Maroniti, copti, melkiti, caldei… Non è facile orientarsi tra le varie comunità cristiane che vivono nella regione. Una panoramica ragionata

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 08:55:44

Si calcola che in Medio Oriente vivano oggi circa 15 milioni di cristiani, tra fedeli autoctoni e immigrati. In alcuni Paesi sono in forte calo (Iraq, Siria), se non a rischio scomparsa, in altri sopravvivono a fatica, mentre sono in aumento nel Golfo e nella Penisola arabica, principalmente per l’arrivo di lavoratori asiatici ed europei.

 

Le origini della divisione

Un elemento caratteristico della presenza cristiana nella regione è senza dubbio la sua estrema frammentazione. Nella tarda antichità il Vicino Oriente – all’epoca parte dell’Impero Romano – costituiva il centro del mondo cristiano: spiccavano per importanza, accanto a Roma, le sedi di Alessandria d’Egitto, Antiochia (oggi Antakya nella provincia di Hatay in Turchia) e Costantinopoli (Istanbul, fondata nel 330 d.C.). L’Armenia era stata il primo regno ad abbracciare ufficialmente il Cristianesimo, nel 301, e sempre in Oriente si erano tenuti i primi due concili ecumenici, rispettivamente a Nicea (325) e a Costantinopoli (381), che avevano precisato la dottrina trinitaria, in opposizione all’eresia ariana, formulando il simbolo niceno-costantinopolitano, cioè il Credo che ancor oggi è recitato durante la Messa domenicale.

 

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[Costantino e i Padri del Primo Concilio di Nicea (325)]

L’unità si ruppe con le controversie cristologiche del V secolo. Al centro del dibattito stava la questione del rapporto tra la natura umana e divina in Gesù Cristo. In che modo esse potevano essere unite? In prospettiva, questa domanda stimolò una feconda riflessione che, tra l’altro, è all’origine del moderno concetto di persona, sconosciuto al mondo antico. Tuttavia nell’immediato si confrontarono diverse formulazioni dogmatiche, riconducibili a tre “famiglie”.

Oggi queste formulazioni possono essere viste come approssimazioni successive, tra loro non in contraddizione, benché non identiche né perfettamente sovrapponibili. Sul momento però a prevalere furono antipatie e ambizioni personali e soprattutto calcoli politici. Da un lato, la Chiesa di lingua latina e soprattutto greca risentiva fortemente della tutela imperiale; dall’altro, e proprio per questa ragione, la Chiesa di Persia aveva interesse a segnalare la sua differenza rispetto a Costantinopoli, così da sottrarsi al sospetto di rappresentare una quinta colonna “romana” nel cuore dell’impero persiano sasanide. Infine, numerosi popoli del Vicino Oriente, come i copti, gli armeni o i siri, stavano recuperando, proprio per effetto del Cristianesimo, la propria identità dopo secoli di predominio ellenistico sul piano culturale e politico.

In molti casi la differenza teologica divenne così un modo per esprimere la richiesta di una maggiore autonomia da Costantinopoli. Il protrarsi della lotta fu certamente una delle cause che favorirono, nel VII secolo, le conquiste arabe e il tracollo dell’impero romano d’Oriente.

 

1. La linea siro-orientale (“nestoriana”)

La crisi scoppiò improvvisa nel 428 quando il Patriarca di Costantinopoli Nestorio si rifiutò di riconoscere a Maria il titolo di Theotókos (“genitrice di Dio”), affermando che la Vergine poteva essere dichiarata solo “genitrice di Cristo”. In questo modo Nestorio introduceva una netta divisione tra la natura umana e quella divina in Cristo.

Soprattutto per iniziativa di Cirillo di Alessandria, Patriarca della sede egiziana, fu convocato un Concilio ecumenico a Efeso, nel 431, dove fu riaffermata la liceità del titolo di Theotókos attribuito a Maria e fu condannato Nestorio[1]. Il Concilio lasciò però uno strascico di polemiche dovute alla gestione unilaterale di Cirillo. Non vi poté partecipare, per ragioni contingenti, la Chiesa di Persia, di lingua siriaca e che aveva adottato la teologia della scuola di Antiochia, da cui anche Nestorio proveniva. Circa cinquant’anni più tardi tale Chiesa, nel sinodo di Seleucia del 486, fece ufficialmente propria la formula nestoriana, peraltro non senza contrasti e opposizioni, che si prolungarono fino al VII secolo.

Organizzatasi attorno a un catholicós, questa Chiesa “nestoriana”, conobbe nel Medioevo una grande diffusione missionaria, arrivando fino in Cina. Tuttavia, dopo l’invasione dei mongoli di Tamerlano (XIV secolo), subì una dura persecuzione e si ritirò nella zona dell’Alta Mesopotamia (Mosul in particolare) e della Turchia orientale, istituendo un Patriarcato ereditario, di zio in nipote. Nel 1553 una parte di questa Chiesa entrò in comunione con Roma, ma le difficoltà di comunicazione e le persecuzioni non permisero il mantenimento dell’unione. Fu solo nell’Ottocento che fu stabilmente ricostituita una Chiesa Caldea[2] unita a Roma, il cui Patriarca risiedette in un primo tempo a Mosul e, dal 1947, a Baghdad. Alla Chiesa Caldea appartengono oggi la maggior parte dei cristiani presenti in Iraq. Accanto a essa esiste una Chiesa “sorella” non unita a Roma, la Chiesa Assira d’Oriente, il cui Patriarcato, dopo il genocidio patito nella prima Guerra mondiale, si è trasferito a Chicago (1940) prima di essere riportato a Erbil nel 2015. Nel 1964 una porzione di questa Chiesa si è separata dal Patriarcato di Chicago e ha dato vita all’Antica Chiesa d’Oriente, con sede a Baghdad. Lo scisma, sorto ufficialmente per ragioni di calendario ma in realtà ispirato dal regime baathista iracheno, non è stato finora risolto, nonostante vari tentativi in questo senso.

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[Portale esterno della chiesa caldea di al-Tahira, Mosul (©Amir Harrak – Oasis 20)]

Per quanto riguarda i rapporti con i cattolici, nel 1994, Giovanni Paolo II e Dinkha IV, Patriarca della Chiesa Assira d’Oriente, hanno sottoscritto una dichiarazione comune che ha chiuso la controversia cristologica e nel 2015, nel contesto del genocidio perpetrato da ISIS nell’Iraq settentrionale, il Patriarca caldeo Louis Sako ha proposto di riunificare le tre Chiese di tradizione siro-orientale in un’unica Chiesa d’Oriente, unita a Roma, con la disponibilità da parte sua a rinunciare alla carica.

Appartiene a questa famiglia siro-orientale anche la Chiesa cattolica siro-malabarese[3], diffusa nello Stato del Kerala in India e unita a Roma.

 

2. La linea miafisita (“giacobita”)

Il Concilio di Efeso del 431 non risolse la questione cristologica. Se Nestorio aveva eccessivamente distinto tra natura umana e divina, ora l’ago della bilancia pendeva dal lato opposto. In particolare il monaco Eutiche, molto influente alla corte dell’imperatore d’Oriente Teodosio II, sostenne che in Cristo la natura divina annullasse quella umana, insegnando il monofisismo (“una sola natura”). La dottrina fu condannata dal Patriarca di Costantinopoli Flaviano in un sinodo locale nel 448. Tuttavia, l’anno successivo (449) il Patriarca di Alessandria Dioscoro, che sosteneva Eutiche, riuscì a convocare un concilio a Efeso in cui il monofisismo fu imposto con la forza. Flaviano non poté leggere la lettera che Papa Leone gli aveva inviato confermando la condanna del monofisismo, fu deposto e morì poco dopo per le percosse ricevute.

In risposta a questo scandalo Papa Leone annullò il concilio, bollandolo come “latrocinio di Efeso”. Due anni più tardi (451) Leone, approfittando della morte dell’imperatore Teodosio II e dell’ascesa al trono di Marciano, riuscì a indire un nuovo Concilio a Calcedonia (oggi Kadıköy, un sobborgo di Istanbul), a cui tuttavia non poté partecipare personalmente, in quanto trattenuto in Italia dalla minaccia degli unni di Attila. In quell’occasione, e sotto l’impulso dei legati pontifici, furono condannati Eutiche e Dioscoro, riabilitato Flaviano e fu adottata la lettera che Leone aveva indirizzato a Flaviano: «Essa infatti – così si espressero i padri conciliari – è in armonia con la confessione del grande Pietro, ed è per noi una comune colonna». Di conseguenza il Concilio insegnava a confessare nell’unico Cristo «due nature, senza confusione, senza cambiamento, senza divisione, senza separazione». Nelle parole di un grande teologo contemporaneo, «Dio e uomo non separati, ma incommisti; [...] cristologia biblica, procreata in una forma di pensiero greca per l’ispirazione papale romana»[4].

La formula calcedonese non fu però recepita in Egitto, dove la maggior parte della Chiesa locale, soprattutto di obbedienza monastica, preferì attenersi all’espressione di Cirillo, «unica natura incarnata del Dio Verbo». Questa formula è detta miafisita (“una natura”) e non va confusa con la posizione monofisita di Eutiche e dei suoi seguaci, poiché il termine “natura” in Cirillo non ha lo stesso significato che nell’espressione adottata a Calcedonia. Tale fatto, di cui si avvidero già alcuni Padri della Chiesa come Giovanni Damasceno, ha condotto nel 1973 alla firma di una dichiarazione comune tra Paolo VI e Shenouda III, Patriarca della Chiesa copta[5]. Il documento, pur ammettendo l’esistenza di differenze teologiche, riconosce la sostanziale compatibilità delle due formule[6]. Significativamente, questo testo è stato richiamato nella dichiarazione comune sottoscritta al Cairo il 28 aprile 2017 durante la visita di Papa Francesco in Egitto. In questa nuova dichiarazione, Papa Francesco e Papa Tawadros II, successore di Shenouda III alla guida della Chiesa copta, dichiarano anche che cercheranno «di non ripetere il Battesimo amministrato in una delle nostre Chiese ad alcuno che desideri ascriversi all’altra […] in obbedienza alle Sacre Scritture e alla fede espressa nei tre Concili Ecumenici celebrati a Nicea, a Costantinopoli e a Efeso» (n. 11)[7].

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[Fedeli in preghiera sulla tomba di Papa Shenouda III, monastero di Anba Bishoi – Wadi Natrun, Egitto (©Oasis]

Sul terreno però prevalsero le forze favorevoli alla divisione. In Egitto e successivamente in Siria si crearono così due gerarchie parallele e concorrenti, una che accettava il Concilio di Calcedonia e una che la rifiutava. Un ruolo decisivo per quanto riguarda la Siria fu svolto nel VI secolo da Giacomo Baradeo, consacrato Vescovo nel 543 dal patriarca copto (da qui deriva la denominazione polemica di “giacobiti” attribuita alla Chiesa miafisita). Più tardi anche la Chiesa armena, che non aveva potuto inviare propri delegati a Calcedonia a causa dell’invasione persiana del Paese, adottò la posizione miafisita (VI secolo).

Dalla linea non-calcedonese discendono oggi la Chiesa copto-ortodossa (Patriarcato di Alessandria, ora trasferito al Cairo), che è la più numerosa tra le comunità cristiane del Medio Oriente, la Chiesa siro-ortodossa (Patriarcato di Antiochia, ora trasferito a Damasco) che è diffusa principalmente in Siria e nel nord dell’Iraq oltre che nella regione del Tur ‘Abdin in Turchia, e la Chiesa apostolica armena, a sua volta organizzata in due catholicói (di Echmiadzin in Armenia, il principale, e di Cilicia – ora trasferito in Libano)[8]. Fin dall’antichità la Chiesa copto-ortodossa, il cui Patriarca porta il titolo di Papa di Alessandria e della predicazione marciana, rivolse la propria attività missionaria lungo la direttrice della Valle del Nilo, in particolare Etiopia ed Eritrea, dove oggi hanno sede due Chiese autocefale (“indipendenti”) di tradizione copta e quindi miafisita. Dal 1665, la Chiesa siro-ortodossa ha invece stretto legami con il Kerala (India), dove la Chiesa ortodossa siro-malankarese è attualmente in comunione con il Patriarcato di Antiochia[9].

Nel loro insieme queste Chiese sono chiamate “ortodosse orientali”, per distinguerle dalle Chiese ortodosse di tradizione bizantina (Chiesa greca, russa, georgiana, bulgara, etc.). Con la riforma cattolica del Cinquecento-Seicento i missionari latini inviati in Medio Oriente cercarono di riunire a Roma ognuna di queste Chiese. Le unioni però sono state solo parziali e hanno dato vita a cinque Chiese cattoliche di rito orientale: la Chiesa copto-cattolica (1895, ma il primo nucleo risale al 1741, sede patriarcale il Cairo), la Chiesa siro-cattolica (1783, ma il primo tentativo risale al 1662, sede patriarcale storica nel monastero di Charfeh in Libano, ora a Beirut), la Chiesa armeno-cattolica (1742, sede patriarcale storica nel monastero di Bzommar in Libano, ora a Beirut), la Chiesa etiope-cattolica (1961, ma gli inizi sono da situare nel Seicento)[10], e in India la Chiesa siro-malankarese (1932). Ognuna di esse condivide la liturgia con la “sorella” ortodossa orientale, ma riconosce l’autorità del Papa e i Concili ecumenici.

 

3. La linea calcedonese (“melkita”)

Aderirono senza riserve al Concilio di Calcedonia i Patriarcati di Costantinopoli e Roma. I loro seguaci furono polemicamente apostrofati dai loro avversari come “melkiti”, cioè uomini del re, perché seguaci della linea ufficiale dell’imperatore, linea che peraltro conobbe diverse oscillazioni lungo il V e VI secolo[11].

Come detto, non tutta la Chiesa d’Egitto e di Siria adottò la posizione miafisita. Questo produsse la prima duplicazione dei Patriarcati di Alessandria e di Antiochia, in una sede calcedonese, generalmente di lingua greca, e una miafisita, di lingua copta o sira. In aggiunta, anche una parte della Chiesa di Antiochia di lingua sira e orientamento monastico fece propria l’ortodossia calcedonese: si situa qui l’origine della Chiesa maronita, che oggi è diffusa soprattutto in Libano e il cui nome deriva dal monaco e asceta Marone, morto verso il 410 nel nord della Siria.

A partire dal 626, l’imperatore Eraclio, impegnato a riconquistare Siria ed Egitto ai persiani, nel tentativo di sanare la divisione tra “giacobiti” e “melkiti” iniziò a suggerire una formula di unione in cui si affermava l’esistenza in Cristo di due nature, ma di una sola energia o volontà: è la dottrina del monotelismo[12]. Dopo l’ambiguo atteggiamento assunto da Papa Onorio (625-638) che non cogliendo il problema in gioco declassava la questione a puramente verbale, il monotelismo si scontrò con la determinante opposizione di Massimo il Confessore (580-662). Questi, pagando con la propria vita l’opposizione al diktat imperiale, «ha strappato l’intera forma della tradizione cristiana greca alla presa deformante dell’integralismo politico»[13]. L’oscuro periodo, in cui per alcuni decenni la sede romana rimase l’unica a sostenere l’ortodossia calcedonese, si concluse con la condanna del monotelismo al Concilio ecumenico costantinopolitano terzo (680-681).

La Chiesa maronita, fedele all’imperatore e a Calcedonia, adottò la posizione monotelita, che sotto Eraclio si presentava in Oriente come la linea ortodossa, ma non poté partecipare ai successivi dibattiti in quanto rimase immediatamente isolata a causa dell’invasione araba del 634 e dello stato di guerra endemica tra arabi e bizantini che si protrasse ininterrotto per più di un secolo, apprendendo solo successivamente della condanna del monotelismo[14].

Sempre per effetto delle conquiste arabe, i Patriarcati “melkiti” di Antiochia, Gerusalemme e Alessandria, tutti di lingua greca, rimasero isolati dall’impero bizantino e adottarono rapidamente l’arabo come lingua liturgica e della produzione teologica, mentre le altre Chiese rimaste sotto il dominio arabo mostrarono una tendenza a conservare la propria lingua originaria (siriaco o copto) per qualche secolo ancora. Questo tratto di arabicità della Chiesa “melkita” in Medio Oriente sussiste fino ad oggi.

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[San Charbel Makhluf, monaco maronita (1828-1898)]

Nel 1054, nel contesto della crescente tensione tra cristianità latina e greca, il Patriarca di Costantinopoli e il Papa si scomunicarono a vicenda. Questo episodio, noto come “scisma d’Oriente”, è all’origine della divisione della linea calcedonese nei due grandi rami della Chiesa cattolica e delle Chiese ortodosse. Nonostante alcuni tentativi di riconciliazione come il Concilio di Ferrara-Firenze (1438-1439), la separazione non fu più sanata e la scomunica è stata revocata solo nel 1965 da parte di Paolo VI e del Patriarca di Costantinopoli Atenagora.

Poco dopo lo scisma d’Oriente iniziarono le Crociate, che tra i numerosi effetti ebbero anche quello di rinsaldare il rapporto tra cristianità latina e Chiesa maronita, che nel frattempo aveva spostato la propria sede patriarcale nel Monte Libano. Nel 1580, ebbe luogo il Sinodo di Qannūbīn, in cui furono recepite le decisioni del Concilio di Trento. Questo fatto, come pure l’apertura del Collegio Maronita a Roma, aprì la strada a un periodo di intenso rinnovamento spirituale e culturale, che preparò il terreno al Risorgimento arabo (Nahda) nel Levante[15]. Ad esempio, furono maroniti e melkiti a introdurre l’arte della stampa nel mondo arabo[16]. Nel Sinodo maronita di Rayfūn (1736) fu promossa un’ulteriore riforma nel governo delle diocesi, mentre dal 1823 il Patriarca ha sede a Bkerke in Libano.

In Medio Oriente, il patriarcato “melkita” di Antiochia, che nel frattempo aveva spostato la propria sede effettiva a Damasco, oscillò a lungo tra Roma e Costantinopoli. Sempre nel quadro della riforma cattolica, i missionari europei lavorarono per l’unione integrale con Roma, che fu prossima a realizzarsi nel 1724 con l’elezione a Patriarca di Antiochia di Cirillo VI Tanas, ma da ultimo si concluse con un parziale scacco. Il risultato fu un’ulteriore duplicazione del patriarcato “melkita” di Antiochia in due rami, noti abitualmente come greco-cattolici e greco-ortodossi, benché la denominazione sia del tutto inappropriata dal punto di vista linguistico, trattandosi in realtà di due Chiese bizantine di lingua araba[17].

In questo modo il Patriarcato di Antiochia è oggi diviso tra cinque Chiese: tre calcedonesi (greco-cattolici, greco-ortodossi, maroniti) e due originariamente non-calcedonesi (siro-cattolici e siro-ortodossi). Una divisione particolarmente dolorosa dato che fu in quella città che «per la prima volta i discepoli furono chiamati cristiani» (At 11,26)[18].

 

I latini

Un altro effetto delle Crociate fu lo stabilirsi di una presenza latina in Oriente. Anche se figure come il domenicano André de Longjumeau, legato di Innocenzo IV in Oriente, avevano suggerito di non duplicare la gerarchia locale, i Crociati istituirono proprie diocesi con clero latino. Dopo la fine dei regni crociati, questa gerarchia fu spazzata via: l’ultimo Patriarca latino di Gerusalemme morì nel 1291 a San Giovanni d’Acri durante l’evacuazione della città. Tuttavia, la presenza della cristianità occidentale fu garantita dalla Custodia francescana di Terrasanta e da altri ordini religiosi, in particolare i domenicani, i carmelitani e più tardi i gesuiti.

In età moderna sono state istituite in Medio Oriente alcune diocesi di rito latino, in generale nella forma di un Vicariato apostolico (cioè di un “rappresentante diretto del Papa”), per evitare di sovrapporsi alle gerarchie locali. Oggi le due più importanti diocesi latine in Medio Oriente, dal punto di vista del numero dei fedeli, sono senza dubbio i Vicariati apostolici di Arabia settentrionale e Arabia meridionale, mentre in Terra Santa è stato ristabilito nel 1847 il Patriarcato latino di Gerusalemme, che estende la sua giurisdizione, oltre che su Israele e Palestina, anche sulla Giordania – dove risiede il maggior numero di fedeli – e su Cipro. Nello spirito ecumenico del Concilio Vaticano II, Paolo VI ha invece abolito nel 1964 gli altri tre Patriarcati latini creati dai Crociati in Oriente e da molti secoli puramente onorifici: Costantinopoli, Alessandria e Antiochia (che quindi prima del 1964 aveva sei titolari).

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[Frati Francescani della Custodia di Terra Santa]

 

Gli evangelici

Dopo la Riforma protestante anche gli anglicani e i luterani istituirono una propria gerarchia in Medio Oriente[19]. A partire dall’Ottocento varie denominazioni americane, tra cui in particolare i presbiteriani, avviarono un’intensa attività missionaria, che ebbe come fulcro in particolare il Syrian Protestant College di Beirut (fondato nel 1866, oggi American University of Beirut)[20]. Anche alcuni intellettuali orientali (in particolare maroniti) aderirono al protestantesimo; molto importante fu in particolare il sodalizio stabilitosi tra Van Dyke e Butrus al-Bustānī, che portò alla più importante traduzione moderna della Bibbia in lingua araba, fondamentale nella creazione di una lingua letteraria contemporanea. Sempre alle missioni protestanti risale anche la fondazione dell’American University in Cairo (1919), che assunse tuttavia quasi immediatamente un orientamento non confessionale.

Mentre le denominazioni protestanti storiche hanno oggi perso gran parte del loro dinamismo, sono presenti in Medio Oriente e Nord Africa numerose comunità evangelical in rilevante crescita.

 

In sintesi

Possiamo ricapitolare questa intricata storia prendendo a riferimento la situazione attuale della Chiesa cattolica in Medio Oriente (esclusa quindi l’Etiopia e l’India). In questa regione del mondo essa si articola in sette riti, ognuno organizzato attorno a un Patriarca, che è nominato dall’assemblea dei Vescovi (sinodo) ma è confermato dal Papa. Questi riti – e le relative Chiese – sono:

  • Rito caldeo;
  • Rito copto;
  • Rito siriaco;
  • Rito armeno;
  • Rito melkita;
  • Rito maronita;
  • Rito latino.

Ognuno dei riti, salvo il maronita e il latino, ha, per ragioni storiche, una Chiesa “gemella” ortodossa:

  • Chiesa assira d’Oriente e Antica Chiesa d’Oriente;
  • Chiesa siro-ortodossa;
  • Chiesa copto-ortodossa;
  • Chiesa armena apostolica;
  • Chiesa greco-ortodossa (articolata in Medio Oriente in quattro Patriarcati: Costantinopoli, Antiochia, Gerusalemme e Alessandria).

A queste Chiese si aggiungono le comunità nate dalla riforma: luterani, anglicani e modernamente le varie denominazioni pentecostali.

Resta da segnalare che ognuna di queste Chiese storiche, sia cattoliche sia non cattoliche, ha sviluppato una consistente diaspora, soprattutto in Europa, nelle Americhe e in Australia, che si è a sua volta organizzata in diocesi. È il caso ad esempio della Diocesi copto-ortodossa di Milano.

 

Un bilancio

All’apice delle controversie cristologiche, le tre Chiese si combatterono duramente affibbiandosi denominazione ingiuriose (melkiti, nestoriani, giacobiti)[21]. Secondo diversi studiosi, tra cui il grande islamologo Van Ess[22], la nascita stessa dell’Islam può essere in parte spiegata con la sensazione che il Cristianesimo orientale, con la divisione nelle tre Chiese, fosse finito in un “vicolo cieco”.

Oggi, dopo quasi un secolo di ecumenismo, le Chiese del Medio Oriente hanno raggiunto una memoria maggiormente condivisa di questi avvenimenti, i cui contenuti esatti sfuggono alla comprensione della maggior parte dei fedeli.

Da non sottovalutare in queste vicende è poi il ruolo giocato dalle difficoltà di comunicazione in epoca premoderna. Sa‘īd Ibn Batrīq (Eutychios, 877-940), Patriarca melkita di Alessandria, lamenta ad esempio nei suoi annali l’interruzione di notizie circa la sede di Roma e il suo continuatore Yahyā al-Antakī gli fa eco. Scrivendo ad Antiochia verso il 1030 – quindi appena prima dello Scisma d’Oriente – egli confessa di ignorare i nomi dei Patriarchi di Roma dal 680 in avanti e spiega come si mantenne comunque l’usanza di menzionare nella Messa il nome dell’ultimo Papa di cui si aveva avuto notizia:

Non mi sono purtroppo pervenuti con certezza i nomi dei patriarchi di Roma. Il patriarca Sa‘īd Ibn Batrīq, in verità, li nomina, in successione, partendo da Pietro, capo degli apostoli, sino a Ghābiyūs[23], ossia il patriarca durante la cui reggenza ebbe luogo il Sesto Concilio [= Costantinopoli III, 680-681]. [...] Egli, tuttavia, non menziona chi fu poi designato patriarca dopo di lui [...]. Di questo Ghābiyūs, tuttavia, mai si omise di far menzione nel dittico a partire dal tempo in cui si era riunito il Sesto Concilio sino a dopo la morte del patriarca Sa‘īd Ibn Batrīq [940 d.C.], e questo per un lungo periodo di cui non si conosce la durata [esatta]. Dopo di lui, si fece[24] menzione di un altro patriarca di Roma chiamato Benedetto, il cui nome continuò a essere menzionato nel dittico sino all’anno 390 e qualcosa dell’egira [1000 d.C.]. Molti altri patriarchi furono creati dopo il suddetto Benedetto, epperò di nessuno di essi è mai stato celebrato il nome o esaltata la memoria nelle contrade dell’Egitto e della Siria, e ciò sia perché ci fu una brusca interruzione d’afflusso di notizie che li riguardavano sia perché troppo distante giaceva il loro paese[25].

Anche e forse soprattutto queste difficoltà pratiche ebbero il loro peso nel processo di estraniazione delle diverse comunità cristiane. Ponendosi dal punto di vista dello studioso, la presenza ecclesiale in Oriente si caratterizza comunque per una straordinaria ricchezza in fatto di teologia, liturgia e spiritualità, espressione dell’inculturazione della fede cristiana nelle tradizioni dei diversi popoli del Vicino Oriente antico. Nelle sue espressioni più alte essa incarna l’ideale dell’unità nella pluriformità, un ideale che ha saputo attraversare anche duri momenti di persecuzione (si pensi solo ai massacri dei maroniti nel 1860 in Libano e Siria, alle ricorrenti persecuzioni dei copti o al genocidio armeno e siriaco durante la prima guerra mondiale).

E tuttavia occorre riconoscere che tale ricchezza è divenuta oggi un fardello che mette a rischio la stessa sopravvivenza di queste comunità. «In Oriente, o saremo cristiani uniti o non saremo» avevano scritto i Patriarchi cattolici d’Oriente nella loro prima lettera pastorale del 1991. Alla luce degli sviluppi degli ultimi anni è forse il caso di domandarsi se la seconda, tragica alternativa, non si sia fatta pericolosamente vicina. E tuttavia proprio le ultime persecuzioni hanno portato a una rinnovata esperienza di quello che Papa Francesco ha chiamato in più occasioni “ecumenismo del sangue”. È lecito sperare che questo sviluppo possa condurre a rileggere con occhi nuovi una storia che è fatta certo di divisioni, ma anche e soprattutto dal desiderio di restare fedeli al Vangelo in un contesto non di rado ostile.

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[Icona dei 21 lavoratori copti martirizzati da Isis in Libia nel 2015]

 

Per saperne di più

La croce e la bandiera nera, «Oasis» 22 (2015)

Aldo Ferrari, Popoli e Chiese dell’Oriente cristiano, Edizioni Lavoro, Roma 2008

Samir Khalil Samir, Ruolo culturale dei cristiani nel mondo arabo, edizioni Orientalia Christiana, Roma 2007

Christian Cannuyer, I copti, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1994

Pier Giorgio Gianazza, Separati in Chiesa. Piccola guida all’ecumenismo pratico, Edizioni Dehoniane, Bologna 2015

 

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Note
[1] Per celebrare l’esito del Concilio fu eretta a Roma la Basilica di Santa Maria Maggiore.
[2] Il termine “caldei” indicava nell’antichità gli abitanti della Bassa Mesopotamia. Fu utilizzato nel 1445 per designare i fedeli “nestoriani” residenti a Cipro che avevano accettato l’unione con Roma. Questa unione tuttavia non ebbe lunga durata.
[3] La costa del Malabar è una parte del litorale occidentale dell’India, tra Goa e il Capo Comorin.
[4] Hans Urs von Balthasar, Massimo il Confessore. Liturgia Cosmica, Jaca Book, Milano 2001 (nuova edizione), p. 40. Nel testo di Calcedonia è esplicito il riferimento alla sede di Roma come garante dell’ortodossia.
[5] Il termine “copto” deriva etimologicamente dal greco Aigyptios (“egiziano”).
[6] Una seconda dichiarazione analoga è stata firmata da Giovanni Paolo II e dal Patriarca siro-ortodosso Ignatius Zakka I Iwas nel 1984. Altre dichiarazioni sono state firmate con la Chiesa siro-malankarese (1990) e la Chiesa armena (1996).
[7] Qui il testo completo:  http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2017/april/documents/papa-francesco_20170428_egitto-tawadros-ii.html. Si può sperare che questa dichiarazione, che ha suscitato l’opposizione dei settori più tradizionali della Chiesa copta ortodossa, serva a risolvere la dolorosa questione del “ri-battesimo”, pratica introdotta sotto Shenouda.
[8] La Chiesa armena ha inoltre un Patriarca a Costantinopoli (fondato nel 1461) e uno a Gerusalemme (fondato nel 638) che in alcune epoche storiche hanno avuto una grande importanza, ma oggi contano un numero limitato di fedeli. Le due sedi patriarcali, pur riconoscendo il ruolo di Echmiadzin nelle questioni ecclesiali d’interesse generale, sono ad oggi autonome.
[9] Esiste però anche un ramo autocefalo, noto come Chiesa ortodossa siriaca malankarese (Malankara Orthodox Syrian Church). La storia dei “cristiani di San Tommaso” in India è particolarmente complessa ed esula dal presente articolo.
[10] Nel 2015 Papa Francesco ha eretto la Chiesa cattolica eritrea come Chiesa sui iuris, distaccandola dalla Chiesa cattolica etiope.
[11] Particolarmente intricata è la vicenda del Concilio ecumenico di Costantinopoli del 553, fortemente voluto da Giustiniano, e della condanna retroattiva dei principali esponenti della scuola antiochena. La condanna non ebbe l’effetto sperato da Giustiniano di riunire calcedonesi e miafisiti contro un avversario “nestoriano” comodamente ritagliato su misura, ma produsse un’ulteriore divisione nella Chiesa d’Occidente. Milano e Aquileia si rifiutarono infatti di accettare la decisione di Giustiano, che fu invece sanzionata con una formula ambigua da Papa Vigilio. Il risultato fu uno scisma (detto “scisma dei tre capitoli”) che si protrasse in Italia fino al 698. Tra i suoi effetti, la divisione del patriarcato di Aquileia in due rami (da qui il titolo patriarcale attribuito a Grado e successivamente a Venezia) e lo speciale rapporto tra Como e Aquileia. Sempre a Giustiniano si deve l’imposizione per legge del modello della pentarchia, centrato su cinque patriarcati principali: Roma, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme. Tale modello struttura fino a oggi l’ecclesiologia delle Chiese ortodosse, mentre la Chiesa cattolica lo accetta solo parzialmente, considerandolo un’espressione storica contingente, da armonizzare con la preminenza, non solo onorifica, della sede di Roma.
[12] Nonostante l’apparente astrusità della questione, la controversia monotelita mette in realtà a tema la questione, centrale per la modernità, della volontà umana e della natura dell’atto libero. Cfr. Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, vol. 2, Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2011, pp. 177-183, in particolare p. 181: «Esiste in Gesù la “volontà naturale” della natura umana, ma c’è una sola “volontà della persona” che accoglie in sé la “volontà naturale” […]. Il dramma del Monte degli ulivi consiste nel fatto che Gesù riporta la volontà naturale dell’uomo dall’opposizione alla sinergia e ristabilisce così l’uomo nella sua grandezza».
[13] Hans Urs von Balthasar, Massimo il Confessore, p. 33.
[14] Da qui l’intricata questione, in cui non è possibile entrare, della “perenne ortodossia” dei maroniti.
[15] Cfr. Albert Hourani, Arabic Thought in the Liberal Age, Oxford University Press, Oxford 19832, cap. 3., in particolare pp. 55-64.
[16] Ai maroniti va il merito di aver introdotto la prima stamperia in Medio Oriente, presso il monastero di Sant’Antonio di Qozhaya nel Libano settentrionale, ma essa utilizzava i caratteri siriaci. La prima stamperia con caratteri arabi nell’impero ottomano – senza cioè contare le opere già stampate in Europa, in particolare a Roma e a Leida – iniziò ad operare ad Aleppo nel 1706 per iniziativa del Patriarca melkita Atanasio IV Dabbas.
[17] Tra le due chiese melkite esiste una certa asimmetria di struttura. Mentre infatti il Patriarca melkita cattolico riunisce in sé le tre sedi “arabe” di Antiochia, Gerusalemme e Alessandria, la Chiesa ortodossa ha mantenuto la divisione nelle tre sedi storiche. Di queste, Antiochia è quella con il maggior numero di fedeli e l’unica ad avere una gerarchia interamente araba, mentre per Gerusalemme e Alessandria il Patriarca è inviato dalla Grecia. In questo momento i patriarcati ortodossi di Gerusalemme e di Antiochia sono divisi da una questione di giurisdizione sulla comunità ortodossa residente in Qatar.
[18] Circa gli altri patriarcati storici: a Costantinopoli, oltre il Patriarca ecumenico, risiede un Patriarca armeno (con giurisdizione sulla sua “nazione”). A Gerusalemme risiede un Patriarca ortodosso, uno armeno e uno latino. La sede di Alessandria d’Egitto vede la presenza di un Patriarca ortodosso, uno copto-ortodosso e uno copto-cattolico.
[19] La creazione di una sede episcopale unica, per anglicani e luterani, a Gerusalemme nel 1841 fu per inciso la causa diretta che spinse il Beato John Newman ad abbandonare il suo progetto di via media anglicana, centrata sulla successione apostolica, per aderire alla Chiesa cattolica.
[20] Il fondatore, Daniel Bliss, si descriveva come ««nato battista, educato metodista, ordinato congregazionalista e all’opera tra i presbiteriani». Cfr. David M. Stowe, «Bliss, Daniel», in Biographical Dictionary of Christian Missions, a cura di Gerald H. Anderson, Macmillan Reference USA, New York 1998, p. 69.
[21] Proprio per questo, nel presente testo abbiamo sempre utilizzato questi termini tra virgolette, intendendoli in senso storico e non teologico.
[22] Cfr. l’intervista rilasciata a Christian Meier del Goethe Institut nel novembre 2011 e pubblicata su Fikrun wa Fann.
[23] Deve trattarsi di una corruzione per Agatone, papa dal 678 al 681.
[24] Correggo la traduzione italiana sulla base del testo arabo.
[25] Yahyā al-Antakī, Cronache dell’Egitto fātimide e dell’impero bizantino 937-1033, a cura di Bartolomeo Pirone, Jaca Book, Milano 1998, pp. 26-27.
 

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