Dopo le edizioni di Tunisi, Venezia, Beirut, Amman, il Cairo e Milano, si tiene a Sarajevo lunedì 16 e martedì 17 giugno l’annuale incontro internazionale di Oasis sul tema “Tentazione violenza: religioni tra guerra e riconciliazione”. Si anticipa qui un estratto dell’intervento di apertura del card. Angelo Scola, presidente di Oasis.

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:37:55

La vicenda di Cristo rappresenta un oggettivo superamento della logica della violenza e come tale misura il passato e il futuro della storia umana («io sono venuto in questo mondo per giudicare» Gv 9,39). Tanto è vero che l’obiezione più comune che da quel momento verrà mossa non riguarderà tanto la bontà del nuovo principio introdotto da Cristo, quanto la sua attuabilità pratica, che sarebbe smentita, prima di tutto, dalle numerose infedeltà dei cristiani stessi. Senza sottovalutare la portata di questo richiamo a una coerenza di vita, personale e comunitaria, la tradizione cristiana considera invece la non-attuabilità di questo ideale sul piano puramente umano come una testimonianza suprema (“martirio”) del divino all’opera nel mondo. Resta perciò convinta che, con la grazia di Dio, sia veramente possibile «seguire le orme» (1Pt 2,21) del Crocifisso Risorto. Siamo qui davvero al cuore della fede. Il congedo definitivo dalla logica della violenza che l’evento pasquale porta in sé è anche il principale contributo che come cristiani pensiamo di poter offrire oggi al dialogo interreligioso. È stata la grande intuizione di Assisi e il messaggio che Papa Francesco ha appena ripetuto in Terra Santa, lanciando dalla spianata delle moschee «un accorato appello a tutte le persone e le comunità che si riconoscono in Abramo: rispettiamoci ed amiamoci gli uni gli altri come fratelli e sorelle! Impariamo a comprendere il dolore dell’altro! Nessuno strumentalizzi per la violenza il nome di Dio! Lavoriamo insieme per la giustizia e per la pace!». Abbiamo poi visto come da quell’appello sia disceso lo storico incontro di preghiera tra i presidenti israeliano e palestinese in Vaticano. In quell’occasione il Santo Padre ha osservato realisticamente che «le nostre forze non bastano. Più di una volta siamo stati vicini alla pace, ma il maligno, con diversi mezzi, è riuscito a impedirla». «Per questo – ha aggiunto – siamo qui, perché sappiamo e crediamo che abbiamo bisogno dell’aiuto di Dio. Non rinunciamo alle nostre responsabilità, ma invochiamo Dio come atto di suprema responsabilità, di fronte alle nostre coscienze e di fronte ai nostri popoli. Abbiamo sentito una chiamata, e dobbiamo rispondere: la chiamata a spezzare la spirale dell’odio e della violenza, a spezzarla con una sola parola: “fratello”. Ma per dire questa parola dobbiamo alzare tutti lo sguardo al Cielo, e riconoscerci figli di un solo Padre». Una pace che non sia una semplice tregua tra contendenti in armi, che accettano un precario modus vivendi a causa dell’impossibilità fisica di sopprimersi, ma un’autentica e cordiale riconciliazione può essere solo invocata come dono di Dio ed è pertanto luogo privilegiato del dialogo tra i credenti delle diverse religioni. Nella stessa lunghezza d’onda, risuona a Sarajevo con particolare forza il discorso che Giovanni Paolo II rivolse ai rappresentanti della comunità musulmana, anch’esso interamente incentrato sulla ricerca della pace come espressione della volontà di Dio sul mondo: «Tutti gli esseri umani – disse Giovanni Paolo II – sono posti da Dio sulla terra, affinché percorrano un pellegrinaggio di pace, ciascuno a partire dalla situazione in cui si trova e dalla cultura che lo riguarda». Sono peraltro il primo ad avvertire quanto queste affermazioni suonino lontane dalla cronaca di questi anni, proprio per quel divario crescente tra aspirazioni ideali e realtà pratiche che individuavo all’inizio come una caratteristica del nostro tempo. Mai come oggi si è parlato tanto di pace e di dialogo e mai come oggi sono frequenti le guerre e le contrapposizioni. La contraddizione è reale, ma non ci deve abbattere: se l’“asticella morale” del mondo non si fosse gradualmente innalzata, probabilmente non ci accorgeremmo neppure di tanti episodi di violenza e li accetteremmo come normali. Non è possibile accettare come normale il fatto che alcune società musulmane siano oggi travagliate dalla violenza, fenomeno che sta generando un inarrestabile esodo, di cristiani come di musulmani, che sta privando molti di questi Paesi delle loro migliori risorse. La Fondazione Oasis non può né vuole ignorare il loro grido di dolore e quello di interi popoli, in Siria, in Iraq, in Nigeria, in Pakistan, ovunque il terrorismo infierisca. Non ci sono soluzioni facili, ma ci attende un inderogabile lavoro comune.