straniere possa essere commercializzato, «realizzando l’ambizione di essere una potenza energetica ben posizionata geostrategicamente».

 

Intanto, l’opposizione ha chiarito che qualora vincesse le elezioni riallineerebbe la politica estera della Turchia alla massima di Atatürk «pace a casa, pace nel mondo». Un cambiamento che passerebbe dalla ritrovata centralità del ministero degli Esteri e dalla fine della pratica di nominare in ruoli diplomatici figure che non rientrino nell’elenco dei funzionari pubblici. L’Alleanza della Nazione, come è nota l’opposizione, ha anche affermato la volontà di rientrare nel progetto statunitense relativo agli F-35, sottolineando al tempo stesso l’intenzione di mantenere un «dialogo bilanciato e costruttivo, a un livello istituzionale» con la Russia. Un capitolo tra i tanti trattati dal documento diffuso dall’alleanza dei sei partiti di opposizione riguarda la Grecia. Con Atene l’eventuale governo guidato da Kılıçdaroğlu perseguirebbe un approccio diplomatico e dialogico, fermo restando che, come sintetizzato da al-Monitor, «non verrà fatta nessuna concessione sugli interessi nazionali turchi e non sarà permesso nessuno sviluppo che possa nuocere ai diritti sovrani del Paese nel Mar Egeo». Intanto un rinnovato motivo di frizione tra Ankara e Atene (tra l’altro: anche qui si vota in maggio, e l’opposizione accusa Mitsotakis di essere debole nei confronti della Turchia) è l’utilizzo da parte della Turchia del termine «Turkaegean» nelle pubblicità che promuovono il turismo su New York Times, Bloomberg TV e Le Monde. Secondo i greci, l’utilizzo del termine da parte della comunicazione turistica turca è problematico per diversi motivi: alcuni lo considerano un problema per l’immagine turistica greca e un’usurpazione della cultura della Grecia, mentre per altri evidenzia semplicemente le mire espansionistiche di Ankara.

 

Sul piano interno, continua la campagna elettorale. Oggi ci focalizziamo – come ha fatto buona parte della stampa internazionale questa settimana – sull’opposizione e le sue strategie. La media di 9 differenti sondaggi mostra prospettive interessanti per Kılıçdaroğlu, che si attesterebbe intorno 48% dei voti, contro il 44% di Erdoğan e circa il 5% di Ince. Se i dati venissero confermati, i due candidati più votati sarebbero costretti al ballottaggio e in questo caso, come ha scritto Halil Karaveli su Foreign Policy, l’opposizione «avrà bisogno del supporto da ogni angolo [del Paese], specialmente dai turchi poveri e dagli elettori della classe dei lavoratori». È qui che secondo Karaveli emergono i rischi per Kılıçdaroğlu, il quale finora sembra aver deciso di adottare politiche economiche di destra che potrebbero penalizzare questa fascia di elettori.

 

Mercoledì Kılıçdaroğlu si è rivolto invece ai 7 milioni di giovani che, per la prima volta, potranno votare. Il numero di nuovi elettori è significativo e potrebbe comportare importanti novità nello scenario elettorale turco. Nel suo videomessaggio il candidato dell’opposizione ha invitato i giovani elettori a superare la retorica polarizzante che ha caratterizzato questi anni di presidenza Erdoğan. Come ha sottolineato Verda Uyar per la piattaforma Turkey Recap, con la semplice affermazione «sono un alevita» Kılıçdaroğlu «rompe con le rigide norme culturali secondo cui è meglio che le identità delle minoranze non siano sottolineate e rimangano una sorta di tabù». L’intenzione del leader dell’opposizione è certamente apprezzabile, così come lo sono le dichiarazioni effettuate in occasione di un altro videomessaggio rivolto alla popolazione curda, che secondo Kılıçdaroğlu è stata ingiustamente stigmatizzata dal governo turco. Qui, di nuovo, emerge una delle sfide più difficili per il candidato presidente: da un lato dichiarazioni come questa servono a ottenere il sostegno degli elettori curdi, ma dall’altro Kılıçdaroğlu deve tenere insieme la propria coalizione, composta anche da nazionalisti turchi come il partito IYI di Meral Akşener. Perciò, come ha sottolineato Karaveli, lo sfidante di Erdoğan deve trovare un difficile equilibrio tra i nazionalismi turco e curdo. Detto in altre parole, Kılıçdaroğlu è costretto a offrire qualcosa ai curdi, ma deve farlo senza che ciò venga percepito come un pericolo per l’unità nazionale turca. Un compito assai arduo.

 

In breve

 

Il mistero intorno all’amicizia tra il Re del Marocco (sempre meno visibile nel Paese) e i fratelli Azaitar, lottatori di MMA che secondo alcuni godono di un’influenza sul monarca paragonabile a quella che esercitava Rasputin sullo zar (1843 Magazine).

 

Almeno 78 persone sono morte in Yemen a seguito di una calca che si è creata in occasione della distribuzione di aiuti finanziari per il mese di Ramadan (Wall Street Journal).

 

L’impasse politica libanese continua nonostante l’accordo raggiunto tra Iran e Arabia Saudita (Al-Jazeera).

 

Reza Pahlavi, figlio dell’ultimo scià iraniano, si è recato in visita in Israele, dove ha incontrato Benjamin Netanyahu. Il viaggio ha suscitato le reazioni contrarie da parte degli esponenti politici iraniani (Al-Monitor).

 

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