Le società della penisola araba e quelle del Corno d’Africa hanno profondi legami storici. Negli ultimi anni, tuttavia, si è allargato il divario economico tra le due regioni e gli stili di vita adottati negli Stati del Golfo hanno avuto un impatto devastante sugli equilibri dell’altra sponda del Mar Rosso.

Questo articolo è pubblicato in Oasis 32. Leggi il sommario

Ultimo aggiornamento: 29/11/2023 15:50:25

Le società della penisola araba e quelle del Corno d’Africa hanno profondi legami storici. Negli ultimi anni, tuttavia, si è allargato il divario economico tra le due regioni e gli stili di vita adottati negli Stati del Golfo dopo la crisi petrolifera del 1973 hanno avuto un impatto devastante sugli equilibri dell’altra sponda del Mar Rosso. I cambiamenti climatici in corso impongono di ripensare questo modello disfunzionale d’integrazione regionale.

 

 

Le società della penisola araba sono tra le più prospere ma anche tra le meno sostenibili del mondo. L’“Earth Overshoot Day” – il momento dell’anno in cui l’utilizzo di energia, cibo, terra, risorse minerarie e idriche di un Paese supera ciò che il pianeta può rigenerare in un anno – è caduto il 9 febbraio 2021 per il Qatar, il 9 marzo per il Bahrain e il 14 marzo per il Kuwait. Cinque dei dieci Paesi del mondo che hanno l’impronta ecologica più pesante sono Stati del Golfo[1]. Qatar, Kuwait ed Emirati Arabi Uniti (EAU) sono anche i principali emettitori di anidride carbonica pro capite al mondo (Oman e Arabia Saudita non fanno molto meglio), e questo senza considerare le emissioni prodotte dagli idrocarburi esportati dal Golfo e bruciati altrove. Appena dall’altra parte del Mar Rosso, invece, gli Stati del Corno d’Africa sono tra i più poveri del mondo e consumano una piccola parte di ciò che consuma il cittadino medio del Golfo. Le emissioni di un cittadino etiope o somalo medio, ad esempio, sono più di 300 volte inferiori a quelle di un qatarino. La biocapacità di un eritreo, cioè la capacità di assorbire i rifiuti generati dall’uomo e di soddisfare la domanda di materiali biologici utilizzati per il consumo umano, è tre volte superiore alla sua impronta ecologica[2]. In questo senso il Mar Rosso non è soltanto una barriera geografica, ma anche uno specchio d’acqua che divide un mondo fatto di rilevanza geopolitica, finanza transnazionale e consumismo sfrenato, da un altro, molto meno potente.

 

Negli ultimi anni, tuttavia, un numero crescente di studiosi e decisori politici ha sottolineato i legami sempre più stretti tra le società della penisola araba e quelle del Corno d’Africa[3]. L’immenso divario socio-economico e politico che esiste oggi ha origini recenti. Per secoli, infatti, bestiame, mercanti, pellegrini, marinai, ulema e molti altri hanno attraversato il mare tessendo una fitta trama di scambi socio-culturali, economici e ambientali che è ancora visibile e significativa[4]. Quel rapporto relativamente equilibrato è cambiato radicalmente in seguito alla crescita dell’economia del carbonio e all’impennata dei prezzi causata dalla crisi petrolifera del 1973 che, da un giorno all’altro, ha trasformato una sponda del Mar Rosso in un’esportatrice di petrolio e capitali verso l’altra sponda, sempre più indebitata nei suoi confronti. Gli studi più recenti si sono concentrati sulle conseguenze dei progetti concorrenti di state-building nel Mar Rosso e sulle ricadute nel Corno d’Africa della polarizzazione regionale in Medio Oriente, tra Arabia Saudita e Iran, tra gli stessi Stati del Golfo, e tra Israele e i suoi nemici regionali[5]. Un tema chiave di molti di questi studi è proprio la destabilizzazione politica di Stati africani già frammentati[6]. In questa letteratura compaiono spesso anche le migrazioni, il più delle volte illegali, perché lo sfollamento e la “scelta” di partire sono strettamente legati ai conflitti e all’inasprimento delle tensioni regionali e delle disuguaglianze orizzontali[7].

 

Uno sfruttamento selvaggio

 

Molto meno studiata è invece l’economia politica del Mar Rosso e soprattutto il modo in cui la ricerca di stili di vita lussuosi (per alcuni), il dissesto ambientale e la violenza sono collegati attraverso i flussi di capitali, di persone e di risorse tra il Golfo e il Corno d’Africa. Il divario esistente tra le due sponde del Mar Rosso non dipende soltanto dalla grande disponibilità di idrocarburi che una parte può monetizzare e l’altra no, ma è anche riprodotto e aggravato da decisioni governative, catene di approvvigionamento transnazionali e visioni predatorie della modernizzazione che causano degrado del territorio, inquinamento e perdita della biodiversità. Gli esempi abbondano. Per decenni, sauditi, kuwaitiani e altri cittadini del Golfo sono andati in Somalia e Sudan a cacciare animali selvatici (otididi, cervi, gazzelle, stambecchi, struzzi) e catturare migliaia di camaleonti, leopardi, tartarughe da usare come animali domestici[8]. Specie in via di estinzione come i ghepardi vengono contrabbandate dall’Etiopia a famiglie benestanti in Arabia Saudita e negli Emirati Arabi Uniti, ciò che secondo la Convenzione sul commercio internazionale delle specie minacciate di estinzione (CITES)[9] mette a rischio la loro sopravvivenza. Secondo un’indagine sul commercio illegale di ghepardi realizzata nel corso di alcuni decenni, il 90% di tutti gli incidenti identificati sono riconducibili agli Stati del Golfo e più del 50% di questi riguardano un singolo Paese: l’Arabia Saudita[10].

 

Anche altri Stati del Golfo hanno un debole per gli animali selvatici provenienti dall’area del Mar Rosso. Nel 2008, l’Al Ain National Wildlife, una società con sede negli Emirati Arabi Uniti, ha affittato quasi 2 milioni di ettari di terreno nel Parco nazionale di Boma, all’epoca parte del Sudan, per un periodo di 30 anni. L’accordo è stato siglato subito dopo la visita, nel marzo del 2008, dell’allora vice-presidente del Sudan, Salva Kiir, all’emiro Khalifa bin Zayed al-Nahyan ad Abu Dhabi, in seguito alla quale il primo incaricò le autorità locali di agevolare il trasferimento della terra. Nato per offrire a campeggiatori (e cacciatori) la straordinaria opportunità di osservare da vicino uno dei più grandi spettacoli migratori dell’Africa (800.000 kob dalle orecchie bianche in movimento), il progetto è stato interrotto solo a causa dello scoppio della guerra civile in quello che dopo il 2011 sarebbe diventato il Sud Sudan indipendente. Questa battuta d’arresto non ha però scoraggiato i cittadini degli Emirati, che continuano a desiderare la fauna selvatica dell’altra sponda del Mar Rosso. Nel 2015, con un comunicato molto insolito, il Ministero degli Affari esteri degli Emirati invitava i suoi cittadini a non intraprendere le tradizionali battute di caccia nelle regioni sudanesi del Nilo Azzurro, del Darfur e del Kordofan meridionale, dove negli ultimi quattro decenni centinaia di migliaia di persone erano morte a causa delle violenze politiche. Il comunicato non aveva lo scopo di dissuadere dalla caccia in sé, ma di evidenziare i rischi per la sicurezza dei cittadini emiratini in cerca di trofei nelle periferie sudanesi devastate dalla guerra[11].

 

Il turismo venatorio e le richieste di felini e uccelli da esibizione da parte del Golfo continuano incessanti in tutto il Corno d’Africa almeno dagli anni ’60. Se il COVID-19 ha momentaneamente fermato i viaggi, la domanda di animali africani è rimasta costante e non c’è motivo di pensare che la caccia non torni ai livelli pre-2020. Il problema del commercio illegale e dell’abbattimento di animali selvatici non è solo l’impatto devastante che queste attività hanno sulla biodiversità regionale e sulla sopravvivenza di specie importanti[12], ma anche la corruzione delle autorità locali e statali che questi traffici comportano, l’appropriazione di terreni collettivi ancestrali e riserve naturali e il finanziamento di reti criminali che operano su entrambe le sponde del Mar Rosso, con Dubai che spesso svolge un ruolo chiave.

 

Le stesse dinamiche di sfruttamento violento della fauna selvatica e delle risorse dei territori africani si ritrovano anche nei mari. La pesca illegale, non regolamentata e non dichiarata (INN) ha svuotato le acque al largo della costa della Somalia, soprattutto dopo il crollo dello Stato nel 1991, spingendo schiere di pescatori somali impoveriti verso la pirateria[13]. L’implosione dell’autorità governativa ha permesso a migliaia di navi straniere, in piena violazione del diritto internazionale, di scaricare rifiuti tossici e persino radioattivi nelle acque territoriali della Somalia e di razziare le abbondanti risorse ittiche che vi vivono e vi si riproducono[14]. L’attività più rapace è stata svolta da navi provenienti dall’Iran, dallo Yemen e dall’Egitto, che hanno causato perdite fino a 450 milioni di dollari l’anno per l’economia somala[15]. Mentre attivisti della società civile somala cercavano di protestare contro questo saccheggio e di sensibilizzare l’opinione pubblica internazionale, reti criminali dei Paesi summenzionati, oltre che dell’Oman e degli Emirati Arabi Uniti, hanno continuato le loro operazioni eludendo i controlli. Ciò non sorprende visto che la Somalia non ha una guardia costiera efficiente e la sua costa, che si estende per 3.333 km, è la più lunga dell’Africa ed è quindi difficile da pattugliare. Secondo le stime più attendibili, tra il 1981 e il 2014 i pescherecci stranieri (soprattutto iraniani e yemeniti) hanno pescato più di 2,5 milioni di tonnellate di pesce, superando di gran lunga la capacità di pesca delle barche somale[16]. L’emergere della pirateria a metà degli anni 2000 nel Golfo di Aden è una storia complessa e non può essere ridotta ai pescatori somali arrabbiati che si vendicano sulle barche internazionali in transito nelle acque territoriali della Somalia[17]. È innegabile però che la devastazione delle fonti di sussistenza marine attraverso la pesca INN è fondamentale per comprendere l’ondata di dirottamenti che ha dominato le prime pagine dei quotidiani internazionali tra il 2008 e il 2013[18]. Vale la pena notare che, al culmine dell’attività della pirateria somala, la pesca ufficiale nell’Oceano Indiano occidentale, per esempio di tonno, da parte delle navi europee si è ridotta della metà[19].

 

Interessi di pochi, danni per molti

 

L’importanza dell’economia politica di estrazione delle risorse dal Corno d’Africa verso il Golfo va al di là della perdita di biodiversità, dei sogni di gloria venatoria o dei banchetti a base di pesce. Ciò è particolarmente evidente nel modo in cui i legami tra le società del Mar Rosso influiscono sulla capacità di queste ultime di rispondere ai cambiamenti climatici e di adattarsi a condizioni sempre più incerte, che minacciano la produttività agricola e la già scarsa disponibilità di acqua dolce[20]. Negli ultimi decenni la Somalia ha più volte sperimentato l’inferno con il collasso dello Stato, la pulizia clanica, le numerose carestie, le invasioni di locuste o lo sfollamento di milioni di cittadini. Tuttavia, il modo in cui attori esterni continuano ad alimentare violenza e crisi prolungate è ancora sottovalutato. Il commercio illegale di carbone ne è un esempio[21]. In diverse aree della Somalia meridionale e centrale gli alberi di acacia (e in misura minore anche di mango) sono stati abbattuti per ricavarne legna da ardere e per l’esportazione. In risposta alla domanda straniera, principalmente del Golfo, di carbone somalo (ritenuto il migliore per fumare il narghilè e per grigliare la carne o il pesce), le comunità nomadi, i cittadini sfollati e gli agricoltori in difficoltà hanno iniziato a tagliare e vendere legna per tirare avanti. Il taglio di alberi di acacia e di mango è cresciuto in maniera esponenziale dopo che nel 2000 è stato imposto per ragioni fitosanitarie il divieto di esportazione di bestiame nel Golfo e la gente ha cercato in ogni modo di conservare un reddito. Il carbone raccolto nell’entroterra rurale della Somalia è facile da conservare, leggero da trasportare e brucia a una temperatura più elevata rispetto agli altri tipi di carbone. Nel suo tragitto verso le città portuali come Chisimaio e Mogadiscio, viene inoltre ripetutamente tassato illegalmente dai ribelli jihadisti di al-Shabab, dalle forze filo-governative, dalle milizie locali e persino dalle forze di pace keniote. Superati questi passaggi, viene trasportato via nave in Oman, Yemen o direttamente negli Emirati Arabi Uniti, a Dubai, l’hub regionale da cui buona parte del carbone somalo viene poi rivenduto ai clienti del Golfo ma anche della Giordania e del Libano. Nonostante le denunce delle Nazioni Unite e il divieto formale di esportazione introdotto nell’ultimo decennio, il flusso di carbone verso la penisola araba continua senza sosta, come peraltro si evince anche soltanto da una rapida conversazione con i commercianti all’ingrosso e con i ristoratori in varie città portuali del Golfo.

 

Oltre ad aver contribuito ad alimentare conflitti devastanti e a minare le fragili strutture statali della Somalia, il commercio oltremare di carbone ha anche aggravato la povertà energetica interna. Ha infatti fatto crescere il prezzo della legna da ardere e privato diverse comunità delle loro fonti storiche di biomassa, provocando un disastro ambientale[22]. La perdita di enormi quantità di foresta – fino alla metà della foresta esistente prima della guerra nel Basso Juba[23] – provoca l’aumento delle temperature locali e delle emissioni di carbonio, una minore capacità del terreno di trattenere l’umidità, una minore produttività del suolo e livelli più elevati di erosione[24]. Il degrado del suolo è un problema sempre più grave, che mette a rischio la capacità delle persone di rispondere a improvvisi cambiamenti economici, politici e/o meteorologici[25]. Il commercio di carbone tra il Corno d’Africa e il Golfo, quindi, espone ulteriormente la regione alla siccità estrema e alle forti inondazioni, oltre agli altri danni che i cambiamenti climatici globali stanno già provocando[26].

 

L’importazione di carbone è un esempio di come la pressione di interessi economici relativamente modesti nel Golfo possa avere conseguenze gravi sulle fonti di sussistenza e sugli ecosistemi locali, oltre che sulla stabilità politica nel Corno d’Africa. Ciò è ancora più evidente nei grandi progetti ad alta intensità di capitale, ufficialmente destinati a rafforzare la sicurezza idrica e alimentare su entrambe le sponde del Mar Rosso. Negli ultimi venticinque anni, gli Stati del Golfo vi hanno preso attivamente parte, soprattutto dopo le precedenti iniziative (fallite) degli anni ’70 e ’80. Il contesto storico è istruttivo per capire il come e il perché. Con l’aumento dei prezzi globali del petrolio nel 1973 e l’impennata della spesa pubblica (e privata) nelle economie del Golfo, le tensioni derivanti dai consumi crescenti si sono rapidamente manifestate nella forma del divario alimentare e idrico: l’offerta non poteva infatti tenere il passo della domanda di popolazioni sempre più numerose e più ricche[27]. Nonostante sforzi estremamente onerosi di raggiungere l’autosufficienza interna attraverso l’importazione di tecnologia, la costruzione di infrastrutture, l’esproprio di terreni, l’erogazione di sussidi, etc., il divario tra il consumo e l’offerta di cibo (e di acqua) ha continuato ad ampliarsi. E soltanto nei primi anni 2000 è stato definitivamente abbandonato il fantomatico obiettivo dell’autosufficienza[28]. L’Arabia Saudita, il Qatar, il Kuwait e gli Emirati hanno invece investito miliardi di petrodollari nell’agricoltura all’estero con l’obiettivo di importare prodotti agricoli, foraggi per animali e altri prodotti ad alto contenuto di “acqua virtuale”[29]. Quando nel 2008 e nel 2011 i prezzi mondiali dei generi alimentari hanno raggiunto un picco, questo genere d’investimenti è stato effettuato un po’ ovunque, dall’Australia agli Stati Uniti; ciò non toglie che si è sempre più privilegiata la sponda africana del Mar Rosso: l’Egitto e il Sudan e, in misura minore l’Etiopia e il Sud Sudan, sono diventati destinazioni fondamentali per garantire alle economie del Golfo un approvvigionamento affidabile e conveniente di prodotti agricoli ad alta intensità d’acqua[30].

 

La massa di capitali del Golfo messi a disposizione per questa grande iniziativa è stata investita in diversi progetti, tutti con caratteristiche simili: attività ad alta intensità d’acqua come la coltivazione di grano, canna da zucchero o erba medica; ricorso massiccio alle esenzioni fiscali per favorire investimenti in nuove aree, all’importazione degli elementi necessari alla produzione e a fonti idriche locali “gratuite” per la coltivazione di prodotti agricoli; una struttura di progetto ad alta intensità di capitale più che di lavoro e pressoché priva di collegamenti con l’economia degli Stati africani. Nonostante queste iniziative siano ufficialmente presentate come volte a rafforzare, attraverso il sostegno fraterno arabo, la sicurezza alimentare, idrica e talvolta energetica del continente africano, in realtà la maggior parte di esse è radicata in relazioni occulte con élite egiziane e sudanesi (spesso militari o legate alla sicurezza nazionale) che ne hanno spesso beneficiato considerevolmente[31].

 

Gli argomenti a favore di tali investimenti in infrastrutture e coltivazioni ruotano attorno a due logiche: la prospettiva di incrementare i tassi di produttività agricola cronicamente bassi dei Paesi di destinazione degli investimenti (e quindi la presunta necessità di capitali esteri per superare questo problema) e l’opportunità di fornire alle economie del Golfo cibi e foraggi migliori, a costi ambientali e finanziari inferiori rispetto a quelli imposti dai tentativi arabi di raggiungere l’autosufficienza[32].

 

Purtroppo, queste aspettative non sono confermate dal costo effettivo dei tentativi di integrazione nelle catene di approvvigionamento del Golfo. I benefici economici derivanti da questo tipo di agricoltura, con l’affitto a lungo termine di centinaia di migliaia di ettari di terra a “partner” sauditi o emiratini, sono stati scarsi[33]. A causa delle esenzioni fiscali, questi investimenti non hanno generato quasi nessun introito per il Tesoro egiziano, etiope o sudanese. Inoltre, i prestiti del Golfo, ad esempio per pagare le dighe idroelettriche, sono stati spesso concessi a tassi non agevolati (commerciali), contribuendo così alla crescita di livelli del debito già alti. Questi effetti deleteri sulle finanze pubbliche degli Stati africani non sono stati compensati da guadagni in altre aree: i progetti di mega-aziende agricole in Egitto o in Sudan impiegano poche centinaia di persone e difficilmente incidono significativamente sulla disoccupazione diffusa. Infine, i trasferimenti di tecnologia sono praticamente inesistenti. Inoltre, anche solo in termini di redditività dei capitali del Golfo, le partnership con il Sudan e l’Etiopia sono state particolarmente povere di valore[34]. Come si può vedere dalle statistiche sulle importazioni e sulle esportazioni, la produzione è stata sistematicamente deludente e il suo valore per le economie del Golfo nel loro complesso (al contrario di quanto avvenuto in alcuni casi per i singoli investitori) marginale; il risultato è ben lontano dalla rivoluzione della produttività promessa e dalla creazione di un “granaio per il mondo arabo”. Insieme, Egitto, Eritrea, Etiopia, Somalia e Sudan hanno rappresentato meno del 2,5% di tutte le importazioni in Arabia Saudita nel 2019. Le esportazioni dal litorale africano del Mar Rosso verso gli Emirati, il Qatar e il Kuwait sono ancora meno significative in termini percentuali rispetto ai flussi commerciali totali di questi Stati del Golfo[35].

 

A peggiorare le cose, questo modello disfunzionale di integrazione regionale del capitale e delle risorse naturali ha ulteriormente indebolito la capacità della sponda africana del Mar Rosso di rispondere ai cambiamenti climatici. La costruzione di dighe finanziate dal Golfo in alcuni dei luoghi più caldi della terra e su terreni molto pianeggianti non solo ha trasformato preziosissimi terreni agricoli fertili in immensi laghi artificiali (che hanno richiesto lo sfollamento di decine di migliaia di abitanti), ma ha anche portato a eccezionali tassi di evaporazione delle limitate acque del Nilo. Inoltre, insistere sulla produzione di energia idroelettrica in un contesto di riscaldamento globale è un intervento rischioso. Come osservano Watts e altri, pur promettendo di immagazzinare più acqua per proteggersi da una maggiore variabilità[36], la costruzione di nuove dighe «può aggravare lo stress su ecosistemi acquatici già altamente alterati», specialmente quando aumenta l’incertezza meteorologica[37]. L’andamento sempre più irregolare delle precipitazioni perturba i modelli di progettazione/pianificazione delle dighe e spesso porta a cali impressionanti della produzione di energia, a una maggiore predisposizione alla diffusione della malaria e a fuoriuscite impreviste di acqua dalle dighe in quantità superiori a quelle gestibili[38]. Per gli Stati africani, inoltre, il costo opportunità di investire nell’energia idroelettrica su larga scala è considerevole, in particolare alla luce della consolidata abitudine del settore di gonfiare eccessivamente i benefici del progetto e minimizzare le consistenti esternalità[39].

 

Il fallimento dei progetti tecno-centrici

 

I flussi di capitali del Golfo hanno quindi creato una rete di molteplici legami tra le due sponde del Mar Rosso, ma hanno contribuito molto poco alla sicurezza idrica, energetica e alimentare, e in alcuni Paesi come il Sudan l’hanno persino gravemente danneggiata. Tutto questo fa sorgere spontanea una domanda: perché gli Stati africani continuano ad andare in cerca di questi progetti e di questi finanziamenti? Dopotutto i matrimoni si fanno in due. La spiegazione principale è che gli obbiettivi di questi scambi asimmetrici sono politici piuttosto che economici o ambientali: sono meccanismi attraverso i quali le élite del Golfo e dell’Africa suggellano partenariati politici redditizi per i soggetti che vi sono coinvolti direttamente e le loro reti. Questa dinamica deve essere collocata nel contesto della polarizzazione politica mediorientale avvenuta negli ultimi 15 anni[40].

 

Gli accordi di investimento sui terreni, i prestiti erogati per la costruzione di dighe e canali, e i depositi presso le banche centrali africane per sostenere le importazioni di prodotti alimentari, ad esempio del grano, mirano a garantire un certo grado di allineamento di medio periodo dei destinatari africani con le politiche estere dell’Arabia Saudita, del Qatar o degli Emirati, su temi come l’isolamento dell’Iran, il contrasto dei Fratelli musulmani e il superamento delle rivalità tra gli Stati del Golfo. In questo senso, il recente aumento dei flussi di capitale del Golfo rientra in uno schema consolidato in cui il sostegno extraregionale a progetti idrici, energetici e alimentari viene usato dagli attori politici africani per il consolidamento dei regimi e lo state building di fronte a popolazioni recalcitranti[41]. Tuttavia, il dissesto dei mezzi di sussistenza, il degrado del suolo e le crescenti disuguaglianze generati da questi flussi e da queste filiere scatenano una violenta opposizione civile contro tale ingiustizia ambientale[42]. Le insurrezioni nel Sinai egiziano, nelle regioni sudanesi del Darfur, del Kordofan meridionale e del Nilo Azzurro, e nel bassopiano etiopico non possono essere comprese se non si tiene conto dell’economia politica degli investimenti esteri (e nazionali) e dei “progetti di sviluppo” che hanno impedito alle comunità locali l’accesso al cibo, all’elettricità e all’acqua cacciandole dalle loro terre[43].

 

L’intensificazione dei cambiamenti climatici contribuisce a rendere più pressante la questione dei capitali del Golfo e il modo in cui essi limitano le opzioni di sviluppo nel Corno d’Africa. Nonostante i risultati economici e ambientali molto problematici degli ultimi decenni, i governi – in particolare quello egiziano e quello sudanese, ma dopo il 2018 anche quello etiope di Abiy Ahmed – continuano a guardare alle risorse del Golfo come a un motore della crescita suscettibile di aumentare la loro capacità di affrontare le avversità climatiche. Parte di questo entusiasmo si spiega con la mancanza di alternative: a causa della riduzione di (alcuni) investimenti cinesi in Africa a partire dal 2015 e delle relativamente magre linee di credito offerte dalle banche multilaterali di sviluppo a guida occidentale[44], gli Stati africani indebitati non hanno altri interlocutori cui rivolgersi per finanziare iniziative costose. D’altra parte, pesano anche i benefici politici di cui si è detto, derivanti dalla creazione di progetti che aiutano élite ristrette a consolidare il proprio potere. A ciò si aggiunge un terzo fattore, che è sempre più importante quando si tratta di resilienza e adattamento al cambiamento climatico: l’influenza ideale di una visione golfo-centrica della modernità, che qualcuno chiama il “modello Dubai”[45].

 

La convinzione che le infrastrutture – soprattutto quelle grandi e nuove – e i progetti ad alta intensità di capitale in siti vergini possano qualitativamente cambiare le relazioni tra Stato e società è molto allettante: stuzzica la fantasia dei governi che, di fronte alle sfide globali, vi vedono la possibilità di superare l’entropia dei vecchi modelli socio-ambientali di produzione, consumo e organizzazione sociale, e unirsi al club esclusivo delle nazioni più avanzate. L’assunto che la sottende è quello di far germogliare i deserti attraverso il mercato, interventi incentrati sull’offerta e il ricorso a tecnologie all’avanguardia. Si presume che tale combinazione garantisca un uso più efficiente delle risorse e una maggiore resilienza. Questo approccio da tabula rasa si riflette negli sviluppi del mercato immobiliare e nei progetti architettonici ispirati al Golfo che hanno raggiunto il bacino del Nilo negli ultimi due decenni[46]. Lo si vede anche nei tentativi di ridefinire gli annosi problemi dell’acqua, dell’energia e dell’insicurezza alimentare sulla sponda africana del Mar Rosso attraverso il linguaggio dell’adattamento tecno-centrico ai cambiamenti climatici, a prescindere da come essi stiano effettivamente influendo sulle persone e sulle strutture economiche sul terreno. Secondo questa visione, che ci si trovi ad Abu Dhabi, Khartoum o nella Nubia egiziana, gravi carenze di risorse possono essere superate attraverso nuove tecnologie, nuove linee di offerta e nuove forme urbanistiche, piuttosto che facendo i conti con le caotiche, contraddittorie e irrazionali forme di vita sociale che si sono sviluppate nel corso del tempo e che sono messe sotto accusa per una miriade di patologie ambientali e politiche[47].

 

I problemi ambientali come problemi sociali

 

In ultima analisi, i problemi ambientali sono problemi sociali, in Medio Oriente e in Africa come altrove, e affrontarli ci costringe a riconsiderare le relazioni sociali e gli ordini politici da cui sono scaturiti[48]. I cambiamenti climatici previsti nel XXI secolo per entrambe le sponde del Mar Rosso si annunciano spaventosi, ma potrebbero avere un risvolto positivo: rendono infatti imperativo il compito di ripensare e rimodellare l’ultimo mezzo secolo di interazioni asimmetriche tra il Golfo e il Corno d’Africa. Mentre i periodi di siccità si allungano, le piene improvvise diventano più devastanti e i livelli dei mari aumentano, c’è da aspettarsi che si moltiplichino anche gli appelli ad affrontare queste crisi invocando investimenti e trasferimenti di tecnologie dal Golfo. Ma se non faremo i conti con la devastante eredità della politica economica che ha sfruttato le risorse e la biodiversità africane per consentire stili di vita sfarzosi da una riva all’altra del Mar Rosso, questo approccio alla resilienza e all’adattamento climatico finirà probabilmente per aggravare i problemi, invece di valorizzare le persone e le loro risorse.

 

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
 
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Oasiscenter
Abbiamo bisogno di te

Dal 2004 lavoriamo per favorire la conoscenza reciproca tra cristiani e musulmani e studiamo il modo in cui essi vivono e interpretano le grandi sfide del mondo contemporaneo.

Chiediamo il contributo di chi, come te, ha a cuore la nostra missione, condivide i nostri valori e cerca approfondimenti seri ma accessibili sul mondo islamico e sui suoi rapporti con l’Occidente.

Il tuo aiuto è prezioso per garantire la continuità, la qualità e l’indipendenza del nostro lavoro. Grazie!

sostienici


[1] https://www.overshootday.org/newsroom/country-overshoot-days/
[2] https://data.footprintnetwork.org/#/countryTrends?cn=178&type=BCpc,EFCpc
[3] Asteris Huliaras e Sophia Kalantzakos, The Gulf States and the Horn of Africa: A new hinterland?, «Middle East Policy» vol. 24, n. 4 (2017), pp. 63-73; Zach Vertin, Red Sea Rivalries: The Gulf, the Horn, and the New Geopolitics of the Red Sea, Brookings Institute, 8 agosto 2019, https://brook.gs/3JWRuMn; Michael Woldemariam e Alden Young, What Happens in Sudan Doesn’t Stay in Sudan: Will Khartoum Become the Center of a New African Order or an Appendage of the Gulf?, «Foreign Affairs», 19 luglio 2019.
[4] Jonathan Miran, Red Sea Citizens: Cosmopolitan Society and Cultural Change in Massawa, Indiana University Press, Bloomington (IN) 2009; Steven Serels, The Impoverishment of the African Red Sea Littoral, 1640–1945, Palgrave Macmillan, London 2018.
[5] Harry Verhoeven, The Gulf and the Horn: Changing Geographies of Security Interdependence and Competing Visions of Regional Order, «Civil Wars» vol. 20, n. 3 (2018), pp. 333-357; Brendon J. Cannon e Federico Donelli, Asymmetric Alliances and High Polarity: Evaluating Regional Security Complexes in the Middle East and Horn of Africa, «Third World Quarterly» vol. 41, n. 3 (2020), pp. 505-524; Yotam Gidron, Israel in Africa: Security, Migration, Interstate politics, Zed Books, London 2020.
[6] Harry Verhoeven, The Other Gulf Cold War: GCC Rivalries in Africa, in Rory Miller (a cura di), The Gulf Crisis: A View from Qatar, Hamad bin Khalifa University Press, Doha 2018, pp. 167-188; Colin D. Robinson e Jahara Matisek, Military advising and assistance in Somalia: fragmented interveners, fragmented Somali military forces, «Defence Studies» vol. 21, n. 2 (2021), pp. 181-203.
[7] Marina De Regt, Ways to Come, Ways to Leave: Gender, Mobility, and Il/legality among Ethiopian Domestic Workers in Yemen, «Gender & Society» vol. 24, n. 2 (2010), pp. 237-260; Gebreslassie Kiros e Mehari Zeru, A human security perspective to human trafficking from Ethiopia to Saudi Arabia: the case of Atsbi Wenberta woreda in Tigray region, «Migration and Development» (2020), pp. 1-20. Katie Kuschminder, Zoë Ogahara e Iman Rajabzadeh, Evaluations of Return Within a Mass Deportation: Ethiopians’ Experiences of Return after Expulsion from Saudi Arabia, «International Migration» vol. 59, n. 2 (2021), pp. 167-185.
[8] John L. Cloudsley-Thompson, Wildlife massacres in Sudan, «Oryx» vol. 26, n. 4 (1992), pp. 202-204. Si veda anche Cheetah smuggling out of Ethiopia ‘fuelled by exotic pets demand’, «BBC News», 17 gennaio 2020, https://bbc.in/3xzlOtP
[9] https://cites.org/sites/default/files/eng/com/sc/65/E-SC65-39.pdf
[10] Patricia Tricorache, Shira Yashphe e Laurie Marker, Global dataset for seized and non-intercepted illegal cheetah trade (Acinonyx jubatus) 2010–2019, «Data in Brief» vol. 35 (aprile 2021), https://bit.ly/3EGVSOB
[11] https://sudantribune.com/article57036/
[12] José Carlos Brito, Sarah M. Durant, Nathalie Pettorelli, John Newby, Susan Canney, Walid Algadafi, Thomas Rabeil et al., Armed conflicts and wildlife decline: Challenges and recommendations for effective conservation policy in the Sahara‐Sahel, «Conservation Letters» vol. 11, n. 5 (2018).
[13] Afyare A. Elmi, Illegal Fishing and Piracy in the Horn of Africa: The Role of the MENA region, in Harry Verhoeven (a cura di), Environmental Politics in the Middle East. Local Struggles, Global Connections, Oxford University Press, New York 2018, pp. 149-166.
[14] Eric Herring, Latif Ismail, Tom B. Scott e Jaap Velthuis, Nuclear security and Somalia, «Global Security: Health, Science and Policy» vol. 5, n. 1 (2020), pp. 1-16.
[15] Mohamed Abshir Waldo, The Two Piracies in Somalia: Why the World Ignores the Other, International Monitoring, Control and Surveillance Network for Fisheries-related Activities, 2009.
[16] Sarah M. Glaser, Paige M. Roberts e Kaija J. Hurlburt, Foreign Illegal, Unreported, and Unregulated Fishing in Somali Waters Perpetuates Conflict, «Frontiers in Marine Science» vol. 6 (2019), p. 704.
[17] Stig Jarle Hansen, Debunking the Piracy Myth: How Illegal Fishing Really Interacts with Piracy in East Africa, «The RUSI Journal» vol. 156, n. 6 (2011), pp. 26-31.
[18] Awet T. Weldemichael, Maritime corporate terrorism and its consequences in the Western Indian Ocean: illegal fishing, waste dumping and piracy in twenty-first-century Somalia, «Journal of the Indian Ocean Region» vol. 8, n. 2 (2012), pp. 110-126.
[19] Emmanuel Chassot, Patrice Dewals, Laurent Floch, V. Lucas, M. Morales-Vargas e David Kaplan, Analysis of the effects of Somali piracy on the European tuna purse seine fisheries of the Indian Ocean, IOTC Scientific Committee Report: IOTC-2010-SC-09. Indian Ocean Tuna Commission, Victoria, Seychelles (2010).
[20] Saher Ayyad e Muhammad Khalifa. Will the Eastern Nile countries be able to sustain their crop production by 2050? An outlook from water and land perspectives, «Science of The Total Environment» vol. 775 (giugno 2021).
[21] Ilya Gridneff, Burning Somalia’s Future: The Illegal Charcoal Trade Between the Horn of Africa and the Gulf, in Harry Verhoeven (a cura di), Environmental Politics in the Middle East, pp. 121-148.
[22] Felix Rembold, S. M. Oduori, Hussein Gadain e Paolo Toselli, Mapping charcoal driven forest degradation during the main period of Al Shabaab control in Southern Somalia, «Energy for Sustainable Development» vol. 17, n. 5 (2013), pp. 510-514.
[23] Linda Ajuang Ogallo, Kenneth Mwangi, Philip Omondi, Gilbert Ouma e Gordon Wayumba, Land Cover Changes in Lower Jubba Somalia, «American Journal of Climate Change» vol. 7, n. 3 (2018), pp. 367-387.
[24] Michele Bolognesi, Anton Vrieling, Felix Rembold e Hussein Gadain, Rapid mapping and impact estimation of illegal charcoal production in Southern Somalia based on WorldView-1 imagery, «Energy for sustainable development» vol. 25 (2015), pp. 40-49.
[25] Christian Thine Omuto, Z. Balint e M. S. Alim, A framework for national assessment of land degradation in the drylands: a case study of Somalia, «Land degradation & development» vol. 25, n. 2 (2014), pp. 105-119.
[26] Charles Lwanga-Ntale e Boniface O. Owino, Understanding vulnerability and resilience in Somalia, «Jàmbá: Journal of Disaster Risk Studies» vol. 12, n. 1 (2020). Andreas Waaben Thulstrup, Didier Habimana, Indira Joshi, Simon Mumuli Oduori, Uncovering the challenges of domestic energy access in the context of weather and climate extremes in Somalia, «Weather and Climate Extremes» vol. 27 (2020).
[27] Eckart Woertz, Oil for Food: The Global Food Crisis and the Middle East, Oxford University Press, Oxford 2013.
[28] Toby Craig Jones, Desert Kingdom: How Oil and Water Forged Modern Saudi Arabia, Harvard University Press, Cambridge 2010; Elie Elhadj, Experiments in Achieving Water and Food Self-sufficiency in the Water Scarce Middle East: The Consequences of Contrasting Endowments, Ideologies and Investment Policies in Saudi Arabia and Syria, Tesi di dottorato, Università di Londra, 2005.
[29] Si tratta di beni la cui produzione richiede molta acqua. Importarli aiuta a ridurre il fabbisogno idrico dell’economia nazionale. Si veda John Anthony Allan, Virtual Water-the Water, Food, and Trade Nexus. Useful Concept or Misleading Metaphor?, «Water international» vol. 28, n. 1 (2003), pp. 106-113.
[30] Eckart Woertz, The Governance of Gulf Agro-investments, «Globalizations» vol. 10, n. 1 (2013), pp. 87-104.
[31] Harry Verhoeven, The Gulf states in the political economy of the Nile Basin: a historical overview, in Emil Sandstrom, Anders Jagerskog, Terje Oestigaard (a cura di), Land and Hydropolitics in the Nile River Basin, Routledge, London 2016, pp. 69-88.
[32] Rami Zurayk, Jad Chaaban e Alia Sabra, Ensuring that potential Gulf farmland investments in developing countries are pro-poor and sustainable, «Food Security» vol. 3, n. 1 (2011), pp. 129-137.
[33] Christian Henderson, Land grabs reexamined: Gulf Arab agro-commodity chains and spaces of extraction, «Environment and Planning A: Economy and Space» vol. 53, n. 2 (2021), pp. 261-279.
[34] Martin Keulertz, Inward investment in Sudan: the case of Qatar, in Emil Sandstrom, Anders Jagerskog, Terje Oestigaard, Land and Hydropolitics in the Nile River Basin, pp. 89-104.
[36] Mike Muller, Hydropower dams can help mitigate the global warming impact of wetlands, «Nature», vol. 566, (19 febbraio 2019), pp. 315-317.
[37] Robyn J. Watts, Brian D. Richter, Jeffrey J. Opperman e Kathleen H. Bowmer, Dam reoperation in an era of climate change, «Marine and Freshwater Research» vol. 62, n. 3 (2011), p. 321.
[38] Bau-Shian Lee e Gene Jiing-Yun You, An assessment of long-term overtopping risk and optimal termination time of dam under climate change, «Journal of environmental management» n. 121 (2013), pp. 57-71; Solomon Kibret, Jonathan Lautze, Matthew McCartney, Luxon Nhamo e G. Glenn Wilson, Malaria and large dams in sub-Saharan Africa: future impacts in a changing climate, «Malaria journal» vol. 15, n. 1 (2016), pp. 1-14. Giovanni Martino Bombelli, Stefano Tomiet, Alberto Bianchi, Daniele Bocchiola, Impact of Prospective Climate Change Scenarios upon Hydropower Potential of Ethiopia in GERD and GIBE Dams, «Water» vol. 13, n. 5 (2021), p. 716.
[39] Atif Ansar, Bent Flyvbjerg, Alexander Budzier e Daniel Lunn, Should we build more large dams? The actual costs of hydropower megaproject development, «Energy policy» vol. 69 (giugno 2014), pp. 43-56.
[40] Morten Valbjørn e André Bank, The New Arab Cold War: rediscovering the Arab dimension of Middle East regional politics, «Review of International Studies» vol. 38, n. 1 (2012), pp. 3-24.
[41] Harry Verhoeven, Water, Civilisation and Power in Sudan: The Political Economy of Military-Islamist State Building, Cambridge University Press, Cambridge 2015.
[42] Tamer MA. Abd Elkreem, Power Relations of Development: The Case of Dam Construction in the Nubian Homeland, Sudan, LIT Verlag, Münster 2018; Nisrin Elamin, ‘The miskeet tree doesn’t belong here’: shifting land values and the politics of belonging in Um Doum, central Sudan, «Critical African Studies» vol. 10, n. 1 (2018), pp. 67-88.
[43] Evrim Görmüş, Bedouins and in-between border space in the Northern Sinai, «Mediterranean Politics» vol. 25, n. 3 (2020), pp. 289-309; Guma Kunda Komey, Land, Governance, Conflict & the Nuba of Sudan, James Currey, Melton 2010; Fana Gebresenbet, Land Acquisitions, the Politics of Dispossession, and State-remaking in Gambella, Western Ethiopia, «Africa Spectrum» vol. 51, n. 1 (2016), pp. 5-28.
[44] Chris Humphrey, Katharina Michaelowa, China in Africa: Competition for traditional development finance institutions?, «World Development», vol. 120 (2019), pp. 15-28.
[45] Martin Hvidt, The Dubai model: An outline of key development-process elements in Dubai, «International Journal of Middle East Studies», vol. 41, n. 3 (2009), pp. 397-418.
[46] Armelle Choplin, Alice Franck, A glimpse of Dubai in Khartoum and Nouakchott: prestige urban projects on the margins of the Arab world, «Built Environment», vol. 36, n. 2 (2010), pp. 192-205.
[47] Gökçe Günel, The infinity of water: Climate change adaptation in the Arabian Peninsula, «Public Culture», vol. 28, n. 2 (2016), pp. 291-315.
[48] Harry Verhoeven (a cura di), Environmental Politics in the Middle East.

 

Tags