Il presidente turco è riuscito a esautorare le forze armate dalle proprie prerogative politiche, ridimensionando la componente kemalista. E si è salvato dal golpe

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:07:59

Nel 1826 il sultano Maḥmūd II decise di istituire forze armate di tipo moderno e occidentale; infatti i giannizzeri, da truppe di élite della Sublime Porta, si erano trasformate in una casta autoreferente, riottosa e che si era arrogata poteri politici. Quando scoppiò la rivolta dei giannizzeri, il gran visir lasciò che si radunassero, per poi massacrarne oltre trentamila. Anche la confraternita dei Bektāshī, che aveva compenetrato il corpo dei giannizzeri, fu abolita. L’avvenimento fu ricordato dalla storiografia ufficiale ottomana come “l’Evento Propizio”, in quanto portò a una riaffermazione dei poteri del sultano. Quasi due secoli dopo, la Storia sembra ripetersi. Il president Recep Tayyip Erdoğan, sventato il complotto del sedicente “Comitato della Pace”, ora a suon di purghe, arresti e dimissioni forzate ha mano libera sia per epurare magistratura e amministrazione pubblica, sia per fare di polizia e forze armate un docile strumento; accusando l’arcinemica confraternita gulenista di aver ordito il fallito golpe. In realtà, “l’addomesticamento” delle forze armate e di sicurezza da parte del presidente era cominciato da molto tempo. Quando l’Akp, il partito islamista di Erdoğan, ha vinto le elezioni nel 2002, erano passati soltanto cinque anni dall’ultimo golpe militare, di cui aveva peraltro fatto le spese un partito islamista, il Refah Partisi di Necmettin Erbakan. Una volta diventato primo ministro, Erdoğan è stato abilissimo nell’isolare politicamente i militari. Infatti, spostando il focus del dibattito pubblico turco dalla questione dell’islamicità a quella della democrazia, è riuscito a conquistare l’appoggio di forze eterogenee, inclusi laici, liberali e curdi. La tregua dichiarata dal Pkk, il Partito curdo dei lavoratori, nel 1999, ha inoltre portato al ridimensionamento del ruolo dei militari. Naturalmente, le forze armate, tradizionali garanti della laicità kemalista dello Stato, si sono in gran parte opposte. Lo scontro è aperto dal 2007, quando i militari hanno pubblicamente criticato la proposta governativa di candidare il ministro degli Esteri, Abdullah Gül, un filoislamista, alla presidenza. Complice l’appoggio della Unione europea, Gül fu poi eletto. A modificare i rapporti di forza tra potere politico e militare, è stato proprio il processo d’integrazione nell’Unione europea. Infatti, tra i fondamentali requisiti d’ingresso c’era la subordinazione del potere militare a quello civile. Di conseguenza, il governo ha avuto buon gioco a modificare il quadro legislativo e costituzionale. È stata ridotta la giurisdizione militare sui civili, ma soprattutto l’autonomia del potente Consiglio di sicurezza nazionale ed è stato abolito il Protocollo EMYASA, che permetteva ai militari di condurre operazioni contro minacce alla sicurezza interna senza il preventivo consenso dei poteri civili. Se nel 2011, per protesta, ci sono state dimissioni di massa dei vertici militari, tra il 2012 e 2013 le condanne per i presunti complotti militari Balyoz e Ergenekonhanno spedito in galera centinaia di alti ufficiali. Con una modifica della legge sul Servizio interno delle forze armate, ai militari è stata poi vietata ogni attività politica. A suggellare la vittoria di Erdoğan è giunta, nel 2013, la modifica dell’articolo 35 del regolamento interno delle Forze armate turche (TSK). Il testo iniziale citava: “il dovere delle Forze armate è quello di proteggere e salvaguardare la patria turca e la Repubblica turca, come stabilito nella Costituzione”. Di fatto si trattava di una leva giuridica che giustificava “golpe correttivi” e, dunque, il testo è stato modificato togliendo ogni riferimento a Repubblica e Costituzione, riferendosi soltanto a minacce esterne. In quell’occasione inoltre il Comando generale della Gendarmeria fu tolto alle TSK e posto sotto controllo del ministero degli Interni, più vicino all’AKP. Nel frattempo, le forze armate e di sicurezza sono state progressivamente infiltrate da uomini fedeli al primo ministro: ad esempio, l’anno scorso è stato nominato Capo di Stato maggiore Hulusi Akar, fedele al governo e venerdì notte preso in ostaggio dai golpisti. Fedelissimo del presidente è anche Hakan Fidan, che da semplice sergente è arrivato a capo dei servizi segreti. In realtà le distanze tra primo ministro e TSK sembrarono accorciarsi già nel 2013, quando il premier dapprima scaricò sui suoi avversari politici gulenisti la responsabilità della repressione che aveva investito gli apparati militari e poi liberò oltre 200 militari incarcerati. Tuttavia, nel 2015, a spingere al riavvicinamento, è stato soprattutto il riaccendersi delle guerra al PKK e le tensioni legate alla spedizione russa in Siria: le esigenze di sicurezza nazionale esaltavano il ruolo del TSK, mentre la svolta neo-ottomana di Erdoğan si sposava con gli ideali dei militari e gli faceva guadagnare supporto dai nazionalisti. E infatti, nel luglio scorso, la ripresa dei combattimenti con i curdi del PKK ha allineato le posizioni del presidente e dei militari: il riaccendersi della crisi, da un lato, ha permesso a Erdoğan di ritornare alle urne, ma con il partito Popolare Democratico filocurdo (HDP) indebolito; dall’altro lato, i militari hanno imposto al governo la propria linea intransigente con il PKK, e di cautela con la Siria. In altri termini, presidente e TSK hanno trovato una comunanza di interessi proprio nella lotta ai curdi, ed Erdoğan ha sfruttato politicamente e, favorito, questo riavvicinamento; ad esempio, ha fatto varare un legge che garantisce l’immunità per le forze che conducono operazioni “antiterrorismo”, e ha tolto ai governatori provinciali la competenza per la lotta al terrorismo, consegnandola all’esercito. In 14 anni al potere, Erdoğan è riuscito a esautorare le TSK dalle proprie prerogative politiche, indebolendone la componente kemalista, infiltrandone i vertici con elementi a lui fedeli, oltre che cooptandole valorizzandone il ruolo nazionalista. In ogni caso però, dev’essere evidenziato che a far fallire il golpe è stato soprattutto un profondo cambiamento delle relazioni tra forze armate e società civile, prodottosi nell’ultimo trentennio: infatti, nonostante le TSK godano ancora di radicata popolarità, autonomia decisionale e forte peso anche nell’economia, pressoché tutte le forze politiche turche, memori soprattutto del golpe del 1980, si sono rivelate fermamente contrarie ad abdicare in favore di una “supplenza” militare.