Introduzione ad Autocritica dopo la sconfitta di Sādiq al-‘Azm

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:02:39

Questo articolo è l'introduzione a Anatomia di una disfatta

 

Cinque giugno 1967: il trentenne Sādiq al-‘Azm, all’epoca professore di Filosofia all’Università americana di Beirut, viene svegliato da una telefonata di Adonis, il poeta siriano suo conterraneo: la guerra è scoppiata – gli annuncia l’amico riferendogli le notizie ascoltate alla radio – gli aerei israeliani cadono uno dopo l’altro e gli eserciti arabi avanzano su tutti i fronti. La realtà è ben diversa: in sei giorni le forze arabe sono completamente annientate. «Penso – scrive al-‘Azm nel 2007 – che nessuno della mia generazione si sia veramente ripreso da questa improvvisa caduta dalle vette inebrianti dell’entusiasmo al fondo dell’abisso della sconfitta più nera»[1].

 

Mentre altri si affannano a rialzare il morale dei vinti, il collasso militare del 1967 diventa in lui l’occasione per una Autocritica dopo la sconfitta, il titolo del saggio che lo renderà insieme famoso e detestato. Con un linguaggio che ancora oggi ferisce per la sua durezza, al-‘Azm denuncia il fallimento dei regimi progressisti che, cominciando con Nasser in Egitto, si erano posti alla guida ideale del mondo arabo. La sua tesi di fondo, da marxista convinto, è che essi hanno fallito non per insufficienze personali ma perché hanno tentato un’impossibile conciliazione tra il socialismo e i valori tradizionali arabi. Le implicazioni di questa tesi saranno ulteriormente sviluppate in Critica del pensiero religioso (1969), che gli varrà un processo in contumacia in Libano e un arresto di due settimane.

 

Nato nel 1934 da una delle più importanti famiglie dell’aristocrazia siriana – il palazzo avito a Damasco, divenuto sede museale, si poteva ancora visitare prima dell’ultima guerra – educato all’Università americana di Beirut e a Yale, al-‘Azm è certamente un pensatore controverso. Nei brani che presentiamo si noterà ad esempio la caratterizzazione manichea del conflitto arabo-israeliano, presentato come una lotta tra bene e male – anche se su questo punto il suo pensiero conoscerà una certa evoluzione – o l’esaltazione del lavoro come «unico criterio del valore umano». Onestà intellettuale vuole che si riconosca come la critica all’uso politico della religione sia in lui, ateo, solo un aspetto di una più ampia critica alla religione in quanto tale. Al-‘Azm inoltre non vede la contraddizione tipicamente marxista tra invocare valori universali (ad esempio l’uguaglianza e la giustizia sociale) e il considerarli storicamente determinati e quindi ultimamente relativi. Tuttavia è anche vero che il filosofo siriano ha il coraggio di farla finita con il concordismo superficiale che esige risposte facili a domande difficili –  si veda il brano sulla scienza – e non teme di denunciare sindromi vittimiste come il complottismo, ancora oggi così diffuso in Medio Oriente.

(...)

Il passo sulla “prevalenza del furbetto” – ci siamo permessi questa libertà di traduzione in omaggio a Fruttero e Lucentini e alla loro prevalenza del cretino – presta naturalmente il fianco all’accusa di essenzialismo, a cui peraltro al-‘Azm avrebbe risposto che non essenzializzava un bel niente, aderendo al materialismo storico. Anche per chi, come Oasis, non si riconosce in questa ideologia, resta vero che procedere per astrazioni è inevitabile qualora non si voglia semplicemente rassegnarsi a dire che la realtà è “molto complessa”. E certamente la prevalenza del furbetto ha qualcosa a che vedere con l’incredibile somma di sottovalutazioni e incuria che ha portato all’esplosione del porto di Beirut, solo pochi mesi fa. Del resto, per fugare ogni possibile sospetto di parzialità, la storia ha mostrato ad abundantiam che il mondo arabo non può vantare alcun monopolio su questa onnipresente categoria dell’umano.

 

Esatto opposto di Orientalismo di Edward Said per la scelta di non scaricare le responsabilità del fallimento «sul nemico, il colonialismo, il tradimento, la sorte e tutto quello che passa per la testa», Autocritica dopo la sconfitta è un libro amaro, veemente, impietoso – si legga il ritratto senza sconti del giovane impegnato – politicamente scorretto, ma sempre utile nella sua lucidità, anche là dove non ci si trova d’accordo. Inaugura un nuovo stile nella prosa araba, come Note a margine del copione della sconfitta di Nizār Qabbānī apriva, negli stessi anni, una nuova stagione nella poesia («Addio, amici, alla lingua antica / e ai libri antichi / addio»).

 

La parabola del mondo arabo dopo la sconfitta del 1967 non è stata quella auspicata da al-‘Azm e che peraltro si sarebbe risolta in una dittatura marxista. I regimi nazionalisti hanno accentuato la loro dimensione autoritaria (Saddam Hussein, Asad, Gheddafi…), mentre la contestazione ha abbracciato in gran parte le categorie dell’Islam politico. Il Medio Oriente delle “repubbliche progressiste” è rimasto bloccato in un vicolo cieco, di cui anche al-‘Azm ha fatto esperienza diretta. Dal 1977 professore di Filosofia europea moderna all’Università di Damasco, sempre più interessato a Kant e all’universalismo dei diritti umani, sottoscrittore del Manifesto dei Novantanove durante la breve primavera di Damasco del 2000, il filosofo diventa, dopo lo scoppio della rivolta siriana, un implacabile critico di Asad. Costretto a riparare nel 2012 a Berlino, morirà in esilio nel 2016.

 

Cinquant’anni dopo la sconfitta nella Guerra dei Sei Giorni il mondo arabo è scosso dal malcontento popolare. Che cosa può insegnare questo libro ormai classico, per quanto tuttora bandito in alcuni Paesi? Che la rivoluzione è una cosa seria: serve un programma realistico, dei leader, capacità di sacrificio, valutazione oggettiva delle forze sul terreno, una critica complessiva della società. È un’altra cosa rispetto a una protesta, è qualcosa di più che uno slogan ben riuscito.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
 
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Per citare questo articolo

 

Riferimento al formato cartaceo:

Martino Diez, Come fallisce una rivoluzione, «Oasis», anno XVI, n. 31, dicembre 2020, pp. 119-121.

 

Riferimento al formato digitale:

Martino Diez, Come fallisce una rivoluzione, «Oasis» [online], pubblicato il 10 dicembre 2020, URL: /it/come-fallisce-una-rivoluzione


[1] Prefazione all’edizione del 2007, p. 8.

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