A vent’anni dall’11 settembre una conversazione con il professore afghano Mohammad Hashim Kamali, influente studioso di diritto islamico

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:05:06

Nato in Afghanistan, Mohammad Hashim Kamali si è laureato all’Università di Kabul e ha poi proseguito gli studi all’Università di Londra, ottenendo un dottorato in Diritto islamico e mediorientale. Dopo aver insegnato in Canada, si è trasferito in Malesia, dove è stato Professore di Diritto islamico all’Università islamica internazionale di Kuala Lumpur e dove ha fondato l’Istituto Internazionale di Studi Islamici Avanzati, che tutt’ora dirige. Rinomato studioso di diritto comparato e autore prolifico, da alcuni anni Kamali è regolarmente incluso nella lista dei 500 musulmani più influenti del mondo, stilata dal Centro Reale di Studi Strategici Islamici di Amman. Gli abbiamo chiesto la sua opinione sugli anniversari dell’11 Settembre, il ritorno del governo talebano a Kabul e il dialogo interreligioso.

 

Intervista a cura di Michele Brignone

 

 

Nel 2001, l’11 Settembre ha aperto un nuovo ciclo storico, segnato da quella che è stata definita “guerra al terrore”. Questo ciclo sembra essersi chiuso con il ritiro americano dall’Afghanistan. Qual è la sua valutazione su questi vent’anni, in particolare per quanto riguarda le relazioni tra l’Occidente e il mondo musulmano?

 

Il retroterra dell’11 Settembre va cercato nella dialettica post-coloniale tra eccessi occidentali e reazioni musulmane, in cui queste ultime hanno assunto la forma del fondamentalismo islamico e del risveglio islamico. E la storia tende a ripetersi. Gli attentati sono stati una conseguenza del risentimento musulmano. La contro-risposta occidentale è stata la guerra in Afghanistan, che è stata sbagliata e sproporzionata, con distruzioni e migliaia di bombardamenti e uccisioni ogni notte. E lo stesso è accaduto in Iraq.

 

Ma il mondo musulmano non è un monolite. Alcuni Paesi, come quelli del Golfo o l’Egitto, hanno relazioni migliori con l’Occidente. Con altri, come la Turchia, il Pakistan e l’Afghanistan le relazioni sono più tese. Alcuni problemi, come la questione palestinese, continuano a rappresentare grossi ostacoli. Inoltre, il militarismo crescente ha peggiorato la situazione. In un contesto come questo il meglio che ci si può aspettare è che non si cada in aperte violenze.

 

Nello schema che ha appena delineato, i gruppi fondamentalisti e le loro risposte sono rappresentative delle società musulmane in generale?

 

No, sono una reazione al militarismo occidentale, ma non rappresentano l’Islam. Il problema è che fintantoché l’Occidente insiste nel suo militarismo, e i musulmani sono la parte più debole, si verificheranno queste reazioni spropositate: attentati suicidi, violenza, gruppi come Isis. Ma le società musulmane non accettano questa violenza, che è praticata da piccole minoranze. Crediamo nella pace e stiamo assistendo ad alcuni sviluppi da questo punto di vista. La maggior parte dei musulmani ha capito che le letture estremiste e radicali dell’Islam non sono una soluzione. L’idea di wasatiyya, la “via mediana della moderazione” nell’Islam, su cui ho scritto un libro, attira sempre più attenzione e sta guadagnando sostegno come alternativa a forme inutili di radicalismo. Penso ci sia un crescente senso di disaffezione verso movimenti come al-Qaeda, Isis e in generale tutti gli estremisti.

 

Da questo punto di vista la Primavera araba è stato un fenomeno interessante, perché ha portato alla luce una domanda di diritti fondamentali e buon governo. È questo che le società musulmane desiderano. Purtroppo la Primavera araba è fallita, anche se alcune persone, come Rashid Ghannushi, che su questo tema ha tenuto una conferenza al nostro istituto, sostiene che il processo non è chiuso e continuerà, anche se è stato momentaneamente interrotto.

 

Ha fatto riferimento alla Primavera araba. In effetti quando in Europa ci occupiamo o parliamo di mondo musulmano è soprattutto il mondo arabo-musulmano che abbiamo in mente. Come afghano che vive in Malesia, qual è il suo punto di vista sulle varie anime del mondo musulmano?

 

Credo che il centro si stia spostando. In Asia sudorientale, così come in Turchia, stanno emergendo voci significative. Oggi noi guardiamo verso l’Indonesia molto più di quanto facessimo in passato, anche se il mondo arabo, in quanto culla dell’Islam, continua a considerarsi il centro del mondo musulmano. Certo, la storia è la storia e i principali luoghi islamici si trovano in Arabia Saudita. Questo significa che il mondo arabo è e continuerà ad essere importante, ma stanno emergendo altri centri. Inoltre la demografia conta: in Asia meridionale i musulmani sono 600 milioni, quasi 300 milioni in Asia sudorientale, mentre nel mondo arabo sono meno di 400 milioni e questo avrà delle implicazioni politiche e culturali.

 

Torniamo al suo Paese d’origine, l’Afghanistan. Come afghano, e non solo come studioso musulmano, cosa prova in questo momento?

 

Accolgo con favore il ritiro americano. Gli americani non hanno portato la pace e il buon governo che avevano promesso invadendo l’Afghanistan dopo l’11 Settembre. Hanno parlato di questi valori, ma erano parole vuote. In realtà la sicurezza nel Paese è andata di male in peggio, il divario tra ricchi e poveri si è allargato e il commercio di oppio ha prosperato. Inoltre, la partenza degli americani significa che la guerra è finita, e questo è positivo. Le dichiarazioni iniziali dei Talebani sulla necessità di istituire un governo inclusivo e preservare del diritto delle donne all’istruzione e al lavoro sono incoraggianti, ma un conto è quello che dicono e un altro quello che faranno, e questo resta da vedere. Nella loro prima esperienza di governo, dal 1996 al 2001, i Talebani hanno realizzato due risultati: hanno riportato l’ordine, anche se con modi brutali, e sradicato l’oppio. Ora hanno dichiarato gli stessi obiettivi, ma negli ultimi vent’anni la società afgana ha fatto dei passi avanti, specialmente in termini di libertà di espressione e diritti delle donne, e vedremo come i Talebani si comporteranno con questi cambiamenti.

 

Come promotore e teorico della “via mediana della moderazione”, non la preoccupano i metodi e l’interpretazione dell’Islam dei Talebani?

 

Penso che siano persone spietate in tempi spietati. In ogni caso sì, sono preoccupato o lo divento di più ogni settimana che passa.

 

Negli ultimi vent’anni, anche in risposta all’ascesa del terrorismo, ci sono state molte iniziative di dialogo interreligioso. Lei stesso ha partecipato ad alcune di esse, per esempio come firmatario de “Una parola comune tra voi e noi”. Che cosa si aspetta dal dialogo interreligioso?

 

Il dialogo interreligioso può aiutare la comprensione reciproca, anche se ha alcuni limiti e devo confessare che le mie aspettative non sono molto alte. Abbiamo bisogno di riconoscerci per quello che siamo, ma non credo che il dialogo interreligioso possa penetrare nella dottrina religiosa. Dobbiamo piuttosto usare la comprensione che esso produce per obiettivi pratici. Inoltre il dialogo può far bene alle relazioni intra-musulmane, per esempio per migliorare le relazioni tra sunniti e sciiti.

 

Più di recente si sono verificati importanti sviluppi in questo ambito, come lo storico incontro tra Papa Francesco e il Grande Imam di al-Azhar, che insieme hanno scritto e firmato il documento sulla Fratellanza umana. Dalla Malesia, che cosa ha significato per lei questo evento?

 

Grazie alla sua personalità, Papa Francesco ha trasmesso in tutto il mondo un’immagine positiva. È uno che fa e non si limita a parlare, ed è per questo che il documento è stato firmato. Mettere insieme due figure così non era facile, ma è successo. Incontri simili sono importanti, e danno speranza per ulteriori progressi.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
 
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