Un contesto religioso frammentato e una politica debole, confusionaria e mal organizzata hanno permesso la nascita e lo sviluppo del gruppo jihadista nigeriano

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:02:56

Recensione di Boko Haram. Hisotry of an African Jihadist Movement di Alexander Thurston, Princeton 2018

 

La Nigeria, con i suoi 180 milioni di abitanti, destinati secondo alcune stime a diventare 400 milioni entro il 2050, non è solo il più popoloso Stato africano; è anche il primo produttore di petrolio nel continente, il secondo partner commerciale dell’Italia in Africa subsahariana, uno dei principali punti di partenza di flussi migratori (che si legano ai traffici illegali nel Sahel per arrivare fino in Libia); ma è anche un Paese dove metà della popolazione vive sotto la soglia di povertà, che è stato recentemente scosso da proteste e manifestazioni. Un quadro complesso, al quale negli ultimi anni si è aggiunta l’insorgenza di Boko Haram.

 

Ex colonia britannica divenuta indipendente nel 1960, prima di diventare la Repubblica federale composta da 36 stati che è oggi, la Nigeria è passata per due colpi di Stato e una guerra civile conclusasi solo nel 1970, ed è nel periodo immediatamente successivo a questi eventi che si è formata l’organizzazione terroristica. Nel libro Boko Haram: the history of an African Jihadist movement, Alexander Thurston, ricercatore all’Università di Cincinnati e autore di sahelblog.com, spiega che Boko Haram è nato dalla combinazione tra il contesto religioso nigeriano e le politiche locali.

 

Obiettivo dell’autore è di mostrare che «le idee di Boko Haram non sono uscite dal nulla. Il movimento ha cercato di sfruttare e amplificare alcune idee che circolavano in campo religioso, soprattutto tra il 1999 e il 2003 […]» (p. 11).

 

Nel panorama islamico della Nigeria settentrionale, la leadership religiosa tradizionale, formata da emiri (discendenti di capi musulmani) e shaykh sufi, negli anni ’70 cominciò a essere messa in discussione e a scontrarsi con i movimenti salafiti. Se inizialmente il principale rappresentante della corrente salafita nel Nord della Nigeria era l’Izala (Jama’at Izalat al-Bid’a wa Iqamat al-Sunna), a inizio anni ’90 subentrarono i “diplomati di Medina”, cioè coloro che dopo aver studiato in Arabia Saudita tornarono in patria e, resisi indipendenti, si crearono un seguito e reclutarono nuovi predicatori. Tra questi figurava Muhammad Yusuf, fondatore di Boko Haram (che inizialmente era una comunità di fedeli non particolarmente organizzata), che sarà poi condannato dagli stessi salafiti quando abbraccerà l’ideologia jihadista.

 

A ingrossare le fila dei vari movimenti del panorama islamico nigeriano saranno i migranti provenienti dalle zone rurali e trasferitisi nelle grandi città del nord-est della Nigeria, le quali dagli anni ’70 in avanti conobbero uno sviluppo destabilizzante, generando confusione amministrativa e rivalità tra strutture governative locali.

 

Secondo l’autore Boko Haram ha trovato terreno fertile in Nigeria grazie a quattro elementi: «elezioni molto tese; corruzione dilagante; gravi disuguaglianze e infine la violenza e l'impunità che caratterizzano gli approcci alla gestione dei conflitti» (p. 27). La storia contemporanea della Nigeria è stata infatti segnata da conflitti religiosi, etnici, intracomunitari, ma la risposta delle istituzioni è stata sempre la stessa: imposizione violenta di un ritorno all’ordine e blandi tentavi di riconciliazione mai sfociati in qualcosa di concreto, mentre raramente si sono celebrati processi capaci di giudicare i responsabili della violenza nel Paese e di risarcire le vittime.

 

La fase che potremmo definire embrionale di Boko Haram va dal 1970 al 1999 ed è quella in cui si sono formati i futuri leader del movimento, Muhammad Yusuf e Abubakar Shekau. La confusione nel panorama islamico e il fallimento da parte del governo di costruire una vera e propria nazione convinsero Yusuf e Shekau della necessità di creare uno Stato islamico, rigettando la democrazia, il costituzionalismo e l’educazione occidentale – questo infatti significa il nome Boko Haram, non solo che l’istruzione occidentale (Boko) è proibita dall’Islam (Haram), ma che tutto ciò che viene dall’Occidente, la sua cultura e i suoi sistemi politici non sono compatibili con la religione islamica.

 

La radicalizzazione di Yusuf avverrà poi progressivamente. Descritto dall’autore come dinamico e camaleontico, il predicatore riuscì a dotare il suo movimento di un’ampia base grazie a un contesto politico mutevole e all’iniziale vicinanza ai movimenti salafiti nigeriani, con i quali romperà per aver portato agli estremi e ricondotto a una forma aggressiva il concetto di «esclusivismo religioso». Con il tempo attingerà sempre più a testi della tradizione jihadista, nonostante in pubblico continuasse a presentarsi come un tradizionale salafita: «In altre parole, Yusuf ha cercato di contrabbandare il messaggio jihadista in una comunità salafita che in origine era più orientata a un salafismo non jihadista» (p. 109).

 

Nella pratica ingaggerà una rivolta contro lo Stato nigeriano. Rimarrà ucciso nel 2009, ma le basi ideologiche dell’organizzazione terroristica erano state gettate, e saranno riprese da Shekau. Questi, con il suo carattere «incontrollabile», «testardo e incostante», non riuscirà a ottenere il riconoscimento di al-Qaeda (si rivolgerà poi allo Stato islamico), ma trasformerà Boko Haram in un problema di sicurezza nazionale. Come? Oltre a mettere in atto una spietata campagna di violenza in tutto il Paese, riducendo il messaggio di Yusuf a una serie di slogan propagandistici, il principale dei quali era un’interpretazione personalissima del versetto coranico «il caos è peggiore dell’uccidere» (2,191).

 

Come già per Yusuf, per Shekau il «caos» era rappresentato dalla democrazia e dal sistema educativo occidentale, in opposizione al quale il nuovo leader rilanciò, in versione radicale, due temi distintivi di Boko Haram: l’ingiustizia subita dai musulmani ad opera dello Stato nigeriano, contro il quale non restava che imbracciare le armi, e la necessità per i musulmani di decidere da che parte stare in questo conflitto. Ne consegue che le persone non schierate o schierate contro il movimento devono essere eliminate, anche se musulmane.

 

Nel 2013 comincia allora una fase di «guerra totale», caratterizzata da una sistematica violazione dei diritti umani da parte di tutti gli attori in gioco, ulteriore ostacolo alla possibilità di riconciliazione. Una guerra alimentata a sua volta dal coinvolgimento straniero in Nigeria, che non farà altro che mettere in luce i limiti del ricorso esclusivo alla forza militare contro Boko Haram, riuscito negli ultimi anni a diffondersi anche nel bacino del lago Ciad. Successivamente, nel 2016 lo Stato islamico benedice una divisione interna al movimento, approvando la creazione della Provincia dello Stato islamico in Africa occidentale (meglio nota come ISWAP, acronimo dell’inglese Islamic State West Africa Province), che continua anche oggi a perpetrare attacchi in Nigeria e nella regione del Sahel.

 

Le sole misure di sicurezza si sono dimostrate inefficaci nel contrastare Boko Haram e le sue più recenti diramazioni, e lo stesso si può dire della politica di “nascondere la polvere sotto il tappeto” da parte delle autorità nigeriane, che hanno sempre evitato di risolvere i conflitti sociali presenti nel Paese. Per questo, afferma Thurston «non si troverà una soluzione duratura a Boko Haram […] finché la politica non sarà di nuovo in campo e avverrà un confronto. Quali sono le rivendicaizoni politiche del gruppo e in che modo queste rivendicazioni sono irriducibili alla privazione economica? Quali decisioni politiche sono necessarie per porre fine al conflitto e chi saranno i vincitori e i vinti? I membri di Boko Haram che si trovano in carcere saranno sottoposti a processo o inseriti in programmi di deradicalizzazione? Ci sarà una riconciliazione tra i responsabili delle violenze e le loro vittime? […]» (p. 302).

 

Secondo l’autore, quindi, il solo modo per evitare che in Nigeria la storia si ripeta, consiste nel rispondere a tutte queste domande. Non che ne esista una definitivamente giusta, ma è importante che la politica riprenda il proprio ruolo centrale e dialoghi con Boko Haram nel contesto di un più ampio processo di riconciliazione.

 

Altrimenti la Nigeria e i suoi vicini nel Sahel rischiano di essere risucchiati nello stesso buco nero in cui sono sprofondati Paesi come la Libia, la Siria o lo Yemen, in cui terrorismo, lotta armata permanente e coinvolgimento straniero hanno esacerbato conflitti di cui ancora non si vede la fine.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
 
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