La stima reciproca tra Gandhi e i due leader musulmani Maulana Azad e Khan Abdul Ghaffar Khan costituisce un fatto storico che contrasta l’immagine del musulmano violento

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:11:23

Tra l’11 settembre e i macabri successi dello Stato Islamico, l’immagine del musulmano violento e fanatico è diventato uno stereotipo dominante che pesa in maniera decisiva sulla relazione tra Islam e sfera pubblica. Nel mondo contemporaneo infatti le esperienze islamiche di pacificazione e non-violenza vengono oscurate dall’immagine mediaticamente più forte dell’Islam come religione conflittuale e bellicosa. La sfida è perciò quella di rendere conto della possibilità di un Islam gandhiano in cui per discutere temi politici vengano usati valori etici come la tolleranza e la non-violenza. Per promuovere il paradigma della non-violenza nell’Islam, i musulmani possono riferirsi agli esempi contemporanei di leader come Khan Abdul Ghaffar Khan e Maulana Abul Kalam Azad. Questi, nella loro sollecita collaborazione con Gandhi, non solo hanno dato il loro contributo a una significativa tradizione di Islam non violento, ma hanno aiutato a capire meglio la visione tollerante dell’Islam che Gandhi condivideva con molti dei suoi contemporanei musulmani.

L’incontro di Gandhi con l’Islam avvenne molto presto. Gandhi era nato a Porbandar nel Gujarat, un regione in cui gli indù vivono fianco a fianco con i musulmani. La sua famiglia aveva perciò una grande esperienza di rapporti con i musulmani in quanto parte della comunità locale di Porbandar. Un secondo importante momento nell’incontro tra Gandhi e i musulmani è rappresentato dagli anni in Sud Africa, dove il Mahatma aveva iniziato a lavorare nel 1893 come avvocato per un mercante musulmano di Porbandar, Abdullah Sheth, che aveva avviato un’attività imprenditoriale a Durban. Durante la sua lunga permanenza in Sud Africa e le sue prime esperienze politiche, Gandhi riuscì a stabilire stretti legami con i musulmani indiani. Conosceva bene la loro identità culturale e condivideva con loro il modo di vita. Fu Abdullah Sheth a suggerire per la prima volta a Gandhi di leggere il Corano nella traduzione inglese di Sale. Il suo primo approccio al testo sacro dell’Islam gli ispirò alcune idee fondamentali sulla religione musulmana, ulteriormente rafforzate da una seconda lettura durante il periodo di prigionia nel Transvall nel gennaio del 1908. Ma prima di questa avventura, Gandhi aveva già dato vita a un vasto movimento di resistenza basato sull’alleanza tra indù e musulmani indiani contro la discriminazione razziale in Sud Africa. La partecipazione di indù e musulmani sudafricani all’esperienza gandhiana del satyagraha[1] fu il primo importante passo di Gandhi verso l’idea di armonia tra comunità.

Gandhi sapeva che l’indipendenza indiana non poteva essere conseguita con i soli sforzi degli indù e per questo coinvolse nella lotta i musulmani indiani. Insoddisfatto delle divisioni tra “noi” e “loro” e dell’indifferenza reciproca tra indù e musulmani, Gandhi avviò un dialogo aperto con l’Islam e con i musulmani. Egli non accettò mai l’argomento secondo cui indù e musulmani rappresentavano due elementi separati della società indiana. Il suo desiderio di adoperarsi in ogni modo per guadagnare i musulmani al Congresso gli valse molti ammiratori e amici tra i musulmani. Al suo ritorno in India, il crescente impegno nel movimento Khilafat[2]contribuì ad assicurargli un’autorevolezza politica nel Congresso indiano e una forte legittimità agli occhi del Raj britannico.

Tuttavia, la principale linea di divisione tra Gandhi e i leader del movimento Khilafat correva lungo la questione dell’uso della violenza. Molti leader musulmani come Shuakat Ali o Jinnah rifiutavano di assumere la non-violenza come assoluto morale, pur accettandola come espediente tattico temporaneo per sconfiggere i britannici. Jinnah, la cui opposizione alla campagna di non cooperazione lanciata da Gandhi era ben nota ai britannici e ad altri membri del partito del Congresso, era particolarmente perplesso sul fatto che, a partire dal 1920, il Congresso, come la gran parte dell’India musulmana, avesse accettato Gandhi come suo leader carismatico. Per Gandhi, l’autogoverno indiano e l’unità indu-musulmana non erano due questioni separate, mentre per Jinnah era vero il contrario.

 

Spiritualità e pragmatismo politico

Sin dai primi scritti in Sud Africa, Gandhi aveva sostituito una concezione divisiva della religione con una pluralista e tollerante, stabilendo un’equazione tra etica e religione. Per Gandhi, la differenza tra indù e musulmani non era confinata alla religione. Essa era dovuta alla mancanza di sincerità e di trasparenza nella sfera politica. Ma da riformatore sociale, Gandhi credeva fortemente nell’affinità tra spiritualità e politica. Non sorprende perciò che egli abbia scelto di lavorare con persone i cui interessi fondamentali si esprimevano soprattutto in termini spirituali ed etici. Fu probabilmente in questo spirito che Gandhi sviluppò una grande stima verso Maulana Azad e Khan Abdul Ghaffar Khan. Nel 1939, durante una visita a Ghaffar Khan, Gandhi proclamò: «Se esamini il mio cuore, vedrai che la mia preghiera e il mio sforzo spirituale per il raggiungimento dell’unità indu-musulmana continua ininterrottamente, 24 ore al giorno, senza alcun momento di interruzione, sia che io vegli, sia che io dorma. […] Il sogno [dell’unità indu-musulmana] mi riempie il cuore fin dalla prima infanzia»[3].

Non c’è ombra di dubbio che Gandhi sia stato influenzato dall’Islam tollerante di Ghaffar Khan e di Maulana Azad e dalla loro lettura soft del Corano, ma è altrettanto vero che gli insegnamenti spirituali del Mahatma e il suo pragmatismo politico catturarono la mente di questi due uomini. L’evoluzione della prospettiva di Azad dal nazionalismo pan-islamico a quello laico infatti è sicuramente stata determinata dalla sua amicizia e collaborazione col Mahatma Gandhi e dall’emergere dei problemi intercomunitari all’interno del movimento indiano di liberazione. Da Gandhi Azad aveva imparato che l’armonia comunitaria avrebbe svolto un ruolo importante nel futuro dell’India e che malgrado le differenze religiose, etniche e linguistiche, l’India era una nazione unica. Azad credeva che la teoria delle due nazioni non offrisse «alcuna soluzione al problema delle minoranze, ma portasse solo a un sistema di sanzioni e rappresaglie introducendo un sistema reciproco di ostaggi»[4]. L’argomentazione di Azad consisteva nel mettere i musulmani di fronte al fatto che gli insegnamento principali del Corano sono misericordia e la compassione. Ne conseguiva che questi attributi di Dio dovessero rintracciarsi gratuitamente anche negli essere umani.

È interessante notare fino a che punto il commento coranico di Azad si mantenga vicino al testo ispirandosi allo stesso tempo alla percezione sufi di Dio tramite il kashf (la rivelazione personale). La fede di Azad nell’unità dell’umanità e nell’accordo di tutte le religioni derivava sostanzialmente dal concetto sufi dell’unità dell’esistenza (wahdat-i-wujûd). La verità, per Azad, era ovunque la stessa e una. L’errore consisteva nello stabilire un’equazione tra forme particolari di Verità e la Verità stessa. Considerato da questa prospettiva, il libro più importante di Azad, Tarjuman-ul-Qur’an, illustra la sua ferma convinzione nella tolleranza e nel dialogo. È in questo libro che l’idea di Azad del pluralismo religioso si esprime potentemente nel concetto di accordo delle fedi (wahdat-i-Din). Per Azad, Dio, in quanto colui che nutre e si prende cura (Rabb), trascende tutte le frammentazioni e divisioni dell’umanità in razza, colore e religione. Di conseguenza il cammino del Dio universale (Rabbu-l-‘Alamin) è il “retto sentiero” (Sirat-al-Mustaqim) e non appartiene a nessuna religione in particolare.

 

Al bando il comunitarismo

In una delle sue opere più famose, intitolata Ghubar-i-Khatir, Azad traccia un parallelo tra il concetto sufi di “unità dell’esistenza” e l’idea panteista contenuta nelle Upanishad. Se, alla radice, tutte le religioni riflettono lo stesso messaggio, allora, secondo Azad, non c’è spazio per il comunitarismo indù o musulmano. Sostenitore del nazionalismo indiano e della democrazia indiana, Azad cercava una sintesi tra la moderna laicità e il tradizionalismo spirituale. Il comunitarismo indù così come quello musulmano era incompatibile con la democrazia laica e rappresentava una negazione del pluralismo. Un altro ingrediente del suo nazionalismo laico era la non-violenza, che forniva a suo avviso una strategia efficace nella lotta per l’indipendenza. A differenza di Gandhi, Azad non credeva nella non-violenza come un articolo di fede, ma solo come questione politica. Era tuttavia contrario all’uso della violenza da parte della religione. Alla luce del suo umanesimo religioso, Azad affermava che non c’era giustificazione alcuna per imporre agli altri la propria religione visto che i fondamentali della religione (Din) erano identici. Ogni individuo aveva perciò il diritto di seguire il proprio percorso religioso. Come difensore di valori condivisi, egli credeva che le religioni fossero patrimonio comune di tutta l’umanità. Per questa ragione era dell’avviso che le forme esteriori della religione fossero inutili senza le azioni morali. Da questo punto di vista, la religione non doveva dettare azioni politiche specifiche, ma modellare per ognuno i principi generali di vita.

La feconda esperienza di Gandhi con i musulmani del Sud Africa e più tardi con il movimento Khilafat produsse in lui una nuova visione dell’Islam e del suo significato civile in India. In un discorso del 1942 al Comitato esecutivo del Congresso, egli ribadì l’importanza di questi temi: «L’unità indu-musulmana non è un fatto nuovo. Milioni di indù e di musulmani l’hanno perseguita. Io combatto consapevolmente per raggiungerla da quando ero un ragazzo. A scuola, mi ero imposto di coltivare l’amicizia di compagni musulmani e parsi. Anche in tenera età pensavo che gli indù, se avessero voluto vivere in pace e concordia con le altre comunità, avrebbero dovuto coltivare assiduamente la virtù della cordialità con i vicini»[5].

 

Gandhi e il fascino di Muhammad

Sembra che l’interesse di Gandhi per l’Islam fosse parzialmente dovuto alla sua fascinazione per la figura del profeta Muhammad. Aveva letto e tradotto la Life of Muhammad di Washington Irving ed era stato introdotto al carattere fermo, vigoroso e coraggioso del profeta dell’Islam dal libro Heroes and Hero Worship di Thomas Carlyle. L’ammirazione di Gandhi per Muhammad e la sua comprensione di un Islam tollerante erano inoltre il risultato della lettura del commento coranico di Azad e dell’amicizia e collaborazione empatica con Khan Abdul Ghaffar Khan. Se Azad aveva iniziato Gandhi alla comprensione sufi dell’Islam, Ghaffar Khan lo introdusse alle virtù pratiche dell’Islam non violento. Sia Azad che Ghaffar Khan erano perciò in sintonia e con l’insegnamento di Gandhi sull’unità fondamentale della fede e con il suo rifiuto del fanatismo. Seguendo i suoi due compagni musulmani Gandhi si era convinto che l’Islam fosse essenzialmente una religione tollerante e che gli aspetti violenti della tradizione islamica fossero stati aggiunti in seguito da alcuni musulmani.

La profonda fede di Ghaffar Khan nella verità e nell’efficacia della non-violenza scaturiva dalla sua personale esperienza dell’Islam. Per lui l’Islam era servizio disinteressato, fede e amore. E sottolineava che «senza di essi, uno che si dichiarasse musulmano sarebbe come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna»[6]. Così come Gandhi considerava che l’induismo si fondasse sulla ahimsa [non-violenza], così Abdul Ghaffar Khan reinterpretava il suo Islam in senso non-violento. Per entrambi i riformatori, la trasformazione sociale sistematica e non violenta era una questione di fede. «La mia non-violenza è diventata quasi una questione di fede», spiegava Ghaffar Khan. «Credevo nella ahimsa gandhiana già da molto tempo. Ma il successo senza precedenti di questo esperimento nella mia provincia mi ha reso un fautore deciso della non-violenza. […] In realtà non c’è niente di strano nel fatto che un musulmano o un pathan [7] come me sottoscriva questo credo. Non è un credo nuovo. È stato seguito quattordici secoli fa dal Profeta per tutto il tempo in cui è stato alla Mecca. Da allora è stato seguito da tutti coloro che volevano liberarsi del giogo dell’oppressore. Ma l’avevamo dimenticato a tal punto che quando il Mahatma Gandhi ce lo ha posto dinnanzi abbiamo pensato che ci stesse propagandando un nuovo credo o una nuova arma»[8].

 

Servi di Dio tra i pasthun

L’idea di Ghaffar Khan diede origine ai Khudai Khidmatgars (letteralmente “i servi di Dio”), un movimento che puntava a riformare la società pasthun nella provincia della Frontiera Nord-Occidentale dell’India Britannica. Molti fattori contribuirono alla popolarità del Khudai Khidmatgars. Diversi segmenti della società pasthun interpretarono il suo programma ognuno a suo modo. «Per l’intelligentsia pasthun, è stato un movimento per il rinnovamento della cultura pasthun e della sua identità specifica. Per i khan minori, è stato un movimento che chiedeva riforme politica per la provincia rendendoli più autonomi e conferendo un ruolo di governo più grande. La loro posizione anti-coloniale era gradita alla maggior parte degli ulema anti-establishment, che consideravano il governo britannico nel Sub-continente come un “sacrilegio”. Per gli agricoltori e le altre classi povere il movimento si poneva in opposizione ai loro oppressori economici, l’imperialismo britannico e i suoi agenti locali, i Nawab (governatori) filo-britannici, i Khan Bahadur e i grandi khan (nobili)»[9].

Il carattere sincero di Ghaffar Khan e il metodo fedele e coerente con cui praticava la non-violenza convinse i pashtun che l’unica soluzione alle loro faide e al loro settarismo fosse l’adozione della non-violenza e la rigorosa aderenza ad essa. Per la sua prossimità a Gandhi, Ghaffar Khan fu accusato da alcune delle persone a lui più vicine di unire i Khudai Khidmatgars al Congresso dominato dagli indù. La risposta di Ghaffar Khan ai suoi critici pathan e ai suoi futuri colleghi del Partito del Congresso fu la seguente: «Vorrei chiarire che la non-violenza in cui credo e che ho predicato ai miei fratelli del Khudai Khidmatgars è molto più ampia. Tocca tutta la nostra vita, e solo se è così ha un valore perenne. Se non impariamo integralmente la lezione della non-violenza non ci sbarazzeremo mai della maledizione delle faide letali della gente della Frontiera. Da quando abbiamo adottato la non-violenza e i Khudai Khidmatgars vi hanno aderito, siamo ampiamente riusciti a mettere fine alle faide. La non-violenza ha contribuito ad accrescere il coraggio dei pathan. Poiché essi erano molto più dipendenti dalla violenza di altri, hanno beneficiato molto di più di altri della non-violenza. Non ci difenderemo mai veramente ed efficacemente se non attraverso la non-violenza. I Khudai Khidmatgars devono perciò essere ciò che il nostro nome indica: puri servi di Dio e dell’umanità, consegnando la nostre vite e non distruggendone alcuna»[10]. Si potrebbe dire che Ghaffar Khan ha avuto lo stesso successo di Gandhi nella sua pratica dell’azione non-violenta, riuscendo a far abbondonare ai ruvidi pathan i brutali metodi consuetudinari usati per regolare le dispute interne e col governo e convincendoli ad abbracciare il credo non-violento.

Certo, né Maulana Azad, né Ghaffar Khan riuscirono a persuadere Muhammad Ali Jinnah a rinunciare alla sua propaganda per la creazione del Pakistan, un processo estremamente violento sia per i musulmani che per gli indù. Tuttavia questa storia mostra che l’Islam è sempre stato usato sia per scopi non-violenti che violenti. Gandhi lo aveva capito molto bene quando riconobbe che la versione violenta dell’Islam non era la vera essenza di questa religione. Pochi anni prima dell’indipendenza dell’India del 1947, egli scrisse in Harijan: «Ho vissuto a stretto contatto con i musulmani e tra di loro non per un giorno soltanto ma quasi ininterrottamente per vent’anni. Non un solo musulmano mi ha insegnato che l’Islam è una religione anti-indù»[11]. La verità è che nell’Islam, come in altre grandi religioni, ci sono fondamentalisti ed estremisti che manipolano i rispettivi testi sacri per giustificare i propri atti violenti e il loro terrorismo. È tempo che i musulmani liberali e moderati costruiscano una nuova immagine dell’Islam come religione compatibile con il mondo moderno e capace di interagire con l’Occidente e uniformarsi alle norme internazionali.

È perciò nell’interesse delle società islamiche e dei musulmani in generale mutare la percezione che il mondo ha dell’Islam come religione violenta cambiando il modo in cui le loro società spesso tentano di risolvere le divergenze al loro interno e con gli altri. Non si tratta di essere ipocriti o di sottostimare il potenziale civile dell’Islam, ma di un atteggiamento critico che migliori le condizioni sociali e politiche all’interno dell’Islam. Molto spesso i musulmani contestano questo tipo di argomenti. Tuttavia, usando la violenza come modus vivendi sociale e politico, molti musulmani mettono i propri giudizi morali e i propri argomenti filosofici sullo stesso piano di ciò che essi dichiaratamente criticano e rifiutano come ingiusto e disumano. E questo li colloca per definizione allo stesso livello, se non a un livello inferiore, di moralità. Non è questa la strada su cui scommettere: nei Paesi musulmani che hanno abbracciato la violenza contro i propri cittadini o contro altri, le violazioni delle libertà individuali sono all’ordine del giorno. Il ritorno a figure come Khan Abdul Ghaffar Khan e Maulana Azad significa accettare l’invito gandhiano alla riflessività e all’autocritica. I risultati di tali processi sono sicuramente imprevedibili, visto che lo stesso Gandhi affermava che nessuno possiede tutta la verità e che la verità emerge in un incontro dialogico tra soggetti. Ma la costruzione di un Islam gandhiano nel XXI secolo rimane una sfida aperta.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
 

[1] Il termine, letteralmente “forza della verità”, indica la pratica della resistenza nonviolenta [N.d.R]

[2] Si trattava di un movimento panislamico, nato tra i musulmani indiani, per il sostegno al Califfato (Khilafat, appunto) ottomano in crisi [N.d.R]

[3] Dinanath G. Tendulkar, Abdul Ghaffar Khan. Faith is a Battle, Gandhi Peace Foundation, Bomaby, 1967, 291

[4] Maulana Abul Kalam Azad, India Wins Freedom, Longmans, Green and Co., New York 1960, 169

[5] Cit. in Dinanath G. Tendulkar, Mahatma: A Life of Mohandas Karamchand Gandhi, Government of India, Ministry of Information and Broadcasting, New Delhi 1962, Vol. 6, 155

[6] Id., Abdul Ghaffar Khan. Faith is a Battle, 48

[7] Pathan è il nome in urdu-hindi del gruppo etnico-tribale dei Pashtun, che vive tra Pakistan e Afghanistan. Di religione islamica, i Pashtun sono noti storicamente per il loro carattere guerriero [N.d.R.]

[8] Tendulkar, Abdul Ghaffar Khan. Faith is a Battle, 93-94

[9] Sayed Wiqar Ali Shah, Ethnicity, Islam and Nationalism. Muslim Politics in the North-West Frontier Province 1937-1947, Oxford University Press, Karachi 1999-2000, 27-28

[10] Cit. in Collected Works of Mahatma Gandhi, Publication Division, Ministry of Information and Broadcasting, Government of India, New Delhi, 1958-1997, Vol. 72, 277-278

[11] Harijan, 4 maggio 1940, cit. in Rajmohand Gandhi, Mohandas: A True Story of a Man, his People and an Empire, Penguin Books India, New Delhi 2006, 15

Per citare questo articolo

 

Riferimento al formato cartaceo:

Ramin Jahanbegloo, Il sogno di un Islam gandhiano, «Oasis», anno X, n. 20, dicembre 2014, pp. 60-64.

 

Riferimento al formato digitale:

Ramin Jahanbegloo, Il sogno di un Islam gandhiano, «Oasis» [online], pubblicato il 28 gennaio 2015, URL: https://www.oasiscenter.eu/it/chi-era-bacha-khan-il-pacifista.

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