Non ha ancora cancellato tutti i segni di umanità la violenza che imperversa da anni in Siria, riducendo il Paese a cumuli di macerie fumanti. Roberto Simona di Aiuto alla Chiesa che Soffre l’ha visitata recentemente e racconta degli incontri avuti con chi soffre, è ferito, ma resiste e spera ancora.

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:10:22

Più di 250mila morti secondo le stime dell’ONU, almeno 11mila bambini uccisi, 5 milioni le persone che hanno trovato rifugio all’estero, 7 milioni gli sfollati interni. Sono cifre parziali, che giorno dopo giorno, occorre aggiornare verso l’alto. La Siria è teatro di una persecuzione trasversale, che tocca tutti, non solo i cristiani. Che siano sunniti, alawiti o sciiti, tutti i siriani sono vittime di violenza e di odio. Sono appena rientrato da questo Paese che amo. Il rapimento nel 2013 del giornalista Domenico Quirico e le parole che ha usato, dopo la sua liberazione, per descrivere la sua esperienza mi avevano profondamente scosso: «Sono stato nel Paese del Male», aveva detto una volta tornato a casa. Alle persone che hanno fatto la terribile esperienza del rapimento, incontrate personalmente, non ho potuto che offrir la mia empatia e solidarietà. È così sempre nelle terre di conflitti: accade di dover fare i conti anche con il lato più oscuro dell’essere umano. La Siria è solo l’ultimo dei Paesi che ho visitato nel corso degli ultimi venticinque anni e posso testimoniare che paradossalmente è in simili contesti di violenza che si colgono i gesti più impressionanti di umanità. Un’umanità capace di speranza anche in condizioni di angoscia e paura estrema, che non conosce barriere religiose e tocca tutti indistintamente, cristiani e musulmani. La paura di saltare in aria mentre in auto si viaggia a passo d’uomo imbottigliati nel traffico del centro di Damasco. L’angoscia di vedere i propri bimbi sepolti sotto le macerie della loro scuola. Ma soprattutto il terrore dell’ISIS che aleggia ovunque e accomuna tutti. La barbarie dei suoi crimini diffusa attraverso i mezzi di comunicazione genera il panico generale. Soprattutto all’imbrunire la minaccia si fa palpabile perché i jihadisti dell’ISIS spesso si trovano solo a qualche decina di chilometri dai villaggi e dalle zone controllate dal governo. Isis: giovani barbuti dai capelli lunghi Isis suscita il medesimo sgomento presso Mohammed, che vive nel villaggio di Harween, e presso Samer, di Damasco. Identica in tutti è la paura che i suoi esponenti irrompano nei loro quartieri, entrino nelle loro case, uccidano o convertano con la forza. Uguale per tutti è il rischio di vedere le proprie figlie rapite e violentate. Tutti hanno le valigie sempre pronte. Si racconta di persone pronte a farsi saltare in aria con le bombole della cucina a gas, piuttosto che cadere nelle mani dell’Isis. Ibrahim abita in un villaggio presso Nabek, dove si è rifugiato dopo aver perso tutto a Raqqa, la provincia in cui è cresciuto e dove ha costruito la sua fortuna vendendo e comprando appartamenti. È scappato, abbandonando tutto, dopo aver invano tentato di negoziare la liberazione del figlio di un suo vicino cristiano, che era stato rapito. Ma con l’Isis non si negozia: i suoi capi sono stranieri e non hanno alcun legame con il territorio. Ibrahim si è trovato a contrattare con un capo afghano che parlava un arabo a lui sconosciuto. L’Isis non è unicamente composto da jihadisti che proclamano un Islam fondamentalista. Nel centro di Qaryatayn vi sono diversi giovani del luogo che ne fanno parte: le lunghe barbe senza baffi e i capelli sulle spalle li distinguono da coloro che aderiscono ad altri gruppi, come quello di Jabhat-al-Nousra. Youssef ha lasciato la scuola a dieci anni, da allora ha tirato avanti con lavoretti che gli permettevano di comprare sigarette e fare il pieno di benzina per la sua moto rubata chissà dove. Entrato a fare parte dell’Isis ora guadagna soldi “veri” che gli hanno pure permesso di guadagnare il rispetto dei suoi compagni di strada. Questa è Isis per Youssef che prima di allora non aveva mai – secondo sua madre – frequentato né la moschea né alcun gruppo sospetto. Ho incontrato sua madre in quello che resta della loro casa di pochi metri quadri alla periferia della città. È scoppiata a piangere quando ha iniziato a parlare di suo figlio: «Il lavoro, qui al villaggio, ci sarebbe – ha detto tra le lacrime – ma i giovani di oggi non vogliono più portare al pascolo le greggi. Noi possediamo più di trenta pecore!». Se tanti giovani non vogliono più ascoltare i genitori, è anche vero che molti di loro hanno subito ingiustizie che non hanno più potuto né voluto tollerare. La speranza sorta in seguito alla “primavera araba” più che di cambiamenti veri è stata foriera di illusioni. Secondo il direttore di una scuola di Tartous, una parte della popolazione era convinta che anche qui sarebbe successo quanto avvenuto in Egitto e Tunisia. Spinte da questo ideale, nei villaggi e nei quartieri sunniti le persone sono scese in strada per manifestare. Ma leader resi ciechi da scopi personali hanno guidato il popolo verso la catastrofe. «Oggi – spiega il direttore della scuola – la Siria è guidata da emiri e capi clan che hanno i soldi per ingaggiare i combattenti per la guerra». Una ragazza di Homs, paralizzata dalla vita in giù per una bomba esplosa davanti alla sua scuola, descrive così la situazione: «Oggi qui tutti si odiano e si uccidono a vicenda». E questo odio diffuso si avverte concretamente: i cristiani si trovano schiacciati tra sunniti e alawiti: non è facile assumere un atteggiamento imparziale nei confronti di un conflitto quando se ne è vittime e si è costretti a rifugiarsi in un altro villaggio o all’estero. Sono i più poveri a rimanere nelle zone di conflitto, perché non hanno i soldi neppure per un biglietto del bus per Aleppo, Idlib, Homs o altre destinazioni conquistate dai ribelli. O i più coraggiosi, che rifiutano di andarsene. Come Padre Franz, che ha dato la vita per restare nella città vecchia di Homs insieme alla popolazione civile, asserragliata in casa per mesi. Mi soffermo a lungo in preghiera sulla sua tomba. Una ragazza mi mette in mano una fotografia di Padre Franz con la scritta in arabo ila al-amam: sempre avanti. Se ha scelto di rimanere qui è proprio per questo popolo generoso, ricco di umanità che ha amato con tutto il suo cuore. Numerosi i gesti di umanità Nell’attuale contesto di guerra questa umanità si traduce in innumerevoli gesti ed altrettante iniziative concrete. A Damasco ho incontrato Padre Amer, che vive la sua vocazione circondato da ragazzi e ragazze tra i 24 e i 30 anni, cristiani e musulmani, alcuni rientrati dall’estero per portare avanti progetti concreti di solidarietà. Come la palestra recentemente aperta, nel cuore di Damasco, dove soprattutto le giovani donne hanno l’opportunità di praticare sport diversi. O il coro che Aisha, per esempio, frequenta ogni settimana e che costituisce l’unico momento di distrazione dalle bombe che cadono, soprattutto di notte, alla periferia di Damasco, verso Joba. Padre Amer è anche parroco di una parrocchia situata a un’ora dalla capitale, a Katana. Quest’ultima conta 200.000 persone, tra cui moltissimi giovani per i quali l’unico passatempo è riunirsi a gruppetti sui marciapiedi. Quest’estate i ragazzi di Padre Amer si attiveranno per proporre momenti di riflessione sui temi più disparati: dalla cultura allo sport, dalla politica alla religione. Tema questo divenuto “interessante” solo ultimamente. Prima i giovani erano piuttosto indifferenti… A Qaryatayn ho rivisto anche Padre Jacques, originario di Aleppo. Nel cuore e nella mente mi era rimasto il ricordo del suo grande impegno per mantenere in vita il monastero di Mar Elian e la zona circostante. Orgoglioso mi aveva indicato con un largo gesto della mano gli alberi da frutta che aveva piantato nel deserto per dare cibo e lavoro a quanti vivevano nei pressi del monastero. Quando sono andato a trovarlo, ho trovato gli alberi cresciuti e Padre Jacques immerso in nuovi progetti, impegnato a lottare a mani nude contro la guerra. Per lunghi mesi ha ospitato più di 100 famiglie cristiane e musulmane dentro e fuori le mura del convento. Un tempo di enorme difficoltà che ha permesso a queste famiglie, per la prima volta, di conoscersi a vicenda, oltre gli steccati dell’appartenenza religiosa. Non mi aveva, però, neppure nascosto la sua preoccupazione per l’avanzata di Isis: «È importante continuare a investire soprattutto in questo momento – ha risposto alla mia preoccupazione. I progetti del monastero rappresentano un importante segnale di speranza e di pace per tutta la città. Incoraggia la gente a continuare a vivere il quotidiano». Pochi giorni dopo il nostro incontro ho saputo del suo rapimento per mano di Isis. Decisioni politiche irresponsabili della comunità internazionale e enormi interessi economici hanno contribuito a fomentare il fanatismo religioso in tutto il Paese e oltre i suoi confini. Fanatismo e violenza che possono essere disinnescati anche attraverso iniziative di questo tipo, che potrebbero anche apparire ingenue o inutili nell’attuale contesto apocalittico, ma che a ben vedere sono fondamentali per far uscire il Paese dal baratro in cui è precipitato: ila al-amam, sempre avanti!