L’esortazione a «ordinare il bene e proibire il male» ben riassume un principio fondamentale dei giuristi nell’Islam classico, perché esprime il valore della giustizia in tutta la sua ampiezza: legale, aritmetica e morale.

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Ultimo aggiornamento: 21/06/2022 09:42:54

«Rivoluzione politica», «Primavera araba»… questi titoli a effetto e un po’ imprudenti dei media occidentali hanno messo sotto i riflettori dell’attualità popoli che si credevano condannati all’immobilismo politico. Questa attualità ancora incompiuta può essere studiata sotto un profilo politologico o geostrategico. Tuttavia non è da sottovalutare quanto essa sia illuminata anche da un passato comune alle società musulmane e dai valori religiosi di cui la loro coscienza politica resta intrisa. Un lettore con una infarinatura anche minima di Corano e hadîth sa che la giustizia vi è onnipresente e che essa è come la parola d’ordine di questi due testi di riferimento del credente. Non c’è cosa, compresa la ricerca della salvezza, che non sia rappresentata con la metafora di uno scambio commerciale vantaggioso per l’uomo e quindi con una giustizia: questa vita può essere scambiata con l’altra, benché tra il credente e Dio il commercio sia ineguale (Cor. 73,20). Non c’è bisogno di insistere su questo punto poiché l’immagine si ritrova nel Vangelo. Il Corano si distingue forse per l’insistenza sulla metafora di una giustizia, questa volta giudiziaria, per rappresentare il destino delle anime nel Giorno del Giudizio, caratterizzato da una minuziosa ponderazione delle azioni individuali e da molti altri dettagli realistici: il tribunale, i suoi assessori, i guardiani del Paradiso e dell’Inferno, etc. 

Non ci soffermeremo però su questa giustizia religiosa ed escatologica. A proposito della sua manifestazione terrena, il lettore noterà semplicemente che la Rivelazione non dà una definizione generale di tale nozione, preferendo citare alcune illustrazioni pratiche che appartengono agli ambiti classici della giustizia: gli scambi commerciali, le sentenze, la virtù individuale. Tuttavia, nella mente degli ascoltatori della Rivelazione, una definizione era senz’altro implicita, dato che in alcuni punti la giustizia è menzionata senza riferimento a un’applicazione particolare, come se si trattasse di un principio generale: così in 5,8 («agite con giustizia – è la cosa più prossima alla pietà – e abbiate timore di Dio») e in 16,90 («Dio ordina la giustizia, la bontà, la liberalità verso i parenti e vieta la turpitudine, il male e la prepotenza»). Alla luce delle illustrazioni precedenti, è evidente che la giustizia in questione consiste nel non ledere in nessun modo ciò che è dovuto a ciascuno e rispettare i propri obblighi. In una parola, agire secondo il diritto, che è un insieme di regole, siano esse quelle della coscienza o quelle della società. 

La stessa constatazione può essere fatta in merito alla Sunna, che pullula di raccomandazioni dettagliate sul rispetto dei diritti altrui. Non abbiamo qui lo spazio necessario per citarne esempi caratteristici. Ci accontenteremo di un noto hadîth che figura nella maggior parte delle compilazioni canoniche: «La tua sposa ha un diritto su di te; allo stesso modo da’, a chiunque possa vantare un diritto, quanto gli spetta». Un’altra tradizione può tuttavia supplire alla lacuna riscontrata nel Corano: «Nessun torto subito né torto inflitto nell’Islam» (lâ darara wa lâ dirâra fî l-Islâm). Essa si ricongiunge alla definizione vista sopra e viene spesso invocata nel fiqh come massima generale, intervenendo in più di un ragionamento. 

Un Complemento del Monoteismo 

D’altra parte, questi versetti mostrano l’importanza della giustizia nell’Islam: essa è allo stesso tempo un comandamento e un complemento indispensabile del monoteismo. Nessun musulmano può affermare la fede autentica se non accorda alla virtù della giustizia il posto che merita. Lo dimostra un’analisi sommaria della nozione coranica di zulm, il termine che più si avvicina a ingiustizia, significando violenza arbitraria, oppressione, eccesso nel vizio, iniquità di ogni genere commesse soprattutto dai governanti. Come per altri termini prossimi (fisqi‘tidâ’isrâf…), il Corano fa rientrare in questa nozione la miscredenza e l’empietà, il kufr: la negazione di Dio e dell’aldilà, degli angeli, del profetismo, dei segni divini mandati agli uomini, il politeismo (per esempio Cor. 2,114; 31,171; 62,5). D’altra parte gli altri vizi denunciati dal testo sacro comportano anche una dimensione d’ingiustizia e d’incredulità, come a riprendere l’idea platonica che l’ingiustizia è anche disordine nell’anima, rifiuto di mettere le tendenze al loro posto, di dare a ciascuno ciò che gli spetta. 

Il tema della giustizia è centrale nell’Islam, al punto tale da essere emblematico del mondo islamico in quanto tale: esso si definisce come il territorio i cui abitanti hanno dei diritti e dei doveri e, di conseguenza, una «dimora della giustizia» (dâr al-‘adl), che li fa rispettare. Di questi diritti e doveri esso fa addirittura una scienza destinata più specificamente all’ordine sociale, il fiqh, che Abû Hanîfa, uno dei primi grandi giuristi, definisce precisamente come «‘ilm mâ lahu wa mâ ‘alayhi», letteralmente «la conoscenza di ciò che spetta al credente e di ciò a cui è obbligato». Così il musulmano del Medioevo ama contrapporre lo spazio in cui vive – in una dicotomia manichea e un po’ semplicistica, ma che dice quanto la nozione di diritto e di giustizia si trovi al cuore nella città islamica – al mondo non musulmano, designato come la «dimora della guerra» (dâr al-harb): un’espressione da intendere non, come a volte si crede, come il territorio in cui bisogna portare la guerra, ma come quello che, secondo interpretazioni ammesse, ignorando la legge di Dio, è fatalmente votato alla violenza, alla tirannia e ai conflitti. La sorte delle città empie, più volte citata nel Corano, non poteva che confortare i musulmani nella loro tranquilla sicurezza. 

Ma se questa giustizia è contenuta innanzitutto nel fiqh che lo Stato intende far rispettare, qual è il suo contenuto? Sappiamo che l’Islam è una religione legale; quindi esso comprenderà innanzitutto le disposizioni della legge religiosa: i “diritti di Dio” – ovvero i doveri di culto in prima approssimazione, ma anche le pene scritturali (hudûd), i diritti pubblici – e i “diritti degli uomini”. Per quanto riguarda questi ultimi, ciò che colpisce è che vi domina, come del resto nel diritto di altre culture, un senso morale informato all’esigenza di giustizia nel senso del diritto naturale. Ciò è vero finché quest’ultimo non contraddice la Rivelazione e a patto che non si riduca la nozione di diritto naturale, come sottolinea il giurista Alain Sériaux[1], alle regole stabilite in una sola cultura: qui come altrove si tratta di trovare nel fiqh ciò che è misura, conformità al senso del giusto, foss’anche relativo, storicamente datato, socialmente condizionato, per soddisfare equamente i diritti delle parti e dare a ciascuno ciò che gli spetta. Questo aspetto è particolarmente evidente nelle transazioni commerciali: è sufficiente elevarsi al di sopra della tecnicità che la giustizia assume nei trattati di fiqh, per scoprire che essa è interamente dominata da alcuni principi etici definiti dalla Rivelazione e in accordo col diritto naturale: gli scambi devono rispettare rigorosamente il principio di uguaglianza, gli impegni devono essere rispettati (pacta sunt servanda), l’alea eliminata. È questo principio che ha permesso al diritto moderno dei Paesi arabi di adattarsi alle nuove condizioni. 

Un Diritto Naturale Islamico?

Non sorprende quindi che i fuqahâ’ (giuristi musulmani) del Medioevo, riflettendo sulla loro disciplina, abbiano definito un diritto naturale che può essere definito islamico. La legge divina mira a garantire agli uomini, quaggiù, cinque diritti fondamentali: diritto alla vita, alla pratica della religione senza ostacoli, alla proprietà, a un lignaggio certo e al corretto esercizio della propria intelligenza. Proseguendo in questa direzione, essi conclusero che la sharî‘a nel suo insieme fosse soltanto un altro nome per la giustizia, comprendente i “diritti di Dio” e alcuni “diritti degli uomini”. Infatti, l’ijtihâd, lo sforzo di legiferazione compiuto nella comunità fin dal tempo dei Compagni [del profeta, N.d.T.], deve sempre cercare di proteggere ciò che è vantaggioso (al-maslaha) per il credente in questo mondo e nell’altro. Secondo una lunga schiera di giuristi, il mufti può arrogarsi il diritto di tutelare gli interessi dei credenti anche quando questi non siano enunciati esplicitamente nel Corano, visto che quest’ultimo non può averli previsti tutti. La sola condizione è che questi nuovi interessi non contraddicano la Rivelazione nella sua lettera o nel suo spirito. Questo spiccato senso dell’equità è particolarmente visibile nell’esercizio concreto dell’ijtihâd: esso deve infatti scongiurare, in diversi modi, le conseguenze funeste che un’applicazione troppo meccanica della logica interna del fiqh può comportare nella vita dei fedeli: la religione, amano ricordare i dottori della legge, è agio, non difficoltà, “gravame”. 

Ma lasciamo la giustizia generale per esaminarne le implicazioni sul terreno politico. Né per i dottori né per i filosofi ellenizzanti si trattava di esaminare la questione del regime ideale – ciò che del resto non significa che non sia necessario riproporla oggi. Non era loro compito analizzare, come invece fa Aristotele, i pro e i contro dell’oligarchia, della plutocrazia, della repubblica e della monarchia. Salvo poche eccezioni, tra cui Ibn Taymiyya, essi non potevano concepire a capo della comunità che un solo uomo, dal momento che questo aveva come missione quella di succedere al Profeta. Fu discusso il metodo di designazione e alla fine si decise di attribuire il potere, in nome di tutta la umma, a colui che prendeva il posto (khalafa, da cui khalîfa, “califfo”) dell’Inviato di Dio. Se tentiamo un confronto con i regimi moderni, si trattava di un contratto, per impiegare la terminologia politica, ma di un contratto sul quale in realtà il popolo aveva solo
simbolicamente voce in capitolo poiché l’essenziale era altrove: trasmettere debitamente l’eredità profetica, perpetuare il regno della Legge di Dio. Tale patto a prima vista potrebbe rimandare al fondamento moderno della legittimità del potere politico, ma in realtà non si tratta affatto della legge naturale come per Locke, e ancor meno di qualche autorità della volontà generale sui generis, cara a Rousseau.

Il sovrano fa risalire l’origine di questa legittimità a una delega di sovranità che solo Dio può conferire agli uomini, i quali non sono altro che agenti, i portavoce della Volontà divina. Siccome la Rivelazione è conclusa, almeno per i sunniti, il ruolo del capo si limitava a far applicare la sharî‘a, unica garante della pace civile, della felicità nella città e della salvezza per la comunità dei fedeli. In effetti, era questo il suo obbligo minimale, per così dire, ma anche il più importante. Il mancato rispetto o il disprezzo di tale obbligo fu causa di molte ribellioni che, dagli albori dell’Islam e durante tutta la sua storia, si proposero di castigare un governo “contrario al Libro di Dio e alla Sunna del Profeta”, sinonimo perciò d’ingiustizia. I dottori, pur chiudendo un occhio davanti alle trasgressioni dei principi e non incoraggiando queste rivolte, non potevano sconfessarle nei loro cuori. Così, il tema della legge ingiusta, tradizionale nella filosofia politica occidentale, non poteva porsi per la sharî‘a: la questione aveva senso solo per i decreti che il sovrano aveva il diritto di promulgare per le necessità del suo regno al di fuori della legge religiosa, ma non contro quest’ultima. 

Tale questione era così poco pertinente che gli ‘ulamâ’ non si fermarono a questa prima esigenza. Infatti, la funzione di vice-gerente del Profeta implicava anche il fatto di essere un credente modello, un giusto in tutta l’ampiezza della legge. Sul piano della condotta, una letteratura speciale detta «degli specchi per principi» gli ricordava con precisione le aspettative del suo o dei suoi popoli. Vale dunque la pena gettare uno sguardo veloce su questa letteratura. 

La cosa interessante è che questi autori ricordano ai sovrani che il loro dovere fondamentale è far regnare nello Stato la giustizia, concepita nei termini visti sopra, come sottolinea Ann Lambton: «La giustizia era la qualità suprema che dava al re il diritto di governare. [...] La corrente principale degli “specchi per principi” – e anzi del pensiero politico islamico medievale in generale – ha insistito sulla giustizia come fondamento per un governo retto»[2]. In virtù del contratto definito dai teologi, analogo al patto pre-eterno tra Dio e gli uomini (Cor. 7,172-173), i sudditi riconoscono la legittimità del sovrano e gli obbediscono fedelmente: in cambio si vedono riconoscere i loro diritti e la giustizia. In fondo, solo il sovrano giusto merita il nome di sovrano musulmano. «Un’ora di giustizia per un sovrano», amano ricordare questi autori, «vale più di sessant’anni di devozione». Questa giustizia significa innanzitutto far applicare la sharî‘a, infliggere ai colpevoli le pene legali (hudûd) e amministrare le altre pene, extra-coraniche, con discernimento e moderazione; ogni giorno fare l’elemosina, pregare, leggere il Corano e ricordarsi dei buoni propositi; agire con benevolenza verso tutti, non sottrarsi ai propri sudditi; sforzarsi di soddisfare le loro esigenze; presiedere un’assise e ascoltare le rimostranze dei sudditi; circondarsi dei dottori della legge e degli uomini di religione; prelevare dal Tesoro pubblico solo lo stretto necessario... 

Possiamo vedere da questo elenco che non si tratta solo della legge religiosa così come essa è custodita nei libri di fiqh, i quali in parte enunciavano il diritto del califfo Si tratta anche di manifestarne la dimensione etica, illustrare la giustizia in quanto virtù legata alla persona del sovrano: farsi umile davanti a tutti, temere la preghiera dell’oppresso, fuggire le seduzioni di questo mondo, ordinare il bene e proibire il male. È importante notare che questo aspetto complementare della giustizia legale, che in realtà è la legge di Dio intesa nel senso più ampio, all’interno della letteratura degli “specchi dei principi” è più sviluppato nella corrente tradizionalista. I loro autori intendevano attenersi strettamente all’ideale islamico e appoggiarsi principalmente sui versetti coranici, le tradizioni profetiche e i precedenti tratti dalla storia dell’Islam per giustificare i loro ideali. Essi diffidavano tanto delle influenze sassanidi ancora percepibili in alcuni moralisti quanto dell’etica musulmana di tradizione greca. Non facevano più alcuna concessione all’obbedienza assoluta richiesta ai sudditi, antico retaggio di una tradizione politica anteriore all’Islam, e ricordavano al sovrano che non deve abusare del suo potere ed essere in tutto un modello per i credenti: solo a questa condizione la società assomiglierà alla comunità esemplare proposta in “specchio”, quella dei Compagni a fianco del Profeta. 

Ordinare il Bene e Proibire il Male 

Così, una stessa espressione, «ordinare il bene e proibire il male» (al-amr bi-l-ma‘rûf wa l-nahy ‘an al-munkar), designava l’orizzonte ideale dei giuristi e dei consiglieri del principe nell’Islam classico. Essa esprime infatti la giustizia in tutta l’ampiezza del termine: non la semplice giustizia legale, aritmetica, che per così dire contabilizza i doveri di ciascuno, non la virtù individuale, ma il principio stesso del bene applicato alla vita comunitaria nel suo complesso. Come san Tommaso nella sua Summa theologiae[3], l’Islam vede nell’essenza della giustizia il fatto di restituirla a tutta la sua ampiezza: ordinare il bene e proibire il male. Ovviamente il problema è che ruotando attorno a due termini molto vaghi, il bene e il male, qualunque ideologia può rivendicarla per sé, e che gli uomini si confrontano da sempre sulla definizione di questi termini. Alcuni musulmani, prudentemente ma non senza saggezza, l’hanno ridotta al contenuto teologico-giuridico della legge musulmana mentre essa, se intesa nel suo vero senso, oltrepassa la materia dei libri di fiqh. Ibn Taymiyya spiega così la nozione di amr bi-l-ma‘rûf: «Ordinare il bene significa vigilare sui musulmani perché eseguano le preghiere prescritte, versino l’elemosina legale, compiano il digiuno e il pellegrinaggio, siano sinceri, leali, riconoscenti verso i genitori e intrattengano buone relazioni con i vicini»[4]. Dicevamo che questa interpretazione riduttiva non è priva di saggezza poiché in questo modo l’illustre ma controverso teologo ha prevenuto possibili abusi da parte del potere nell’applicazione del suddetto principio, dal momento che la massima farebbe riferimento solo agli obblighi che incombono sul sovrano. 

Per farci un’idea più precisa di come essa sia stata correntemente interpretata nelle società musulmane del passato, non resta che rivolgersi a un autore la cui autorità negli ambienti musulmani resta incontestata. Mi riferisco ad al-Ghazâlî che a tale questione ha consacrato un’intera sezione (il libro XIX) del suo Ihyâ’‘ulûm al-dîn, manuale di educazione religiosa che egli proponeva a tutti i credenti desiderosi di non costringere la propria religione in un legalismo sterile e chiuso in se stesso. Egli arriva ad affermare, fin dalle prime righe, che il profetismo, la funzione di comunicare una legge agli uomini, si riconduce a questo principio di ordinare il bene e proibire il male. La religione, afferma, è insomma la giustizia o, più esattamente, il secondo termine rischiara il primo: che la mia relazione sia con Dio o con qualcun altro, si tratta pur sempre di conformarsi a una regola e di rimettere un debito. Viene subito in mente una delle Beatitudini, che un musulmano può altrettanto perfettamente definire come proprio ideale religioso. Ghazâlî non è per nulla una voce isolata. Senza dubbio si ha motivo di sottolineare, con Louis Milliot e Henri de Waël, che l’Islam è la religione che più di qualsiasi altra ha dato dignità al diritto; ma la conseguenza meno visibile dall’esterno, e che ne deriva immediatamente in ragione degli stretti rapporti tra giustizia e diritto, è che il principio di giustizia è iscritto nel cuore stesso della città musulmana come sua carta costitutiva. Tradire quest’ultima, accettando che l’ingiustizia si insedi nella società, sarebbe per un musulmano come rinnegare, per così dire, la sua identità, modellata secondo i teologi dal succitato impegno nei confronti di Dio. 

Sarebbe vano ricercare l’origine storica di tale formula nell’Islam, identificare l’autore che per primo l’ha elevata a principio etico. Del resto i teologi non fanno mistero che è la Rivelazione stessa ad aver enunciato il principio. Infatti, l’esigenza di “ordinare il bene e proibire il male” appare in molti punti del testo, come per esempio in Cor. 3,104,110; 9,71; 22,41; 31,17. La caratteristica comune a quasi tutti questi passi è innanzitutto la loro grande generalità – il bene e il male non vi sono precisati –, qualità che consente un’applicazione e una riflessione tanto ampie quanto indefinite. Si tratta anche di associare l’ingiunzione agli altri doveri religiosi (preghiera, elemosina…), come loro compimento: la vera fede (al-îmân) è predicare e fare il bene e impedire il male – fossero anche del peso di un atomo (Cor. 99,7-8). Così la giustizia è parte della religione, completa la legge e offre un baluardo contro il ritualismo e il legalismo. Il Corano lascia pensare che per i veri credenti le due cose procedano di pari passo. Possiamo anche citare un hadîth che questi stessi dottori, fedeli al loro metodo ermeneutico, mettono in relazione con il versetto menzionato e che figura nelle raccolte pienamente riconosciute dai tradizionalisti. Esso fornisce infatti una spiegazione pratica della seconda parte della formula: «Chiunque veda qualcosa di sbagliato, deve correggerlo con la mano; se non può, lo faccia con la lingua; e se non può, lo faccia allora con il cuore, perché questo è il minimo della religione». 

Il commento di Ghazâlî all’espressione «al-amr bi-l-ma‘rûf wa-l-nahy ‘an al-munkar», precedentemente citato, non fa che trarne tutte le conseguenze: se condannare il male nel proprio cuore è il minimo della religione, è bene che essa si proponga di andare oltre e impedire tutto ciò che può nuocere ai membri della comunità. Pertanto non sorprende che la massima dell’Islam non sia rimasta una pia intenzione. Essa è spesso ricordata nei sermoni dei predicatori del venerdì, e la sua portata è decisamente generale. 

La Religione come Giustizia 

Se l’Islam rivolge questo invito a ogni credente, sia esso un musulmano ordinario o investito di autorità, i dottori ne hanno tuttavia rigorosamente definito le condizioni di realizzazione. In quanto esortazione rivolta individualmente a ciascun credente, la regola comprende la correzione fraterna, in senso paolino, il consiglio in materia religiosa e legale, la direzione spirituale dello shaykh sufi, ma anche la censura pubblica dei costumi biasimevoli. Tutta una letteratura pia, fino al celebre genere profano delle maqâmât, ha abbondantemente sfruttato questo filone, e la sezione dell’Ihyâ’ che ho citato non fa eccezione al genere. Vi si leggono numerosi aneddoti di dubbia storicità, vere caricature: santi che frantumano immagini, rovesciano brocche di vino, s’infuriano direttamente con i potenti, fossero anche califfi, per condannarne la condotta e ricordare loro i precetti della legge religiosa; o ancora, si narra del tal principe preso a bastonate dai suoi sudditi per aver trasgredito la legge. Queste immagini forti restano incise nell’inconscio collettivo dei musulmani e sarebbe facile collegarvi alcuni casi recenti che hanno fatto rumore nei media. 

Ricordiamo che la legge islamica non è solamente un diritto che dice ciò che è permesso e ciò che è proibito; essa è anche un’etica che include l’obbligatorio, il raccomandabile – distinto da ciò che è legalmente obbligatorio – e il riprovevole, come distinto da quanto è giuridicamente vietato. Applicato con giudizio, questo principio comporta solo dei vantaggi: sentirsi investiti personalmente del ruolo di consigliare il bene e proibire il male contribuisce a realizzare la giustizia nella vita quotidiana, permette di evitare il ricorso al sistema giudiziario e alla sua ipotetica efficacia. Nella società musulmana tradizionale un’istituzione speciale, la hisba, era preposta al controllo dei costumi pubblici. I suoi funzionari, gli equivalenti degli agoranomoi delle antiche città greche, operavano soprattutto nei mercati, vigilando sul corretto funzionamento delle transazioni e sul rispetto della moralità pubblica. 

Ma questa istituzione si spiega anche con il desiderio delle autorità di prevenire gli eccessi che l’uso per fini politici del suddetto principio nascondeva. Da parte loro, i dottori della legge affermarono con cautela che il compito di ordinare il bene incombeva sulla comunità nel suo complesso e non su una delle sue componenti, e che nessuno poteva quindi sfruttarlo al di fuori di un caso estremo come quelli precedentemente segnalati. Era dunque la coscienza islamica considerata globalmente a farsi carico della giustizia, non i singoli. Di conseguenza, spettava a un solo credente ricorrere alla forza nei casi in cui la legge non fosse stata rispettata, e questo singolo, che ne era il portatore e il garante, era necessariamente il califfo, dal momento che la sua elezione si fondava su una base legittima. Così, nessuno poteva avvalersi della censura dei costumi per destituire autorità regolari. L’Islam tradizionale poteva pretendere di sfuggire, almeno idealmente, alla constatazione disincantata espressa da Pascal nel suo celebre aforisma su tutti i poteri terreni: «Non potendo fare in modo che ciò che era giusto fosse forte si è fatto sì che ciò che era forte fosse giusto». Investita dell’onere di mettere in pratica la sharî‘a, ordinare il bene e proibire il male, pena la perdita del sostegno degli ‘ulamâ’ e dei credenti e il rischio di spalancare le porte all’arbitrio e all’ingiustizia, la società islamica tradizionale non poteva dirsi ridotta a tale alternativa. 

 



Bibliografia 

Louis Gardet, La cité musulmane, vie sociale et politique, Vrin, Paris 1954. 
Majid Khadduri, The Islamic Conception of Justice, Johns Hopkins University Press, London 1984. 
Ann K.S. Lambton, State and Government in Medieval Islam, Oxford University Press, London 1981. 


[1] Alain Sériaux, Le droit naturel, P.U.F., Paris 1993, 42-45.

[2] «Justice was the paramount quality which entitled the king to rule […]. The main stream of the mirrors - indeed of medieval Islamic political thought in general - laid its emphasis on justice as the foundation for righteous government». 

[3] San Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae, II-II, q. 79, a. 1.

[4Siyâsa shar'iyya. Per la traduzione francese cfr. Le traité de droit public d'Ibn Taymiyya,trad. e note di H. Laoust, Institut Français de Damas, Beyrouth 1948, 72.

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