I cambiamenti nella pratica religiosa e nella percezione identitaria di società investite dalle migrazioni. Intervista a Maurizio Ambrosini, professore di Sociologia dell’Università degli Studi di Milano

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:37:18

Nel paesaggio europeo e italiano si assiste a dei grandi mutamenti dovuti a un inedito pluralismo religioso: mobilità, sincretismo, conversioni o riscoperta delle proprie radici dimenticate. Fermenti che mettono in moto una nuova riflessione sul rapporto tra spazio pubblico e religioni e sull’esigenza di un’attenzione nuova verso il fenomeno delle immigrazioni e ciò che comportano. Quali sono stati i cambiamenti, gli elementi di novità e le sfide portate dall’immigrazione nelle società Europee e italiana in particolare dal punto di vista religioso? Credo che le migrazioni nel paesaggio religioso italiano e europeo abbiano introdotto una serie di elementi significativi dal punto di visto religioso. Uno è un senso inedito di pluralismo religioso: le nostre società - quella italiana ma anche altre - si sono lungamente percepite come religiosamente omogenee e la scoperta dell’immigrazione è stata anche la scoperta del pluralismo religioso che, se lo vediamo proiettato nel futuro, vorrà dire che nell’avvenire prossimo noi avremo degli italiani musulmani, degli italiani buddisti, degli italiani induisti e questo cambia anche il senso stesso dell’italianità. Perché le nazioni si sono costituite anche intorno a una certa idea di omogeneità culturale e religiosa della popolazione. In secondo luogo, hanno messo in evidenza inedite forme di mescolanze e di sincretismo perché la presenza degli immigrati mette in movimento delle dinamiche di mescolanza dal punto di vista culturale e religioso. C’è una bella ricerca in un sobborgo inglese di Londra in cui i ricercatori hanno scoperto le famiglie indiane e pachistane che facevano l’albero di Natale e così dall’altra parte ci sono italiani che si incuriosiscono e si avvicinano ad altre tradizioni religiose, per esempio il protestantesimo evangelicale, anche mediante la testimonianza e la presenza di immigrati che appartengono a queste tradizioni religiose. In terzo luogo, c’è un fenomeno di mobilità delle appartenenze religiose: le conversioni. In vari paesi la conversione è un modo per le minoranze di assimilarsi. In Italia lo vediamo un po’ sugli albanesi che sono la componente immigrata dove c’è la maggiore domanda di battesimi, quindi di passaggio alla Chiesa Cattolica, per altro aspetto per esempio mediante i matrimoni: ci sono persone della maggioranza che si convertono verso delle religioni minoritarie. Da questo punto di vista si parla molto di conversioni verso l’islam ma si tratta di una parte minoritaria di fenomeni più vasti. Sia i matrimoni religiosi sia le conversioni vanno piuttosto verso l’assimilazione e quindi verso la maggioranza. Come percepisce la società nel suo insieme queste nuove presenze religiose? Quali sfide pongono e quali opportunità offrono? Il fenomeno socialmente e politicamente più significativo è la riscoperta e la rivisitazione della religione tradizionalmente maggioritaria come simbolo dell’identità culturale e vediamo molto il fenomeno che in sociologia religiosa viene definito appartenere senza credere (belonging without believing) cioè riscoprire simboli come il presepio o il crocifisso nelle aule come simboli di italianità, come simboli della “nostra” cultura anche da parte di persone e componente sociali che non esprimono una credenza, una pratica religiosa esplicita. In un certo senso la religione diventa un modo per dare una forma a una tradizione culturale che si vuole difendere. E paradossalmente in questo modo la religione diventa uno strumento per escludere anziché uno strumento per aprire e accogliere. Certamente le migrazioni sono una sfida per l’autopercezione delle società occidentali in Europa come società secolarizzate, meno vero per gli Stati Uniti dove i migranti si inseriscono in un paesaggio sociale molto più intriso di forme religiose di vario tipo e quindi anche l’accomodamento nei confronti delle loro domande religiose è meno problematico. Quindi il profilo così conflittuale della presenza religiosa degli immigrati è prevalentemente europeo e molto legato all’arrivo di immigrati musulmani. Qui si possono dire tre cose: i musulmani mettono in questione la separazione tra spazio pubblico e spazio privato, tra istituzioni politiche e istituzioni religiose che era, ed è, un aspetto considerato acquisito nelle società europee - poi è meno vero nella pratica. Infatti, secondo punto: gli immigrati mettono in questione l’identificazione della nazione con una certa tradizione religiosa. Le nazioni europee sono prevalentemente nazioni etniche, oppure nazioni etnicamente omogenee su base regionale (il caso tedesco, per esempio), e quindi i migranti musulmani sono un problema perché questa religione, storicamente “altra” e vissuta come avversaria e ostile, viene a radicarsi in un paesaggio religioso presunto omogeneo o in cui la dialettica era una dialettica tra istituzioni secolari e una (sola) confessione religiosa. Un terzo aspetto è che gli immigrati musulmani in Europa, a differenza degli Stati Uniti, sono classi povere, classi lavoratrici, spesso ghettizzate nelle periferie e quindi c’è anche una sovrapposizione tra minorità religiosa e subalternità sociale e questo rende più difficile l’accomodamento e dall’altra parte è un fattore che contribuisce alla radicalizzazione. Dove sono le concentrazioni musulmane e dove prendono piede le predicazioni fondamentaliste? Nelle periferie povere delle grandi città. A che bisogni rispondono le nuove forme di religiosità praticate dagli immigrati in Italia? Storicamente gli immigrati si sono portati dietro le proprie religioni e hanno spesso - esempio tipico proprio gli Stati Uniti - ricostruito localmente forme di aggregazione su base religiosa, certo adattandole al contesto. Ci sono ricerche molto interessanti su nuove religioni - nuove per i contesti riceventi - in cui escono titoli del tipo “Siamo migliori indù qui”, in cui l’appartenenza religiosa viene recuperata, rielaborata, rivissuta proprio nel confronto con società culturalmente religiosamente estranee. Si può dire da questo punto di vista che la migrazione è un’esperienza teologizzante, quindi un’esperienza che porta a farsi delle domande religiose: perché io sono indù o buddista o, un tempo, cattolico in un contesto in cui tutti gli altri intorno a me non lo sono e anzi mi bersagliano per la mia appartenenza minoritaria? Quindi l’esperienza migratoria è, in genere, certamente esposta a pressioni assimilazioniste, ma, per contro, è anche un’esperienza in cui se c’è un grado sufficiente di tolleranza e di possibilità di espressione, i migranti tendono a riscoprire e riproporre le loro tradizioni e identità religiose. Questo è particolarmente vero quando entrano in campo i figli, quindi nella trasmissione della propria identità culturale, quando i genitori migranti cominciano a domandarsi: ma noi che cosa dobbiamo da trasmettere ai nostri figli? Che cosa c’è del nostro passato che dobbiamo proiettare nel nostro futuro da loro rappresentato? In che misura dobbiamo accettare l’insegnamento che viene loro impartito nelle scuole di questo Paese dove viviamo? Ecco, non è un caso, proprio pensando all’Islam, che i conflitti, e anche la stessa domanda di libertà di culto, è venuta fuori non con i primi insediamenti che erano, in genere, di lavoratori celibi, percepiti e autopercepiti come temporanei. Ma la domanda è venuta fuori quando hanno messo le radici le famiglie, quando sono nati i figli, quando hanno cominciato ad andare a scuola. Quindi è abbastanza interessante che non sia stato il primo impatto quello che si è rilevato più problematico, ma, potremmo dire, il radicamento e la trasformazione di immigrati temporanei in minoranze insediate.