J. Ratzinger-Benedetto XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme alla risurrezione, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2011

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:36:22

Il Gesù di Nazaret di Ratzinger/Benedetto XVI potrebbe essere presentato come un’opera che si colloca alla fine di una lunga e singolare parabola storica iniziata con la Vita critica di Gesù del protestante Reimarus. Una parabola che, di pari passo con la storia delle idee, racchiude più di due secoli di ricerca esegetica su Gesù, e che ha esercitato un’evidente influenza sull’immagine che il popolo cristiano si è fatta dei Vangeli. In effetti «nella coscienza comune della cristianità», dice il Papa, questi due secoli «hanno comunque lasciato dietro di sé, come denominatore comune, l’impressione che noi sappiamo ben poco di certo su Gesù» (I, 8). Fu questo gravissimo problema a indurre il teologo Ratzinger a intraprendere il lavoro su Gesù di Nazaret. Che novità rappresenta quest’opera nell’ambito dell’esegesi moderna? In altre parole, in che senso possiamo affermare che essa si colloca alla fine di una parabola storica che va dalla sfiducia alla fiducia nei Vangeli? Rispondere a questa domanda ci costringe a presentare i due assi su cui si regge l’originalità del libro: il suo fondamento metodologico e, a partire da tale fondamento, l’esercizio pratico dell’esegesi. La preoccupazione per l’aspetto metodologico dell’esegesi non è nuova in Ratzinger. La conferenza tenuta dall’allora Cardinale a New York nel 1988, e in seguito pubblicata come L’interpretazione biblica in conflitto. Problemi del fondamento ed orientamento dell’esegesi contemporanea, è ben presto diventata una delle pietre miliari di un dibattito ermeneutico che da allora è cresciuto enormemente. Il Cardinale vi illustrava le premesse filosofiche di gran parte dell’esegesi dominante, ponendo in dubbio la sua pretesa di essere una disciplina scientifica, con risultati comparabili, come esattezza, a quelli del mondo scientifico. Egli sottolineava inoltre un’altra questione che, con il tempo, sarebbe diventata centrale: come unire in modo equilibrato i due principi meotodologici dell’esegesi presentati dalla costituzione dogmatica Dei Verbum al numero 12: un’esegesi storica e al contempo teologica? Nella seconda parte di Gesù di Nazaret, il Papa torna a insistere sulla duplice dimensione metodologica dell’esegesi. Se l’esegesi ha fatto grandi passi in avanti come disciplina storica, lo stesso non si può dire nella sua dimensione teologica. A questo proposito, nella premessa a questa seconda parte Benedetto XVI si dimostra particolarmente incisivo: «Se la esegesi biblica scientifica non vuole esaurirsi in sempre nuove ipotesi diventando teologicamente insignificante, deve fare un passo metodologicamente nuovo e riconoscersi nuovamente come disciplina teologica, senza rinunciare al suo carattere storico. Deve imparare che l’ermeneutica positivistica da cui essa prende le mosse non è espressione della ragione esclusivamente valida che ha definitivamente trovato se stessa, ma costituisce una determinata specie di ragionevolezza storicamente condizionata, capace di correzione e di integrazioni e bisognosa di esse» (pp. 6-7). In questo contesto, è significativa l’osservazione a proposito della ragione. L’esegesi dominante non soffre per mancanza di strumenti o di perizia nell’uso degli stessi, ma per l’uso inadeguato della ragione che, evidentemente, impedisce un’adeguata comprensione della Scrittura. È ciò che, nel famoso discorso di Ratisbona, il Papa ha definito «l’autolimitazione moderna della ragione», a causa della quale si afferma che «soltanto la ragione positivista e le forme di filosofia da essa derivanti siano universali». Papa Ratzinger si ritrova qui alla fine di un’altra parabola storica, quella percorsa dalla ragione moderna negli ultimi tre secoli in Occidente. Non a caso le due parabole storiche vanno di pari passo: comprendere questo stretto legame è ciò che ha permesso a Ratzinger di portare uno sguardo lucido sul problema dell’esegesi. Indubbiamente è necessario un fondamento teologico che mostri l’unità articolata dell’esegesi, critica e insieme teologica. Ma è altresì evidente che l’esercizio di un’esegesi che, nella pratica, mostri la modalità con cui entrambe le dimensioni concorrono fecondamente allo studio dell’unico oggetto, la Scrittura, risulta decisivo per persuadere della bontà di questo approccio unitario. Non sarebbe stato possibile compiere un’impresa di tale portata senza correre il rischio di scendere “nell’arena” dell’interpretazione dei testi, entrando nei problemi e nelle questioni più discusse. Se invece di questo progetto il Papa avesse concepito un’opera di “spiritualità”, una Vita di Gesù che, prendendo come punto di partenza i Vangeli, ricreasse il mondo interiore del Papa, senza altre pretese, ci troveremmo di fronte all’ennesima ricreazione della figura di Gesù, a partire dalla fede, destinata a colmare il vuoto lasciato dai freddi studi esegetici sui Vangeli. Ma il dualismo tra esegesi scientifica e teologia credente sarebbe rimasto intatto. Nella discussione sulle questioni esegetiche concrete Ratzinger ha invece messo in campo un’esegesi critica e insieme teologica, svelando in tante occasioni le premesse filosofiche o culturali che limitano la ragione moderna applicata alla Scrittura. Per esempio, una delle questioni più dibattute dell’esegesi neotestamentaria riguarda l’Ultima Cena: la datazione, le intenzioni di Gesù, la sua natura, le parole dell’istituzione dell’Eucaristia, ecc. Il Papa affronta questi problemi attraverso un rigoroso esercizio della ragione, aperta ad accogliere tutti i fattori in gioco. Tutti, compresi quelli della tradizione liturgica, che hanno un peso storico innegabile. E, in concreto, illustra la ragionevolezza e la plausibilità storica del racconto, così come è giunto a noi, nelle sue molteplici testimonianze. Ma, con grande intelligenza, Ratzinger mostra anche che in questa discussione non si tratta unicamente di dati e ragioni. Entrano in gioco presupposti culturali che pregiudicano un’interpretazione corretta del testo. Effettivamente, «una non piccola parte dell’esegesi attuale contesta che le parole dell’istituzione risalgano veramente a Gesù […]. L’obiezione principale […] si può riassumere così: ci sarebbe una contraddizione irrisolvibile tra il messaggio di Gesù circa il regno di Dio e l’idea della sua morte espiatoria in funzione vicaria». In altri termini, l’esegesi moderna identificherebbe due mondi concettuali diversi che devono appartenere a due strati diversi e successivi della tradizione. «Sono realmente due mondi concettuali diversi?» si domanda Ratzinger. A suo parere, la ragione ultima per cui molti teologi ed esegeti non ammettono come originali le parole dell’istituzione: «… non sta nei dati storici: come abbiamo visto, i testi eucaristici appartengono alla tradizione più antica. In base ai dati storici niente può esservi di più originale che proprio la tradizione della cena. Ma l’idea di un’espiazione è cosa inconcepibile per la sensibilità moderna. Gesù nel suo annuncio del regno di Dio deve esserne agli antipodi. C’è di mezzo la nostra immagine di Dio e dell’uomo. Per questo tutta la discussione è solo apparentemente un dibattito storico» (143); «il mistero dell’espiazione non deve essere sacrificato a nessun razionalismo saccente» (279). Possiamo dunque ben comprendere la curiosa parabola storica percorsa dall’esegesi nei due ultimi secoli e mezzo: da Reimarus, che partendo dalla ragione e rifiutando in suo nome il dogma, si avventura alla ricerca del Gesù storico a margine dei Vangeli, fino al Gesù di Nazaret di un Papa teologo che, rivendicando un uso adeguato della ragione, riconferma la verità storica e la ragionevolezza del Gesù dei Vangeli. Il Papa ha reso un grande servizio alla fede mostrando, nei suoi risultati, la verità di questo principio ermeneutico. In altre parole, è diventato un esempio di quello che egli stesso chiede ai cristiani affinché il loro contributo sia decisivo nel mondo di oggi: che «l’intelligenza della fede diventi intelligenza della realtà».

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