Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba

Ultimo aggiornamento: 19/04/2024 15:53:17

Com’era prevedibile, questa settimana la stampa araba è stata per buona parte monopolizzata dall’attacco iraniano a Israele. Come ha scritto il giornalista libanese Ghassan Charbel su al-Sharq al-Awsat , «era da molto tempo che le redazioni dei giornali, i social e le televisioni non venivano colpite da questo livello di febbre». Il tema è stato preponderante sui quotidiani dell’Asse della Resistenza e sui panarabi finanziati dal Qatar, tradizionalmente vicini alla causa palestinese, mentre lo è stato un po’ meno sui giornali dell’orbita emiratina. Per il momento, invece, i media non hanno ancora commentato la risposta lanciata da Tel Aviv a Teheran la notte scorsa

 

Il giornale libanese filo-Hezbollah al-Akhbar ha dedicato quasi tutta l’edizione dello scorso lunedì (il primo giorno utile dopo l’attacco, perché la domenica non va in stampa) “all’impresa” di Teheran, celebrata con una serie di titoli ad effetto – “Fuoco ‘amico’ sul cielo della Palestina. Non è un sogno”, “Teheran è in prima linea nello scontro: una risposta limitata dagli effetti importanti”, “Israele senza immunità”, “L’Iran rafforza la deterrenza, è la fine della ‘pazienza strategica’”. Nel suo complesso, l’edizione è una grande opera di propaganda a favore dell’Iran, il cui attacco, che voleva essere «un messaggio di deterrenza», «ha superato molte aspettative e stupito gli osservatori», e ha messo in luce «le limitate capacità dell’entità nemica, ciò che ha costretto gli Stati Uniti a prestarle soccorso per la seconda volta in sei mesi». Con la sua reazione, Teheran «ha confutato la narrazione che Tel Aviv promuove da quasi due decenni» per cui «la presenza diretta americana nella regione frena l’Iran dall’arrischiare una risposta» e dimostra che «l’Iran del 2024 è radicalmente diverso dall’Iran degli anni ’80», e che il regime iraniano oggi è disposto a «un confronto militare diretto se vengono superate le linee rosse relative alla sua sovranità». Al-Akhbar inoltre non ha risparmiato le critiche alla Giordania, accusata di stare dalla parte di Israele: “Amman nelle fila del nemico. I giordani al loro regime: benvenuti nei ‘drammi teatrali’ iraniani”. L’aeronautica giordana, commenta l’editoriale, «esiste per proteggere Israele e non è motivata dall’offrire sostegno a Gaza»; la lunga notte tra sabato e domenica ha reso «chiara la posizione della Giordania, […] profondamente dipendente dall’amministrazione americana», una politica che «in precedenza ha portato Amman ad aprire la via terrestre per far giungere le merci a Israele, e a cooperare con l’Arabia Saudita per intercettare alcuni missili lanciati dal Ansar Allah [cioè gli houthi] dallo Yemen verso i territori occupati». 

 

Al-Quds al-‘Arabi – in italiano “La Gerusalemme araba” – ha aperto l’edizione di lunedì con una serie di editoriali «sull’attacco iraniano senza precedenti», ma nei giorni successivi è tornato a dedicare le sue prime pagine al conflitto di Gaza, tema che contraddistingue il quotidiano fin dalla sua fondazione negli anni ’80 ad opera, per l’appunto, della diaspora palestinese rifugiatasi a Londra. Il giornalista sudanese Mada al-Fatih si è interrogato sul significato del gesto iraniano, spiegando che l’attacco israeliano al consolato iraniano a Damasco «ha messo Teheran in una posizione imbarazzante agli occhi di chi vede in essa la capitale della Resistenza» e ha di fatto costretto l’Iran a reagire. A maggior ragione dopo che Teheran si era «dichiarata pronta a gettare in mare Israele al suo primo passo falso». La risposta iraniana, continua l’articolo, ha messo in discussione i due concetti che in passato venivano usati per spiegare la reticenza dell’Iran a rispondere alle provocazioni: la «pazienza strategica», che spingeva Teheran a non reagire subito,  in modo da ottenere dei vantaggi successivi o rafforzare la sua posizione nei negoziati sul nucleare; e quello relativo alle «regole d’ingaggio», fondato sull’esistenza di linee rosse concordate tra le parti, , nella fattispecie gli interessi americani e israeliani. L’operazione iraniana, conclude l’editoriale, rischia «di aiutare l’entità [Israele, NdR], semi-isolata a livello etico per i crimini commessi, a riconquistare la sua posizione, e aiuterà anche i governi partner, che solidarizzavano timidamente con Israele, a giustificare il loro sostegno a Tel Aviv con denaro e armi per la sua difesa».

 

In generale, al-Quds al-‘Arabi si schiera a sostegno dell’Iran, «che si è difeso dopo il bombardamento del consolato e il mancato rispetto da parte di Israele delle ‘regole d’ingaggio’», regole che Tel Aviv ha infranto «a causa della sua natura aggressiva». Mercoledì lo stesso quotidiano ha sollevato il tema del ruolo che avrebbero giocate i Paesi arabi dell’area: avrebbero aperto il loro spazio aereo a Israele per un attacco contro l’Iran? Probabilmente no, in forza del recente miglioramento delle relazioni tra alcuni Paesi del Golfo (Arabia Saudita ed Emirati) e l’Iran, e perché «consentire l’apertura dello spazio aereo arabo, mentre Israele prosegue le sue brutali operazioni a Gaza e i coloni continuano ad attaccare i palestinesi in Cisgiordania, significherebbe essere complici del genocidio e sottomessi alla dottrina israeliana di controllo della regione».

 

Al-‘Arabi al-Jadid, quotidiano londinese finanziato dal Qatar, ha pubblicato decine di editoriali sull’attacco iraniano e diverse vignette che rendono bene la sua visione della questione. Come quella che rappresenta la risposta israeliana (il razzo di ultima generazione a destra), quella iraniana (il razzo di vecchia generazione, al centro) e quella araba (l’arabo che fa yoga a sinistra).

O come quella che rappresenta “L’attacco di droni” iraniano, disegnati a formare la parola “fake”.

O ancora la vignetta che ritrae Netanyahu alla cloche di un aereo da guerra in procinto di decollare in direzione dell’Iran, e Biden agganciato alla carlinga nel disperato tentativo di fermare il Primo ministro israeliano.

Secondo il ricercatore siriano Marwan Kabalan, il confronto diretto tra Iran e Israele ha innescato tre importanti cambiamenti nel Levante arabo: 1) Il conflitto tra i due Stati, rimasto latente per molti decenni, è divenuto manifesto e lo scontro tra il progetto iraniano e quello israeliano è ormai inevitabile. Ciò è stato reso possibile «dal successo degli iraniani e degli israeliani nell’estromettere gli arabi dall’equazione del potere nella regione, attraverso l’incoraggiamento di Israele e il sostegno offerto dall’Iran all’America nell’invasione dell’Iraq, e poi la successiva distruzione delle fondamenta dello Stato nazionale arabo nel Levante, che Iran e Israele hanno intrapreso insieme durante le rivoluzioni della Primavera Araba». 2) Un cambiamento nella dottrina militare iraniana, basata storicamente su due principi: evitare scontri diretti con gli avversari, prediligendo le guerre per procura combattute sui territori altrui, e creare una «deterrenza asimmetrica», che consente a Teheran di danneggiare gli avversari per procura, ma non viceversa. 3) Lo scontro diretto ha portato alla luce «i tratti di un’alleanza sicuritaria che si sta formando tra alcuni Paesi arabi e occidentali e Israele».

 

Il giornalista marocchino Ali Anouzla ha definito l’escalation tra i due Stati una «guerra di credibilità, in cui ciascuna delle due parti vuole ripristinare la credibilità del proprio discorso, che si fonda sulla negazione del discorso altrui». La regione però si sta avviando verso una situazione sempre più critica perché «se gli iraniani hanno agito secondo la logica del “mercante del bazar”, che calcola profitti e perdite con estrema precisione», le reazioni del «governo estremista di Israele» sono imprevedibili e pongono «nuovamente il mondo sull’orlo di una grave crisi globale». Quindi, «lungi dall’applaudire l’attacco iraniano a Israele, dal sottovalutarne l’efficacia o dal ridicolizzarlo, come hanno fatto alcuni, soprattutto tra i sostenitori della normalizzazione», bisogna considerare l’attacco iraniano «un cambiamento qualitativo nello scontro tra Teheran e Tel Aviv, con nuove regole di ingaggio nell’equazione di deterrenza tra i due Paesi».

 

I quotidiani afferenti alla sfera saudita-emiratina hanno minimizzato l’azione iraniana; alcuni editorialisti l’hanno fatto mantenendo un tono serio, altri prendendosi pesantemente gioco di Teheran. Il controverso giornalista siriano Abdul Jalil al-Said (ex mufti, oppositore di Bashar al-Asad e grande sostenitore della normalizzazione con Israele) su al-‘Ayn al-Ikbariyya cita un proverbio arabo, «il cammello ha partorito il topolino» – corrispettivo del nostro «la montagna ha partorito il topolino» – per definire l’entità dell’attacco lanciato dall’Iran, che «non è riuscito a ferire neppure un soldato israeliano, mentre Israele ha ucciso alti comandanti in carica iraniani».

 

«L’Iran è il più grande nemico di sé stesso», scrive su al-Sharq al-Awsat il giornalista saudita Tariq al-Hamid, che ha definito «comico» l’attacco iraniano, «un gesto sconsiderato, contrario alla ‘pazienza strategica’». Teheran ha commesso due gravi errori strategici: ha scelto di «proteggere la propria immagine propagandistica a discapito dei benefici politici, finendo per auto-infliggersi un colpo che neppure i suoi oppositori erano mai stati capaci di infliggergli dai tempi della rivoluzione di Khomeini». Altra cosa grave, prosegue l’editoriale, è che Teheran ha deciso di attaccare Israele per vendicarsi dell’attacco al suo consolato, ma non l’avrebbe mai fatto per sostenere Gaza o Hamas, e così ha finito per lanciare indirettamente un messaggio alla regione: «per Teheran l’Iran è più importante della questione palestinese». Per gettare ulteriore discredito sul Paese rivale, l’editorialista si chiede con disprezzo che cosa ne sarebbe del Medio Oriente se l’Iran, «un Paese malvagio di cui non ci si può fidare», dovesse riuscire a dotarsi di armi nucleari. Nel complesso, questo editoriale mette in luce l’esistenza di una sempre latente rivalità tra i due Paesi, nonostante tutta la retorica del riavvicinamento tra Riad e Teheran mediato lo scorso anno dalla Cina. 

 

Su Asasmedia l’intellettuale libanese Ridwan al-Sayyid commenta «la storia di un attacco che non c’è stato», come recita il titolo del suo articolo, e scrive che l’Iran «con le sue strane politiche ha stretto il mondo occidentale attorno a Israele». L’azione di Teheran, ha aggiunto l’editorialista, ha messo in luce la limitata capacità militare sia iraniana che israeliana – «a sventare il modesto attacco iraniano sono stati gli americani e i loro alleati, [ciò che induce a pensare che] Israele non può ottenere una vittoria schiacciante nemmeno su Hamas o su Hezbollah senza il sostegno dell’America».

 

Altrettanto severo è il giudizio di Farouk Youssef, giornalista iracheno che su al-‘Arab (quotidiano vicino alle posizioni emiratine) accusa Teheran di mentire sistematicamente per «sollevare il morale dei suoi partigiani e dei suoi sostenitori». L’Iran, scrive l’editorialista, «mente sulla sua forza, e tutto il suo entusiasmo nella corsa agli armamenti non è altro che una perdita di tempo e uno spreco di denaro del popolo iraniano». L’attacco fallito, il cui vero obbiettivo era «fare propaganda», «ha messo a nudo l’Iran», mostrandolo al mondo per quello che è, «un regime che non oserà nuocere alla sicurezza di Israele, perché non ha le capacità per farlo, come ha svelato la sua ultima avventura».

 

«L’attacco iraniano non era finalizzato a infliggere danni materiali a Israele, ma era un messaggio politico. E ha raggiunto il suo obbiettivo: colpirlo nonostante la presenza degli alleati occidentali e dei loro capi militari», scrive il giornalista iracheno Samir Adil sullo stesso quotidiano. Dall’altro lato però, «il limitato attacco iraniano ha svelato che tutte le affermazioni del regime di Teheran su Gaza, sulla questione palestinese e sulla liberazione di Gerusalemme non sono altro che bolle mediatiche sotto cui nascondersi e per nascondere la sua espansione nazionale e influenza politica nella regione. Gaza, i bambini di Gaza e Gerusalemme non sono altro che titoli per affogare nelle illusioni gli sciocchi rimasti. Di base, la strategia politica iraniana è finalizzata a investire negli Stati falliti».

 

Il giornalista e ricercatore turco Said al-Hajj su al-Jazeera cerca di riabilitare l’immagine dell’Iran, difendendolo dall’accusa di non essere disponibile a entrare direttamente in campo per la causa palestinese. «Anche se Gaza non era al centro della risposta iraniana, o il suo movente principale, è stata comunque un fattore che ha preparato il terreno [all’attacco di Teheran] e sarà influenzata dall’andamento e dall’esito» dello scontro Iran-Israele. Lo scenario più probabile secondo l’editorialista, è che la Striscia di Gaza possa trarre indirettamente beneficio dalla risposta iraniana. Siccome il rischio di escalation è alto ed è possibile che il conflitto si espanda, scrive al-Hajj, Washington, che vuole evitare uno scenario di «guerra globale», «aumenterà gli sforzi per contenere la situazione e per fermare la guerra a Gaza».

 

Un anno di guerra civile in Sudan [a cura di Mauro Primavera

 

A un anno dallo scoppio della guerra civile sudanese, lo scenario nel Paese africano è sempre più critico. La questione interessa da vicino Riyad (che il prossimo mese organizzerà una conferenza di pace a Gedda) come dimostrano le righe di apertura di un articolo del quotidiano panarabo di proprietà saudita al-Sharq al-Awsat: «la “piattaforma di Gedda” rimane la vera opportunità per produrre una soluzione reale alla crisi sudanese, soprattutto perché la politica del Regno era ed è fondata sul raggiungimento di un accordo e della pace tra le due parti». L’editoriale prosegue insistendo sulla rilevanza del ruolo saudita «al momento non esiste altro tavolo che possa unire le parti in conflitto»  e invitando e non demonizzare come semplici “milizie” le Forze di Supporto Rapido: «esse sono forze composte da membri dell’esercito e delle tribù, che ricevono il sostegno della società, non si tratta di “mercenari” stranieri arrivati in Sudan». Piuttosto, aggiunge l’articolo, occorre «epurare la leadership dell’esercito dagli ufficiali fedeli ai Fratelli musulmani, che si sono infiltrati nei ranghi all’epoca di Bashir». La Fratellanza infatti «costituirà sempre un ostacolo a qualsiasi autentico cambiamento in Sudan».

 

Di segno opposto il quotidiano di proprietà qatariota al-‘Arabi al-Jadid, che non nutre molte speranze rispetto al ruolo che può svolgere l’Arabia Saudita nella pacificazione tra le parti e ha affidato allo  scrittore e militante politico sudanese Elshafie Khidir questa perplessità: «la “piattaforma” di Gedda non ha messo sul tavolo delle trattative una visione ben definita su come raggiungere un cessate il fuoco permanente e fermare la guerra. Le sue attività si sono limitate all’ottenimento di tregue temporanee per consentire il transito degli aiuti umanitari, ma persino queste non hanno avuto successo». La soluzione, commenta l’editorialista, non va ricercata nelle mediazioni dall’estero, che sia l’Arabia Saudita, l’Unione Africana o la Conferenza di Parigi, ma all’interno del Paese stesso: «le forze civili e politiche sudanesi sono le uniche ad avere titolo per proporre gli elementi di questa visione, e il consenso intorno ad esse è la base per poterle organizzare in una piattaforma che le unisca e le coordini». In un altro articolo, la testata va oltre e accusa espressamente gli Emirati Arabi Uniti di aver sostenuto e finanziato «le milizie terroriste delle (RSF)». Il quotidiano emiratino al-Ittihad evita di entrare in considerazioni politiche e sottolinea, in linea con la visione umanitaria di Abu Dhabi, i meriti del presidente Mohammed Bin Zayed, che ha finanziato la costruzione di un ospedale da campo in Ciad per curare i migranti sudanesi in fuga dalla guerra civile. 

 

Numerosi gli articoli di Al Jazeera sulla questione, che si soffermano sulla lunga serie di danni e devastazioni subita dal Paese in un anno di guerra. I toni sono però molto diversi da quelli di al-Sharq al-Awsat e tendenti al complottismo: in un articolo si sostiene, ad esempio, che il regime di Bashir, caduto nel 2019 in seguito a imponenti proteste di piazza, sarebbe infatti stato vittima, come accaduto a diversi governi africani, di una «cospirazione» che ambiva a distruggere lo Stato sudanese e a sfruttare le sue risorse. In un altro pezzo, è lo stesso ministro degli affari esteri sudanese a pronunciarsi sul disastro del suo Paese, addossando la colpa all’efferatezza delle Forze di Supporto Rapido.

 

Sempre sull’emittente qatariota, un ex diplomatico sudanese esplora inoltre la dimensione internazionale del conflitto, valutando in particolare meriti e demeriti degli attori intervenuti nel Paese. Ancora una volta riemerge il sentimento antioccidentale: Stati Uniti e Regno Unito hanno attuato una «politica volta a frammentare progressivamente il Paese». Più apprezzabili i ruoli dell’Egitto, attore imprescindibile per la risoluzione della crisi «che ha accolto un gran numero rifugiati senza fare distinzioni tra le loro appartenenze politiche» e della confinante Eritrea, convinta sostenitrice dell’esercito governativo. Parole di approvazione anche per il ruolo dell’Arabia Saudita: la “piattaforma di Gedda” rimane l’unica iniziativa «efficace al momento», anche se «il movimento ribelle [le Forze di Rapido Supporto], non ha ancora approvato» i suoi contenuti. Ringraziamenti speciali a Iran, Qatar, Algeria, Turchia, Kuwait, Marocco e Cina: «saranno questi i grandi vincitori», quando la guerra civile sarà terminata.     

 

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