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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:37:02

Niente di nuovo sotto il sole, in casa Oscar. Vince The Millionaire, favola inglese in salsa indiana ad alto tasso melodrammatico: miseria e nobiltà a Bombay. La storia che Danny Boyle ha tratto dal romanzo Slumdog Millionaire è quella di un ragazzino delle baraccopoli che riesce a vincere il quiz più famoso del mondo. Niente di nuovo sotto il sole: la speranza di un popolo umiliato e offeso è affidata, ancora una volta, all’eroismo solitario, alla fortuna. Ma del film bisogna parlare perché, nella vicenda improbabile che si è portata a casa il pieno di statuette, fa irruzione la realtà. Un evento che, da Hollywood a Bollywood, accade di rado e genera paradossi. Nonostante il naturalismo selvaggio delle immagini, infatti, di realtà ce n’è pochina nel film che Salman Rushdie ha ferocemente definito «assurdo». Ma accade che, cacciato dalla porta del sentimento, il reale rientri dalla finestra. Così, gli attentati del novembre scorso a Mumbai, siglati dall’integralismo islamista, condizionano i traduttori del film al punto che, nella copia italiana, quando la madre del protagonista, il ragazzino Jamal, viene uccisa a bastonate, una voce fuori campo urla: «Sono musulmani, scappiamo!». Nella versione originale le vittime sono in realtà musulmane e il pogrom è opera di una banda induista (l’integralismo che, negli ultimi mesi, ha massacrato in India anche centinaia di cristiani). La voce in realtà grida: «Sono musulmani, prendeteli!». Ma nessuno ci fa caso. Il film parla d’altro, ovviamente. E invece, di questo bisognerebbe parlare, del fatto che la libertà religiosa, come diceva Giovanni Paolo II, è la cartina al tornasole delle altre libertà. E di come si possa diventare smemorati, al punto che un massacro senza ragioni, in riva al fiume dove le donne lavano i panni, diventi un dettaglio scontato in un film anglo-americano di largo consumo sull’India, il paese delle cento nazioni, dei cento dialetti, delle mille religioni. L’alternativa è il laicismo dissacrante di Religulous, il nuovo film del comico americano Bill Maher e del regista Larry Charles (quello di Borat), che sprecano tempo e soldi per una crociata agnostica tra Gerusalemme e Roma, passando dai musulmani di Amsterdam ai mormoni dello Utah: un film che ridicolizza tutte le fedi in nome di una ragione molto presunta e presuntuosa. E se proprio vogliamo ridere dell’inferno in cui è caduto il mondo, meglio allora la commedia campione di incassi in Egitto, Hassan and Morkos di Rami Imam, dove i pregiudizi reciproci tra cristiani e musulmani danno il via al gioco degli equivoci. Se The Millionaire arriva per caso a sfiorare l’anima dolente della storia, c’è un gran numero di film in cui la rilettura del passato diventa più o meno consapevole domanda di identità. Accade in America, in Polonia, persino in Iran. Accade in Israele, dove una nuova generazione di registi scopre che non sempre tacere di ciò di cui non si può parlare è l’unica strada: a volte, è il linguaggio giusto che manca. Si moltiplicano così le voci di coloro che non vogliono farsi schiacciare da quel passato che non passa mai, che odiano Hamas ma anche il Muro, che non possono chiudere gli occhi ma hanno paura di aprirli. Sull’esempio di Persepolis, il film d’animazione che ha permesso a Marjane Satrapi di raccontare la sua vita e quella dell’Iran, comprese due rivoluzioni, arrivano i cartoni a spiegare la storia. L’esempio più recente è Zona chiusa, un corto su Gaza che da un po’ di tempo spopola su Youtube. Ne è autore Yoni Goodman, già disegnatore di Valzer con Bashir, candidato all’Oscar per la regia di Ari Zelman: un film d’animazione sulla memoria rimossa della strage di Sabra e Chatila. Per il massacro libanese, che provocò 700 vittime ufficiali, Israele fu assolto (anche se il film evoca la complicità passiva di Sharon, all’epoca ministro della Difesa): sul conflitto di Gaza, invece, la storia deve ancora scrivere la parola fine. Ma la storia siamo noi: così, in 90 secondi, un flash amaro ci mostra il quotidiano di una figurina in maglietta e jeans: uomo, bambino, ebreo, palestinese, chissà. Una persona, che tenta di uscire dalla striscia di terra chiusa tra cielo e mare. Grandi mani frenano i suoi tentativi di fuga, affondano la barchetta, erigono muri. E mentre le granate esplodono sempre più vicine, un uccellino azzurro che vola tra le macerie finisce in gabbia. C’è chi cambia registro raccontando gli spazi apolitici in cui la speranza può rinascere. Nel film di Eran Riklis c’è un luogo certo, Il giardino di limoni che cresce intorno alla casa di una vedova in Cisgiordania. Siamo sulla linea di confine tra Israele e i territori occupati. Gli alberi devono essere sradicati perché di fronte abita il ministro israeliano della difesa e si teme per la sua sicurezza. Tutta qui, la storia, ma il film si snoda tra gli sguardi che si scambiano Mira, la moglie del ministro e Salma, la vedova palestinese: donne, madri, amanti, forti di una memoria viva. Rimettersi in Gioco Si sgancia dalla cronaca anche Oded Davidoff, che si aggrappa alla grandezza della scrittura di David Grossman per il suo Qualcuno con cui correre (Someone to run with), racconto di una educazione sentimentale alla vita. Perché da qui si ricomincia oggi, scrive Grossman al figlio Uri, ucciso in Libano: «Non sono nemmeno capace di dire ad alta voce quanto tu fossi per me qualcuno con cui correre». Non si parla della guerra anche perché, dice Grossman, «noi, la nostra famiglia, l’abbiamo già persa». Ma di una strana, inedita educazione alla pace, nell’incontro tra i ragazzini Assaf e Tamar, sbandati e in fuga in una megalopoli mai vista, Gerusalemme. Viva, caotica, drogata, atrocemente normale. Chi invece non si fa schiacciare dal passato e si rimette in gioco è un giovane polacco di 83 anni, Andrzej Wajda. Con una lezione d’amore e di stile, l’autore di Danton rilegge, 60 anni dopo, la storia del suo Paese. «La tradizione è una profezia rivolta al passato» scrive Berdjaev. La recensione migliore per Katyn, il film nominato all’Oscar 2008 che, riconciliandosi col passato, apre a un futuro pacificato. «La Polonia è parte dell’Europa», dice Wajda. «Dov’è il confine dell’Europa occidentale? Io dico che l’Europa finisce là dove arrivano le chiese gotiche». Siamo nel 1940 quando la Polonia subisce una doppia invasione: i sovietici entrano da est, i nazisti da ovest. La prima impressionante sequenza del film mostra il popolo polacco in fuga su un ponte che è già terra di nessuno. Tra i 22.000 ufficiali prigionieri che vengono massacrati con un colpo alla nuca e gettati in una fossa comune, c’è anche il padre del regista, Jacob. I polacchi sanno bene chi è stato e perché: ma ci vorranno 60 anni per riaprire, insieme agli archivi sovietici, quella fossa. Sessant’anni in cui, con buona pace del mondo, l’eccidio viene attribuito ai nazisti. Di loro, il cinema ha raccontato ormai davvero tutto. Ma fino ad oggi aveva taciuto delle infamie sovietiche. Wajda apre una porta chiusa e pazienza se il film – nel mondo nuovo che, come il vecchio, lascia che la storia venga riscritta dai vincitori – è distribuito poco e male. «Non potranno esserci rapporti normali fra la Polonia e l’ex Unione Sovietica fino a che non sarà detta la verità su questo crimine». La verità è una ricetta per sanare le ferite della storia: non un optional ma la radice del valore, al cuore delle esperienze che possiamo condividere e trasmettere. Cos’è la verità, in questo film montato con un’emozione che traspare anche dai passaggi imperfetti? C’è un oggetto simbolo in Katyn, arrotolato tra le mani di uno dei cadaveri scomposti. È un rosario dai grani in legno scuro. Lo avevamo già visto, 40 anni fa, in un altro, bellissimo film di Wajda, Paesaggio dopo la battaglia. Mentre i prigionieri, a guerra finita, fuggono disordinatamente dal campo sulle note gioiose di Vivaldi, il rosario si impiglia nel filo spinato. Un uomo interrompe la corsa: ansante, con le mani intirizzite, lo srotola piano dalla rete. Probabilmente il rosario è lo stesso di allora. E forse appartiene a Wajda, un uomo che non butta via niente. Emma Neri

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