Nel conflitto centrafricano non è chiaro se le religioni siano causa o pretesto del conflitto. Ma nel frattempo avanza un dubbio: la convivenza sarà ancora possibile?

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:37:52

Nel contesto del XI Comitato Scientifico di Oasis che mira ad approfondire e i conflitti interreligiosi e le loro cause, mi è parso doveroso segnalare la situazione del Centrafrica che vive una tragedia la cui soluzione appare ancora molto lontana. Gli eventi politici sono riassumibili in pochi dati, facilmente assimilabili a situazioni analoghe. All’inizio del 2013 un gruppo di ribelli chiamato Seleka riesce a conquistare la capitale del Centrafrica e ad insediare un proprio presidente. Il gruppo è per lo più composto da musulmani di origini ciadiane e sudanesi. Nel giro di pochi mesi la situazione si capovolge: la pressione dell’Unione Africana spinge i Seleka, incapaci di controllare il territorio, a ritirarsi. Si forma un nuovo governo e compaiono sulla scena gli anti-balaka, gruppi armati composti per lo più da ex-soldati dell’esercito sconfitto. [1] Le due fazioni in una cosa si sono tristemente assomigliate: nella scia di morti causate e nella brutalità contro la popolazione alternativamente cristiana o musulmana. Entrambi i gruppi continuano ad operare nel paese provocando una terribile instabilità e malgrado le diverse forze in interposizione africane e francesi presenti, non si può certo dire che vi sia una qualche forma di legalità e di ordine. Al momento, su una popolazione di oltre cinque milioni di abitanti, vi sono 838.000 sfollati interni e 245.868 rifugiati centrafricani nei paesi vicini.[2] Le parrocchie e le missioni sono diventati luogo di rifugio per migliaia di persone – cristiani e musulmani - e la chiesa è impegnata in un grande sforzo umanitario. Si segnalano anche episodi di pulizia etnica, laddove comunità minoritarie di cristiani o musulmani vengono cacciati dai luoghi dove hanno sempre vissuto.[3] Eppure sono tante le testimonianze che raccontano di una convivenza che fino a non molto tempo fa era pacifica e all’insegna della collaborazione.[4] Abitualmente, l’elemento religioso viene indicato la causa fondamentale del conflitto, ma come accaduta in altre situazioni analoghe, non ci si può accontentare di questa semplificazione. I Vescovi Cattolici, con una certa puntualità, hanno messo in luce il fatto che la lotta tra le varie fazioni mira anzitutto ad assicurarsi lo sfruttamento delle straordinarie risorse naturali del paese: legname, fauna e minerali.[5] A non accettare la mera interpretazione religiosa degli eventi a lungo accreditata dai media, è anche la parte musulmana, come nelle dichiarazione dell’imam Oumar Kobine Layama, presidente della Comunità islamica del Centrafrica, secondo il quale “in realtà viene usurpata la fede soltanto per raggiungere i propri fini politici, per la conquista del potere politico ed economico. Come sempre a pagare il prezzo più alto sono civili innocenti.” L’Iman Oumar ricorda anche che «da mesi noi leader religiosi centrafricani – anche cristiani e protestanti – riuniti in una piattaforma interconfessionale denunciamo questa escalation di violenze commesse da ribelli, milizie e mercenari che non fanno altro che strumentalizzare la religione e si presentano come difensori di una comunità o di un’altra.»[6] Quanto accade in Centrafrica non rappresenta un caso isolato: tutta la linea che corre a metà tra il tropico del cancro e l’Equatore è il confine logico tra il mondo cristiano ed il mondo musulmano in Africa. Lungo quella stessa linea troviamo la Nigeria con il Camerun da un lato ed il Sudan dall’altro. Per tutti questi paesi ci potremmo chiedere se la religione sia la causa o il pretesto dei conflitti. Le ferite lasciate dal conflitto sono profonde e potrebbero portare a sottoscrivere l’amara constatazione registrata dal cronista «vivere insieme non sarà più possibile».[7] Altri non si rassegnano, come riporta la testimonianza della missionaria comboniana sr. Elianna, che racconta storie coraggiose di riavvicinamento e afferma che “solo chi è spiritualmente cieco può pensare che per il futuro del Centrafrica ci sia una strada diversa dalla convivenza”.[8] [1] No one at the wheel, in «The Economist», 3 maggio 2014, 33 [2] Déclaration du Conseil Permanent des Evêques» de Centrafrique, Bangui, 7 maggio 2014, 2 [3] No one at the wheel, in «The Economist», 3 maggio 2014, 34 [4] Baldi E., Guerra di menzogne, in «Nigrizia», Giugno 2014, 26 [5] Déclaration du Conseil Permanent des Evêques de Centrafrique, Bangui, 7 maggio 2014, 2-3 [6] Imam Layama, Non è conflitto religioso ma lotta per il potere, in «MI.S.N.A.», 14 febbraio 2014; vedi anche Violenze a Bangui, Appello dei Religiosi, in «MI.S.N.A.», 14 febbraio 2014 [7] No one at the wheel, in «The Economist», 3 maggio 2014, 34 [8] Baldi E., Guerra di menzogne, in «Nigrizia», Giugno 2014, 29