L'amore dei musulmani è sempre rivolto a Dio e ai fratelli in Dio

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:49:35

Una parola tra noi e voi è il titolo della lunga, dotta e bella lettera che 138 personalità dell’islam sunnita e sciita hanno recentemente inviato ai maggiori esponenti delle chiese cristiane.

Amore per l'unico Dio

I temi notevoli in questa lettera, continuamente osservati e proposti al lettore sia sul versante musulmano sia sul versante cristiano, sono molti, e guardano tutti alla comunanza del credo monoteista e del simile sentimento d’amore che la persona religiosa, musulmana o cristiana che sia, nutre per Dio, un sentimento che necessariamente riverbera sul prossimo. Riscoprire e ribadire l’accordo fondamentale tra queste due “vie” del monoteismo è importante e urgente perché – come afferma la lettera - “senza pace e senza giustizia tra queste due comunità religiose non può esserci una pace significativa nel mondo”.

Nell’ampiezza dottrinale di questa Lettera vorrei rilevare il comandamento ad “amare per il fratello quel che si ama per se stessi”, la regola aurea dell’amore secondo la tradizione musulmana, esplorata al punto II.

Un esempio da imitare

Come la stessa Lettera ricorda, questa regola non figura nel Corano ma nella Sunna, cioè tra i detti e i fatti del Profeta dell’islam raccolti dalla memoria di più garanti e messi per iscritto grosso modo due secoli dopo la predicazione coranica, un esempio di fede e di comportamento che il musulmano è tenuto a imitare. In particolare, essa compare nelle due raccolte canoniche di Bukhârî (m. 256 dell’egira/870 d.C.) e di Muslim ibn al-Hajjâj (m. 261/875), in entrambi i casi in testa alle compilazioni - dunque con posizione di rilievo - nel Libro della Fede. E’ assai verosimile che questo parallelismo sia un prestito culturale. Notò l’islamologo Ignaz Goldziher, ormai più di un secolo fa, che i primi elementi della letteratura di Tradizione ci offrono molti esempi del rapido accoglimento del prestito cristiano da parte dei fondatori dell’islam. 

L’islam considerò il cristianesimo una religione dalla quale qualcosa poteva essere preso a prestito

particolarmente nel campo degli enunciati sapienziali. Come detto, questo comandamento non compare nel Corano: il Libro dell’islam, similmente alla letteratura vetero e neotestamentaria, preferisce insistere su un amore che è logicamente prioritario rispetto all’amore di o tra esseri umani, cioè l’amore di Dio e per Dio. E quando il Libro santo dell’islam considera l’amore nutrito dalle creature umane lo fa per lo più in senso diverso.

Le deviazioni dell'amore umano

Nella sura della Famiglia di ‘Imrân, ad esempio, Dio mette in guardia i credenti contro coloro che non ricambiano l’amore, cioè gli increduli della Gente del Libro, gli ebrei e i cristiani; nella stessa sura, l’amore verso i figli e le donne è equiparato all’amore del piacere o delle ricchezze (cfr. Corano, rispettivamente 3,119 e 14). E nella sura di Giuseppe l’amore che la moglie dell’Egiziano nutre per Giuseppe è fonte di derisione e scandalo, è un amore traviato, lussurioso e menzognero (Corano 12,23-32).

In generale, secondo il Corano, amare e anche non amare sono tra le grandi prerogative di Dio. Per questo l’uomo che ama è spesso individuato negativamente: l’uomo ama l’effimera ricchezza terrena, o gli idoli, o la cecità del cuore e il male; oppure ama essere lodato per ciò che le sue mani non hanno compiuto. L’amore da parte dell’uomo si qualifica come buono, e inoltre meritevole di reciprocità, solo se è rivolto a Dio e all’islam:

Voi che credete! - è detto nella sura della Mensa - se qualcuno di voi rinnega la sua religione, ebbene, Iddio susciterà uomini che Egli amerà come essi ameranno Lui (Corano, 5,54)

Tornando alla Tradizione del Profeta, anch’essa conferisce estremo valore all’amore per Dio o per il Libro e la Fede. È vero che questa letteratura, rispetto al Corano, è più attenta all’amore che le creature nutrono l’una per l’altra. Ma è anche vero che tale amore va rivolto prima di tutto a Muhammad, e dev’essere “in Dio”. Scrive ad esempio Bukhârî:

In tre cose l’uomo trova la dolcezza della fede: che Dio e il Suo Profeta siano per lui più amati del resto; che amando l’essere umano non lo ami se non in Dio

Amare ed essere amati Lo stesso autore cita, come parte della fede, l’amore per chiunque sia amato da Dio e di conseguenza da Gabriele e dagli abitanti del Paradiso. È evidente che in questa letteratura amare il Profeta o chi è amato da Dio, dagli angeli e dai beati equivale, in ultima analisi, ad amare Dio. Declinato in molti modi, l’appello è sempre lo stesso: amare Dio, e, dobbiamo specificare, amare Dio secondo l’islam.

Invece amare l’uomo, l’uomo in generale, è un’eventualità, un’istanza seconda, lecita solo nel contesto dell’amore per Dio e “in Dio”. Il messaggio della Sunna non contraddice il messaggio coranico. Invece conferma i molti versetti del Libro che rimandano ultimamente a Dio tutti i modi dell’amore.

Amare "per" l'altro

Ancora un’osservazione: mentre la dottrina cristiana prescrive di amare il prossimo come si ama se stessi, la dottrina musulmana prescrive di amare per il fratello (an yuhibba li-akhî-hi) quel che si ama per se stessi. La formulazione islamica della regola aurea non è motivata da esigenze linguistiche o sintattiche della lingua araba, è invece intenzionale: amare non l’altro, ma “per l’altro ciò che […]”. L’oggetto dell’amore sta oltre l’uomo perché, nuovamente, sta in Dio. Come scrisse l’eminente teologo medievale Ghazâlî (m. 505/1111), Dio solo è Colui che merita l’amore; e l’amore dell’uomo per se stesso conduce direttamente a Dio dal momento che l’esistenza di ogni uomo è dovuta a Dio.

Ma chi è colui per il quale si deve amare ciò che si ama per se stessi? Un altro grande compilatore di detti e fatti profetici riconosciuti come canonici, Tirmidhî (m. 278/899), ricorda subito che

se ami per la gente ciò che ami per te stesso, sei musulmano

E anche il fratello è musulmano: secondo la letteratura di Tradizione - non troppo diversamente dalla letteratura neotestamentaria - la fratellanza è un’idea legata prima di tutto alla confessionalità: ricordano in molti che il fratello del musulmano è il musulmano, che il fratello del credente è il credente, che si è fratelli nella religione di Dio e nel suo Libro, ovvero nel patto dell’Inviato, e che, quando prega, è un fratello anche lo schiavo. Il Corano stesso dichiara che “i credenti sono tutti fratelli” (Corano 49,10) che “Egli vi ha posto armonia nel cuore, e per Sua grazia siete divenuti fratelli” (Corano 3,102-103).

L’appello all’amore fraterno va dunque inteso, nell’amplissima maggioranza dei casi, in senso confessionale. Ancora Ghazâlî, esplorando i peccati del cuore e l’invidia, scrive che:

La creatura non giunge alla vera fede finché non ama per gli altri musulmani quel che ama per se stessa; anzi, è necessario che sia compartecipe nella buona e nella cattiva sorte. I musulmani sono infatti come un unico edificio di cui una parte è connessa all’altra, sono come un unico corpo in cui, se un membro soffre, soffre anche il resto del corpo

La regola aurea secondo l’islam può dunque ritradursi così: ama il Signore e ama la Sua Parola secondo il Corano, e il tuo amore verso Dio, in altre parole la tua fede, sia a beneficio di te stesso e ugualmente a beneficio dei musulmani tutti. Non desta dunque meraviglia che tale regola, tanto chiaramente marcata dai tratti della confessionalità, sia divenuta a volte, da parte islamica, un invito alla conversione: scrisse il notabile baghdadino Ahmad ibn al-Munajjim (IX-X sec. d.C.) al cristiano Qustâ ibn Lûqâ, a conclusione di una lettera sulla verità dell’islam:

Ho portato a compimento il buon consiglio per te, ho amato per te quel che ho amato per me stesso. Temi Iddio, Colui verso il quale vai, e ritorna alla verità che per te è la cosa più degna a cui ritornare

L'amore per Dio si riverbera sul prossimo Quel che precede non intende, evidentemente, ridurre o discutere il peso culturale e tantomeno la portata di pace di Una parola tra noi e voi. Vuole invece notare come sia oramai tendenza diffusa raccogliere parole grandissime e indubbiamente valide per il dialogo, ma isolate, sradicate dal loro contesto culturale. Lo stesso accade con “lâ ikrâh fî al-dîn”, il celebre “nessuna costrizione nella Fede” contenuto nella sura della Vacca (Corano 2,256), citato tra l’altro nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo nell’Islam redatta nel 1981 su iniziativa del Consiglio islamico d’Europa, ripreso da Benedetto XVI nella lectio magistralis di Ratisbona e poi nella successiva risposta di autorevoli teologi e giuristi musulmani, la Lettera aperta a Sua Santità Papa Benedetto XVI. Anche il quel caso, la parola coranica figurava ovunque senza relazioni di sorta, in senso generale e assoluto, come precetto transtorico, mettendo la parte le numerose restrizioni al proposito, restrizioni che l’esegesi coranica ha bene illuminato nel corso della sua lunga storia.

Ma le peculiarità culturali esistono, anche in fatto di religione rivelate. Cosa concludere? È una risposta difficile. Louis Massignon scrisse che il successo non risiede nel cercare misure comuni e comuni denominatori; “quel che dobbiamo cercare di far convergere è ciò che di più autentico si trova nell’originalità di ciascuna religione”. Tuttavia constatare la tendenza a rileggere la Scrittura di nuovo, parola per parola, senza precomprensioni, è già importante.

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis

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