A un anno dall'investitura del "Califfo" Ibrahim, Isis è divenuta una presenza sinistramente familiare, eppure ci manca ancora un vera conoscenza di che cosa realmente sia. Una difficoltà che rivela un groviglio di questioni irrisolte nell’Islam e nell’Occidente.

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:10:22

«Il Consiglio della shura dello Stato Islamico ha deciso di proclamare l’istituzione del Califfato islamico […] e di nominare un califfo per i musulmani. […] Con la proclamazione del Califfato tutti i musulmani hanno l’obbligo di giurare fedeltà al Califfo Ibrahim e sostenerlo.

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Da questo momento viene meno la legittimità di tutti gli emirati, i gruppi, gli Stati e le organizzazioni su cui si estende il suo potere o che sono raggiunti dal suo esercito». Con queste parole, il 29 giugno del 2014 l’organizzazione dello Stato Islamico si presentava al mondo come la restauratrice del Califfato universale. Il valore della sua rivendicazione era giuridicamente nullo, tanto che da allora una nutrita schiera di dotti e intellettuali musulmani di varia estrazione e provenienza si è premurata di confutare la legittimità del neo-califfo, ma di forte impatto simbolico, mediatico e anche politico. Essa suggellava infatti la trasformazione dello Stato Islamico dalla “barzelletta” che era stata tra il 2006 e il 2012 nello “tsunami” di oggi, per riprendere la formula con cui un ideologo jihadista ha descritto la parabola dell’organizzazione islamista.

Lo tsunami intanto non si è arrestato, e anzi ha travolto un vasto territorio a cavallo tra Siria e Iraq (oggi quasi 300.000 km2), profanando nella sua avanzata persone (uno stuolo di morti e decina di migliaia di profughi, tra cui molti cristiani) e luoghi (pensiamo alla distruzione del ricco patrimonio artistico e culturale dell’area).

Da quel 29 giugno di un anno fa l’esistenza dello Stato Islamico ci è diventata sinistramente familiare. Le sofisticate e truculente immagini della sua propaganda si sono sostituite nell’album dei nostri incubi e delle nostre fobie al mezzo busto austero di Osama Bin Laden. Tuttavia molte cose di questo mostro sembrano ancora sfuggirci: dopo un anno non sappiamo ancora come chiamarlo, né come definirlo. Quando ne parliamo ci siamo giudiziosamente abituati ad anteporre l’aggettivo “sedicente” alla parola “califfato” o “Stato Islamico”, per prendere le distanze – giustamente – dalle sue rivendicazioni.

Sugli acronimi che dovrebbero sinteticamente identificarlo non c’è accordo: per qualcuno è ancora ISIS (the Islamic State of Iraq and Syria), per altri semplicemente IS (Islamic State) a seconda che si sia preso atto o meno delle ambizioni ormai universali dell’organizzazione. Ma c’è anche chi contesta la stessa idea di Stato Islamico, dal momento che esso non sarebbe uno Stato, ma solo una formazione terroristica, né sarebbe islamico, non avendo alcun legame con la tradizione musulmana più autentica. Per esempio l’amministrazione Obama ha deciso di ricomprendere tutti i gruppi jihadisti nella sigla VE (violent extremism), per evitare qualsiasi riferimento all’Islam.

In Occidente altri hanno pensato di risolvere il problema ricorrendo all’acronimo arabo Daish, senza accorgersi di ritrovarsi in questo modo al punto di partenza, visto che Daish altro non è che la versione araba di ISIS (al-Dawla al-Islâmiyya fi-l-‘Irâq wa-l-Shâm, Lo Stato Islamico in Iraq e nel Levante). Sono tentativi comprensibili, ma che in fondo segnalano solo la nostra incapacità di inquadrare e fronteggiare il fenomeno. Semplicemente ci mancano le coordinate mentali, e con esse le parole. La difficoltà peraltro è spiegabile. Lo Stato Islamico infatti è la manifestazione di un tale groviglio di questioni irrisolte da sfuggire a qualsiasi spiegazione o definizione univoca. Sono almeno due gli elementi da considerare. Da un lato esso rappresenta l’ennesima evoluzione di quel risveglio islamista che dalla fine degli anni ’70 non cessa di condizionare e deturpare la vita delle società musulmane.

In questo senso esso interpella direttamente i musulmani, e in particolare gli intellettuali e le autorità religiose, affinché intraprendano una profonda revisione delle modalità con cui negli ultimi decenni è stato interpretato l’Islam. Dall’altro esso è uno degli esiti della crisi allo stesso tempo politica, sociale e culturale, dell’architettura disegnata per il Medio Oriente dopo la prima guerra mondiale, accelerata da alcuni tragici errori degli anni più recenti (la guerra in Iraq del 2003, una sciagurata gestione delle Primavere arabe) e a cui si aggiunge oggi il grande gioco che nel Golfo oppone Arabia Saudita e Iran. Questa crisi appare oggi senza via d’uscita: i grandi attori internazionali sono incapaci, o non hanno l’intenzione, di estirpare il bubbone; come potranno curare le cause che ne hanno reso possibile la crescita? Come ha scritto Bernard Haykel, importante studioso di Princeton, «Lo Stato Islamico certamente non durerà […]. A rimanere saranno i fattori che hanno consentito di prosperare a una politica militante, e cioè un’ideologia del potere e del dominio religioso e realtà politiche, sociali ed economiche da cui scaturisce una sorgente di reclute e sostenitori che si sentono profondamente privati dei propri diritti e sempre più emarginati dal corso della storia». Il quadro è sconfortante, ma proprio in questi giorni, Papa Francesco ci ricorda con l’enciclica Laudato si’ che «l’ingiustizia non è invincibile». Qualcuno è disposto a prenderlo sul serio? * Articolo pubblicato su Avvenire del 28 giugno 2015.

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