Tra desiderio di conoscere e volontà di confutare è dal 1143 che l’Europa si misura con il testo sacro dell’Islam. Storia di un percorso a ostacoli che è passato anche, e in alcune epoche soprattutto, dall’Italia

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:00:01

Intervista a Roberto Tottoli, a cura di Martino Diez

 

Martino Diez - “Il Corano europeo” è il titolo del progetto di ricerca Synergy che a fine 2018 ha vinto un finanziamento di circa 10 milioni di euro dallo European Research Council. Tu sei il principal investigator insieme a Mercedes García-Arenal, John Tolan e Jan Loop. Quali sono gli obiettivi principali della vostra ricerca?

 

Roberto Tottoli - Il nostro scopo è indagare la presenza e gli usi del Corano nella storia europea dal periodo medioevale, partendo dalla metà del XII secolo, epoca della prima traduzione latina, e arrivando fino agli inizi del XIX secolo, quando la nascita del cosiddetto orientalismo scientifico segna l’ingresso in un’epoca nuova. Attraverso competenze diverse ci proponiamo di vedere come il Corano sia stato tradotto, dove abbia circolato e come sia stato usato, sia con intenti polemici sia come modello estetico e poetico. Esiste un filo storico di presenza/assenza del libro sacro islamico nella storia intellettuale d’Europa: un filone chiaramente non centrale, ma comunque molto importante. Il progetto è cominciato ad aprile di quest’anno e durerà sei anni. Vi prenderanno parte più di venti studiosi: dodici ricercatori post-dottorato e una decina di dottorandi.

 

MD - Quanto è stato letto il Corano in Europa? Si ha già un’idea di quanto circolasse o è ancora troppo presto per pronunciarsi?

 

RT - Qualche dato c’è già, anche se un’idea più chiara l’avremo naturalmente alla fine. In Europa il Corano in originale è circolato in misura abbastanza ridotta almeno fino alla seconda metà del XVII secolo. Quello che sappiamo dai primi studiosi di lingua araba è che non solo il numero di manoscritti era limitato, ma anche che era difficile accedervi. Il libro sacro islamico infatti era visto con sospetto, un “frutto proibito” come lo ha definito Alastair Hamilton. Per esempio, diversi studi ci informano che le copie del Corano in arabo erano considerati pezzi da collezione nelle Signorie italiane del XV secolo, oggetti ambìti ma tenuti sotto chiave. Le cose cambiano dalla seconda metà del XVII secolo con il regresso della presenza ottomana dopo il fallito assedio di Vienna nel 1683. La nuova situazione nei Balcani e nel Mediterraneo orientale consente al mondo europeo uno sguardo più sereno. Poi nel XVII secolo la presenza diplomatica soprattutto francese e inglese in Oriente permette un flusso di materiali che arricchiscono sensibilmente le biblioteche del Continente.

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Per quanto riguarda invece le traduzioni del Corano in latino, la più antica, commissionata da Pietro il Venerabile e completata da Roberto di Ketton nel 1143, circolava in una decina di copie manoscritte. In realtà si trattava più di una parafrasi che di una traduzione, anche se analisi recenti hanno mostrato che alcune espressioni, finora lette come veri e propri errori, potrebbero essere viste come un tentativo di fedeltà alla prosa latina del suo tempo. Ciò non toglie che qualche cosa non torna: i capitoli del Corano sono più del numero canonico, alcuni passi sono elusi… Dopo l’introduzione della stampa, la traduzione voluta da Pietro il Venerabile fu riprodotta in Svizzera nel 1543 dall’umanista e teologo riformato Thedor Bibliander. Da quel momento essa conosce una certa diffusione, con un mercato estremamente variegato: per dire, Michele Serveto, l’antitrinitario spagnolo giustiziato a Ginevra per ordine di Calvino, aveva il Corano tra i suoi riferimenti. Nel 1547 usciva a Venezia una traduzione italiana, attribuita – ma ora sappiamo che non è così – ad Andrea Arrivabene. C’è insomma tutto un mondo da scoprire; un mondo di circolazione ridotta ma di usi estremamente diversificati.

 

MD - Riflettendo sul tema mi sono venuti in mente tre atteggiamenti verso il Corano nella cultura europea premoderna, che si possono forse riassumere in tre verbi. Confutare; integrare (come fa Niccolò Cusano cercando di dimostrare che il Corano non è incompatibile con la Rivelazione cristiana); oppure editare, cioè adottare un atteggiamento più spassionato, volto a farne conoscere i contenuti. Ti pare che questa tipologia abbia senso?

 

RT - Sì, mi sembra che funzioni, nel senso che evidenzia quali sono le principali disposizioni che hanno accompagnato la presenza del Corano in Europa. La confutazione e l’abito polemico sono sicuramente gli atteggiamenti dominanti. E tuttavia c’è anche un desiderio di conoscere, di capire meglio. Qui bisogna fare attenzione: la maggior parte degli studiosi si trovava a proprio agio nella polemica, vi si riconosceva sinceramente. Però in molti di essi si vede crescere in parallelo anche un interesse filologico e una ricerca di oggettività. Ludovico Marracci, l’autore della prima traduzione latina completa, uscita a Padova nel 1698, ha dedicato trenta o quarant’anni della sua vita allo studio del Corano. In lui, che apparteneva a un ordine religioso, la volontà di confutazione è importante, ma va di pari passo con il desiderio di rigore filologico. Per larghi tratti di storia europea, il veicolo della confutazione fu anche quello che permise la pubblicazione di studi e traduzioni altrimenti malvisti.

 

Le cose cambiano nel XVI secolo quando in qualche modo tramonta il modello di Niccolò Cusano e si assiste alla contesa fra comunità riformate e chiesa cattolica. Nella polemica interconfessionale, l’altro islamico e i contenuti del Corano vengono spesso impiegati, sia per sostenere che l’avversario cristiano è molto simile a quello che è scritto nel Corano o all’Islam, sia, forse più sorprendentemente, per cercare nel Corano argomenti a favore della propria posizione dottrinale. Per esempio, parlando di temi più filologici che dogmatici, nel XVII secolo la discussione sul valore della vocalizzazione del testo ebraico masoretico viene accompagnata da un’analisi dei manoscritti coranici disponibili.

 

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E poi c’è la questione affascinante di editare o tradurre il testo arabo, che accompagna la storia europea già dalla seconda metà del XV secolo, anche se il progetto richiederà diversi secoli per realizzarsi, di fatto fino all’edizione curata da Gustav Flügel nel 1834. Già nel Quattrocento passa infatti il concetto – approvato anche in vari concili – della necessità di disporre di una traduzione più fedele del Corano, in modo da conoscere meglio ciò che l’avversario dice sull’altra sponda del Mediterraneo. Con la stampa a caratteri mobili, sorge anche la tipografia orientale e in questo contesto emerge subito l’idea che la conoscenza dell’arabo si possa dimostrare al massimo grado studiando ed editando il Corano. Nonostante le difficoltà dell’impresa – perché, come dicevo, il numero limitato di testi a disposizione creava non pochi problemi – il Corano a stampa muove i suoi primi passi non nel mondo islamico, ma in Europa, più precisamente a Venezia nel 1537 con il tentativo, prematuro, di Paganini. Le altre stampe famose saranno poi quella di Abraham Hinckelmann ad Amburgo nel 1694 e soprattutto di Ludovico Marracci a Padova nel 1698 (testo arabo e traduzione latina), che precedono entrambe le edizioni russe di Kazan’ del diciannovesimo secolo.

 

Ma gli studiosi che lavorano a un’edizione del Corano in arabo sono in realtà ben più numerosi. La maggior parte però fallisce: per ostacoli tecnici come la mancanza di caratteri tipografici o anche per un semplice fatto biografico: i grandi arabisti, come l’olandese Erpenius, muoiono perlopiù abbastanza giovani, intorno ai quarant’anni. Marracci in un certo senso fa caso a sé. È morto a 88 anni e ha passato gli ultimi venti a cercare di vincere le resistenze ecclesiali alla stampa. È quindi indubbio che se riesce a coronare il suo lavoro decennale, è anche perché vive più a lungo degli altri.

 

MD - A proposito di Maracci, nel 2012 sono stati scoperti gli appunti preparatori e le diverse stesure della sua traduzione. Tu li hai studiati a fondo. Che impressione te ne sei fatto? Dal punto di vista della qualità, come valuti il suo lavoro? Ed è vero che poi la traduzione inglese di George Sale nel 1734 è molto più dipendente da Marracci di quanto l’autore fosse disposto a riconoscere?

 

RT - Partiamo dalla seconda questione. È indubbio che Sale dipenda da Marracci, lo si vede dalle fonti in arabo che cita nel suo testo. In base alle mie conoscenze e confrontandomi con altri esperti, posso dire con sicurezza che la traduzione di Marracci è la prima a non presentare errori grossolani o fraintendimenti ed è logico che Sale vi abbia attinto.

 

La variabilità delle quattro versioni che sono conservate in manoscritto, più l’edizione a stampa, attesta invece un lungo percorso di ripensamento stilistico. Marracci fa una prima traduzione che guarda allo stile latino, filologicamente esatta, ma che si allontana dall’originale. Revisione dopo revisione approda a una resa finale che è stato criticata da alcuni come “latino arabizzato”.

 

MD - È interessante, perché anche Franz Rosenthal nella traduzione della Muqaddima (che comunque non è un testo sacro!) spiega come all’inizio avesse cercato di forzare la prosa di Ibn Khaldun per ottenere una versione propriamente inglese ma, procedendo nel lavoro, era passato ad arabizzare l’inglese.

 

RT - Esattamente come Marracci. Lui prende sempre più cognizione della letteratura esegetica e quindi anche nelle scelte interpretative si muove in quella direzione. Il suo percorso è l’inverso di quello che si potrebbe immaginare, ovvero di partire da una traduzione letterale e poi rielaborarla.

 

MD - Tornando al progetto, se l’estensione temporale è chiara, quali sono i limiti geografici che vi siete dati?

 

RT - Questa è una grossa questione, che è anche emersa durante il colloquio finale davanti alla commissione di valutazione. Un primo punto di discussione è stato relativo al ruolo della Spagna, certificato anche dai lavori di Mercedes García-Arenal; un ruolo inizialmente centrale e che va pian piano scemando dal XVI secolo con l’espulsione dei moriscos. Una seconda questione era legata al peso da dare all’Europa orientale e ai Balcani. Nel nostro progetto abbiamo preso in considerazione soprattutto l’Europa meridionale e settentrionale, pensando ai Paesi cattolici (Italia, Spagna e Francia) e protestanti (Germania, Paesi Bassi, Regno Unito e Scandinavia). Abbiamo trovato qualche riferimento al Corano, perlopiù di tipo polemico, in alcune produzioni in lingue slave provenienti dai Balcani, ma per quanto riguarda l’Europa sud-orientale, va considerato che molte zone, anche quelle più attive in termini di circolazione di manoscritti coranici, erano limitrofe all’impero ottomano o sotto diretta dominazione turca. Il nostro interesse principale invece riguardava la sfida intellettuale e culturale che la presenza del Corano poneva nell’Europa continentale. Per questo ci siamo messi nella prospettiva di indagare questi temi fuori dai territori musulmani, o comunque in zone in cui la conoscenza del Corano era relativa. La scelta è stata discussa, soprattutto dai commissari provenienti da queste zone. Tuttavia la centralità del Corano nei Balcani fra il XV e il XVII secolo è evidente e non serve un grande sforzo per provarla. Si entra invece in una logica completamente diversa quando si presta attenzione alle zone di confine.

 

MD - Insomma, possiamo dire che il testo completo del Corano è entrato nella cultura europea occidentale da appena 300 anni?

 

Corano Flugel [The Saleroom].jpgRT - Sì, e per di più si tratta di un Corano particolare, un Corano europeo appunto. Su questo argomento c’è un aneddoto curioso. Quando Gotthelf Bergsträsser, il celebre islamologo tedesco, arriva ad Alessandria d’Egitto nel 1930 con l’edizione Flügel in tasca, il testo gli viene subito sequestrato, poiché un infedele non dovrebbe possedere una copia del Corano. Dopo debita consultazione di al-Azhar, il libro gli viene però restituito con la motivazione che quella copia non è il Mushaf, cioè la versione canonica del Corano: ha dei caratteri particolari e presenta una divisione in versetti anomala. Le autorità egiziane se la cavano insomma dicendo che l’edizione Flügel è la stampa europea di un testo che è al 99% il Mushaf, ma che non si identifica con esso. L’aneddoto evidenzia bene come la storia della presenza del Corano in Europa presenti dei caratteri particolari. E l’aspetto interessante è proprio questo: sebbene non abbia una grande diffusione, il Corano che viene utilizzato in Europa fino al Novecento è, in varie misure, diverso rispetto al Corano conosciuto nel mondo musulmano. Per dire, Michele Serveto ha con sé la traduzione di Pietro il Venerabile stampata da Bibliander. È quindi un testo riconducibile all’originale arabo, ma non identico a esso.

 

MD - E sul piano personale che cosa speri di scoprire alla fine di questo progetto?

 

RT - Farei una distinzione fra ciò che ci si può aspettare nei diversi centri di ricerca in base alle differenti specializzazioni. Noi quattro investigatori principali, avendo competenze diverse, abbiamo anche compiti diversi.

 

Se penso agli studi degli ultimi vent’anni condotti in Europa sull’Islam, sulla figura di Maometto e sul Corano, ciò che è mancato è la combinazione di competenze molteplici. Quello che io personalmente spererei di trovare nella mia sede, all’Orientale di Napoli, è la possibilità di ricostruire la circolazione dei materiali che hanno fornito basi di conoscenza in vari punti d’Europa. Qualcosa sappiamo, ma è ancora molto poco, nel senso che le tracce presenti in manoscritti, traduzioni o libri a stampa non sono state sufficientemente studiate. A Napoli indagheremo principalmente la circolazione materiale di questo sapere, la sua genealogia e il suo utilizzo retorico, con un’attenzione particolare al testo arabo. Ma penso che anche gli altri centri di ricerca, magari concentrandosi maggiormente sulle traduzioni, cercheranno di farsi un’idea più precisa di ciò che tutta una serie di studi adombrano più che dimostrare.

 

Concretamente poi mi aspetto una mappatura effettiva di tutti i materiali disponibili. Molti sono ancora inediti. Basta pensare che i manoscritti di Marracci sono emersi nel 2012, mentre nel 2015 mi è capitato di scoprire il lavoro di Johann Zechendorff, uno studioso di lingue semitiche che nel 1632, nel cuore della Sassonia, si confezionò un manoscritto trascrivendo il Corano in arabo e traducendolo in latino. Pubblicò due libretti di pessima qualità, lamentandosi del fatto che aveva pronta tutta l’opera, ma non trovava nessuno che lo stampasse. Questo testo è saltato fuori, non si sa come, alla Dar al-Kutub al Cairo! Ancora, mi viene in mente il caso della traduzione in latino attribuita al Patriarca di Costantinopoli Cirillo Lucaris (m. 1638) su cui ho lavorato qualche anno fa. L’edizione si basava su due testimoni, ma confrontando i manoscritti sono comparse altre tre copie: una era schedata come una traduzione latina anonima nel catalogo di Berlino sotto i manoscritti orientali. Insomma, c’è ancora tantissimo lavoro da fare per arrivare a una genealogia e una storia della vita intellettuale europea in relazione al Corano.

 

30 settembre 2019
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