Rassegna stampa ragionata sul Medio Oriente e sul mondo musulmano

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:02:19

È guerra aperta ormai quella nel Nagorno-Karabakh. Gli scontri sono cominciati domenica, ma quello tra Armenia e Azerbaijan è uno dei tanti conflitti congelati le cui origini risalgono in realtà al secolo scorso. Internazionale ne ripercorre la storia: secondo il principio del divide et impera, Stalin annesse un territorio a maggioranza armena e cristiana (il Karabakh appunto) all’Azerbaijan, dove si parla una lingua turcofona e la popolazione è in maggioranza musulmana. Già nel 1988 gli armeni del Nagorno-Karabakh votarono a favore della separazione dall’Azerbaijan, che tuttavia non si concretizzò mai e il conflitto si congelò con una tregua (mai trasformatasi in pace) nel 1994.

 

Dove sta l’importanza di questo conflitto? Alla domanda risponde Robin Forestier-Walker: «Se si guarda dove sono l'Armenia e l'Azerbaigian sulla mappa, si vedrà che la regione è strategicamente molto importante. Ci sono la Turchia a ovest, l'Iran a sud, la Russia a nord e grandi quantità di riserve di idrocarburi del Mar Caspio a est, che transitano attraverso il Caucaso, molto vicino a dove si stanno svolgendo i combattimenti in questo momento».

 

Lo scoppio delle ostilità non è del tutto inaspettato anche per il fatto che già a luglio di quest’anno si erano registrate schermaglie al confine. Gli scontri odierni però coinvolgono anche le due potenze regionali attive nei principali teatri di guerra mediorientali: la Russia, alleata dell’Armenia, e la Turchia, che appoggia l’Azerbaijan. Erdogan non ha perso tempo e ha subito inviato a Baku droni di ultima generazione (l’Armenia dice di averne abbattuto uno nei pressi della capitale Yerevan) e 4.000 mercenari siriani, secondo l’ambasciatore armeno in Russia. Anche se l’Azerbaijan ha negato le accuse, ci sono le testimonianze di alcuni “volontari” a confermare la strategia bellica turca. Il Guardian ha parlato con tre combattenti che vivono nell’ultima enclave ribelle in Siria, i quali hanno detto che con un decennio di guerra alle spalle e sempre più impoveriti, diversi siriani sono disposti ad arruolarsi come mercenari per le compagnie di sicurezza private turche.

 

Stando a quanto ha detto il ricercatore Noah Agily a Deutsche Welle, i mercenari «sono un mezzo efficace per fornire al presidente turco Recep Tayyip Erdogan una forza militare che potrebbe essere scartata una volta completata la sua utilità». in questo modo la Turchia può sostenere un’aggressiva politica estera senza dover mobilitare l’esercito nazionale, e secondo Agily, poiché i conflitti non so più interstatali ma tra attori non statali, questa tendenza diventerà sempre più comune tra le nuove potenze internazionali.

 

Mentre continua l’escalation di violenza, la Russia, che in base a un’alleanza militare dovrebbe intervenire in difesa dell’Armenia ma ha legami economici anche con l’Azerbaijan, ha chiesto un cessate il fuoco, subito rifiutato da entrambe le parti, mentre la Francia (che come avevamo raccontato la settimana scorsa si trova in contrasto con la Turchia su più fronti nonostante facciano entrambe parte della NATO) ha accusato la Turchia di aver inviato nel Nagorno-Karabakh dei «jihadisti siriani». L’Azerbaijan sta anche facendo uso di droni israeliani, scrive Axios, ragione per cui l’Armenia ha ritirato il proprio ambasciatore da Tel Aviv.

 

Spiega poi Aldo Ferrari, tra i massimi esperti di Caucaso in Italia, che il sostegno turco «ha rafforzato in Azerbaijan la volontà di riprendersi ciò che è stato loro tolto», così come non bisogna dimenticare che «Erdogan, in quanto presidente della Repubblica turca, è l’erede dello Stato Ottomano che ha annientato gli armeni nel territorio dell’attuale Turchia nel 1915».

 

Alcuni analisti hanno messo in evidenza che anche l’Iran è coinvolto nella regione e potrebbe fare da mediatore nel conflitto, soprattutto alla luce delle diverse dichiarazioni da parte del governo iraniano che condannano il conflitto e l’instabilità che porta all’intera regione.

 

L’intervento della Turchia, che aggiunge un fronte di scontro con la Russia dopo la Siria e la Libia, è un’ulteriore possibilità per Erdogan per proiettare il proprio potere nella vasta regione che va dal Medio Oriente all’Asia centrale. È quindi a Erdogan e alle prossime mosse di Putin che gli analisti guardano con attenzione, perché finora i due uomini forti, che, sebbene su fronti opposti, si intendono bene per lo stretto rapporto personale che coltivano da tempo, hanno sempre trovato il modo di stabilire una tregua ed evitare l’escalation. Potrebbe succedere la stessa cosa nel Nagorno-Karabakh, oppure si potrebbe arrivare a uno scontro aperto tra le due potenze. In ogni caso non bisogna dimenticare che le sorti del conflitto in Libia sono cambiate dopo il massiccio intervento militare turco e il dispiegamento non solo di mercenari, ma soprattutto di droni. Uno scenario che sembra si stia materializzando anche nel Nagorno-Karabakh.

 

Dopo la morte dell’“emiro diplomatico”, che futuro per il Kuwait?

 

Martedì scorso i ministri del Kuwait hanno abbandonato una seduta del parlamento in cui stavano venendo discusse importanti questioni interne. Successivamente la TV di Stato kuwaitiana ha interrotto la trasmissione per mandare in onda dei versetti coranici che vengono spesso utilizzati per la morte di un membro anziano della famiglia al potere. Poco dopo, la conferma: l’emiro del Kuwait Sabah al-Ahmad al-Sabah è morto a 91 anni. Nei giorni successivi il principe ereditario Nawaf al-Ahmad al-Sabah è stato nominato nuovo regnante dal parlamento e ora ci si chiede se il nuovo emiro seguirà la via tracciata dal predecessore.

 

Sabah al-Ahmad, emiro dal 2006 dopo 40 anni come ministro degli Esteri, era «un gigante della diplomazia araba» per la sua abilità nelle mediazioni internazionali e per aver saputo ben posizionare il piccolo Kuwait nell’arena internazionale. Dopo la guerra con l’Iraq ha saputo intrattenere rapporti amichevoli con il potente vicino; convinto della necessità del multilateralismo nel mondo moderno, l’emiro è stato il più grande sostenitore del Gulf Cooperation Council e negli ultimi anni aveva bilanciato le relazioni tra gli altri regni del Golfo e l’Iran e tra il “quartetto” e il Qatar. Come ha detto Kristian Ulrichsen al Wall Street Journal «Sabah al-Ahmad ha mostrato di essere in grado di trovare una via di mezzo ed evitare di essere risucchiato nei conflitti regionali scegliendo di schierarsi con una parte o con l’altra». Con la sua morte, ha poi aggiunto Ulrichsen, gli USA perdono un partner affidabile, i palestinesi, in questo momento così delicato per le sorti della Palestina, un loro sostenitore, e il Golfo, che sta vedendo l’ascesa di regnanti più giovani e impertinenti, perde un leader esperto e bilanciato. Una valutazione, quest’ultima, condivisa anche da una fonte di Reuters che era vicina all’emiro e che ha riassunto il proprio giudizio sui regnanti di oggi con la frase: «Guardate che cosa hanno fatto i giovani», aggiungendo che ora, senza shaykh Sabah, il Kuwait sarà più debole.

 

Inoltre mentre Emirati, Qatar e Arabia Saudita hanno perseguito strategie non sempre in linea con i desiderata di Washington, il Kuwait è rimasto fedele all’alleato americano perorando la causa dell’unità nazionale, soprattutto dopo gli attacchi dello Stato islamico nel 2015, leggiamo sul sito dell’AGSIW.

 

Sebbene il nuovo emiro non abbia un chiaro programma nazionale, è probabile che la transizione sarà lineare e senza scossoni. Ma alcuni interrogativi rimangono. Sempre AGSIW si chiede «se la leadership kuwaitiana avrà la determinazione per preservare quello spazio politico interno, unico nel Golfo, e le capacità di mantenere un approccio indipendente che massimizzi le prerogative del Kuwait negli affari internazionali senza provocare i propri vicini potenti».

 

Se consideriamo anche la morte di Sultan Qaboos dell’Oman a inizio anno, ci rendiamo conto di come il 2020 segni davvero la fine di un’era per il Golfo. Come fa notare Cinzia Bianco, il fatto che ci sia continuità non implica che certi cambiamenti non avvengano. Cosa possiamo quindi aspettarci dal nuovo emiro del Kuwait? Secondo Brookings, shaykh Nawaf si concentrerà principalmente sull’economia, mentre la politica interna continuerà stabile sullo stesso percorso segnato da al-Sabah grazie alla solidità delle istituzioni kuwaitiane. Dello stesso parere sembra essere il direttore del Center for Gulf Studies in Qatar, Mahjoob Zweiri, che ad Arabi21 ha detto di non aspettarsi cambiamenti radicali, al contrario, «la politica estera del Kuwait rimarrà costante», anche perché il parlamento contribuirà a qualunque tipo di processo decisionale. Più difficile da prevedere se il Kuwait si unirà ai Paesi che hanno normalizzato i rapporti con Israele: «la posizione del Kuwait sulla questione palestinese è nota da anni e non è cambiata nemmeno durante i tempi difficili dei primi anni novanta del secolo scorso», cioè quando l'Iraq invase il Kuwait. Al momento quindi è ancora troppo presto, conclude Zweiri, per prevedere repentini cambi di percorso, soprattutto in questa fase di instabilità per la regione.

 

Separatismo francese

 

In Francia il dibattito sulla laïcité è sempre molto acceso, ma negli ultimi mesi un’altra parola ha fatto il suo ingresso nel dibattito nazionale francese: séparatisme. Venerdì 2 ottobre il presidente francese Emmanuel Macron ha presentato al parlamento una nuova strategia a riguardo, anche se Macron parla di “separatismo” riferendosi in realtà a certe frange dell’Islam, che a sua volta ha definito come «una religione che oggi vive una crisi in tutto il mondo». In base a quanto scrive Le Monde, con la presentazione del progetto di legge, Macron ha precisato che obiettivo della République è quello di «affrontare il separatismo islamista», intendendo una «ideologia» che «afferma che le sue leggi sono superiori a quelle della Repubblica». Una prima bozza del disegno di legge verrà presentata ai rappresentanti religiosi a metà ottobre per essere poi discussa dal parlamento a dicembre.

 

In cosa consiste allora il progetto di legge? Dal 2021 l’istruzione a scuola sarà obbligatoria a partire dai 3 anni, i bambini che potranno studiare a casa lo faranno solo per motivi sanitari, affinché non sorgano «scuole illegali, spesso amministrate da estremisti religiosi». Poi la fine della formazione degli imam all’estero e l’insegnamento della lingua e della cultura di origine fatti da insegnanti nominati da governi stranieri, mentre è stato proposto l’insegnamento dell’arabo nelle scuole e un maggiore controllo sui finanziamenti alle moschee. L’approccio dovrà essere quello della neutralità in un contesto dove l’Islam è visto come «partner della Repubblica».

 

Tuttavia sono già arrivate critiche a Macron, perché secondo alcuni, come Orient XXI, questi discorsi in realtà criminalizzano l’Islam e i musulmani. Orient XXI analizza un rapporto del Senato francese che avrebbe avuto come scopo quello di indagare le manifestazioni dell’Islam in tutti gli ambiti della società. Orient XXI specifica che, in contrasto con le conclusioni del rapporto, «non è vietato dalla legge affermare la propria fede nello spazio pubblico, purché non disturbi l’ordine pubblico. Anche il postulato [presente nel rapporto] di essere in conflitto con le leggi della Repubblica è spaventoso: nessuna specifica norma di legge è violata da queste manifestazioni visibili dell’Islam».

 

Anche secondo Olivier Roy l’approccio è sbagliato: «poiché non possiamo legiferare contro una religione in particolare, facciamo come abbiamo fatto per bandire il velo a scuola: attacchiamo i segni “religiosi” in generale, credendo che i colpi colpiranno solo i musulmani “separatisti” poiché si pensa che le altre religioni non lo siano. Ma tutto sarà toccato [da queste misure]». Infatti il presidente francese è stato poi criticato anche per non aver fatto distinzioni nel suo discorso tra Islam e Islam radicale, soprattutto a una settimana da un attacco avvenuto a Parigi nei pressi della vecchia sede della redazione di Charlie Hebdo e per il quale è stato arrestato un uomo pachistano che ha ferito due persone.

 

In una frase

 

Non solo gli uiguri, anche altre comunità di musulmani in Cina sono obiettivo delle politiche repressive di Pechino (South China Morning Post).

 

Macron si vergogna della classe politica libanese (Associated Press), ma intanto il Libano sta cercando di risolvere una disputa sul confine marittimo con Israele nel Mediterraneo orientale (Axios).

 

Alice Brignoli, andata in Siria per unirsi allo Stato islamico, è stata arrestata in Siria e riportata in Italia (Il Foglio).

 

A due anni dall’uccisione del giornalista Jamal Khashoggi, l’Arabia Saudita ha continuato a perseguire la linea dura della repressione (Washington Post).

 

L’Europa sta prendendo in considerazione un diretto intervento militare in Libia? (Politico).

 
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