Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa araba

Ultimo aggiornamento: 19/03/2024 10:46:31

Nella settimana in cui la stampa araba ha scritto a profusione sui problemi interni del premier israeliano Benjamin Netanyahu e sulle peripezie delle opposizioni turche, che hanno deciso, dopo qualche tentennamento, di puntare su Kemal Kılıçdaroğlu quale sfidante di Erdoğan alle prossime elezioni presidenziali, ci concentriamo su tre temi altrettanto importanti ma più specifici del mondo culturale e politico arabo: la questione femminile, i problemi di Kais Saied in Tunisia, il significato dell’8 marzo in Siria.    

 

 

8 marzo. La festa della…?

 

Quale miglior momento per criticare il femminismo se non in concomitanza con la giornata internazionale della donna? È quello che fa al-‘Arabi al-Jadid in un articolo dal titolo «La festa della donna ha lo stesso valore di quella dell’uomo». La principale critica rivolta ai movimenti femministi è quella di aver trasformato una battaglia giusta in una «cieca» lotta ideologica fondata su una rigida divisione tra «il sesso maschile cattivo» e quello «femminile buono». Il j’accuse nasconde però qualcosa di più profondo, ossia la convinzione che il femminismo sia un prodotto culturale occidentale, e che quindi abbia al suo interno una connotazione orientalista, se non addirittura razzista. Il giornale punta, come abbiamo visto anche durante le rassegne stampa dedicate ai mondiali in Qatar, a mettere in luce le ipocrisie dell’Occidente. Pertanto il femminismo negli Stati Uniti sarebbe portato avanti dalle sole donne bianche, e non da quelle afroamericane e latine. L’articolo poi conclude così: «Nel giorno della festa della donna, ben venga qualunque essere umano che riesca, nel mezzo di tutta questa confusione, ad affrontare la questione femminile, così come quella maschile, in maniera obiettiva». Anche al-Quds al-‘Arabi, seppur con posizioni molto più sfumate, è di questo avviso: la prima pagina del cartaceo dell’8 marzo pone in risalto il problema della disparità di salario tra i due sessi nell’Unione Europea e la negazione dei diritti delle donne in Iran, vittime di molestie sessuali da parte dei militari. L’unico Paese arabo citato è la Siria di Assad (che analizzeremo più avanti), accusato di fare un uso sistematico della violenza di genere. Tuttavia, in un articolo online della testata panaraba compare un resoconto più dettagliato sui numerosi e gravi casi di violenza contro le donne arabe. Per al-Quds, inoltre, è fondamentale creare un rapporto di causalità tra la negazione dei diritti delle donne palestinesi e l’occupazione israeliana.     

 

Tunisia tra “lettere morte” e “cattive intenzioni”  

 

L’8 marzo cade in un momento particolarmente delicato per la Tunisia, colpita da una lunga crisi economica e istituzionale aggravatasi di recente in seguito alla decisione della Banca Mondiale di interrompere temporaneamente i prestiti a causa dell’emergenza migratoria e del discorso venato di razzismo del presidente Kais Saied. L’editoriale del quotidiano tunisino filogovernativo al-Sabah approfitta della ricorrenza per lamentare i numerosi «ostacoli accumulati dallo Stato» nel «tutelare la donna sia nell’ambito dei diritti civili che in quelli sociali». La legislazione tunisina di per sé è anche abbastanza avanzata, ma il vero problema è costituito dalla mancata applicazione di norme e leggi, rimaste «lettera morta» (“inchiostro su carta” nell’espressione originale”) a prescindere dal colore politico dei governi che si sono succeduti negli ultimi anni. La giornata della donna mette in penombra – non si sa se in maniera intenzionale o meno – la notizia del blocco dei prestiti dalla Banca Mondiale, che compare solo a pagina numero sette. L’autore dell’articolo, Sufyan Rajib, mostra scetticissimo e al contempo cautela, affermando che il bollettino ufficiale della Banca è piuttosto «oscuro» e «poco comprensibile». Da un lato, la pressione della Banca Mondiale renderà più complicate le relazioni tra la Tunisia e gli istituti di credito internazionali – dal Fondo Monetario Internazionale «che aumenterà i suoi termini e condizioni» alla Banca Africana di Sviluppo – ma dall’altro è evidente che le transazioni continueranno ad essere erogate «in maniera regolare», anche se vi saranno dei ritardi per la firma dell’accordo quadro per il periodo 2023-2027.

 

Il giornale panarabo al-‘Arab, vicino agli Emirati Arabi Uniti, si schiera nettamente con il governo: «la Tunisia ha bisogno di muoversi di più per difendere la sua immagine all’estero. Le istituzioni internazionali sono vittime delle notizie che omettono le misure tunisine a favore degli africani», questo il titolo di prima pagina dell’8 marzo. Si legge nel corpo dell’articolo: «non hanno avuto successo le misure prese da Tunisi per combattere la campagna diffamatoria che l’ha colpita a causa della crisi dei rifugiati africani», perché, secondo il giornale, le direttive a difesa dei migranti sono «notevoli, ma hanno bisogno di più di una conferenza stampa e di numerose interviste con agenzie perché vengano conosciute a livello internazionale». Un’iniziativa diplomatica del genere costituirebbe l’occasione per «cestinare la narrazione della Tunisia razzista e xenofoba, una narrazione traballante e che nasconde dietro di sé cattive intenzioni». Semmai, prosegue al-‘Arab a pagina quattro, è il fronte dell’opposizione a non passarsela bene, visto che l’Unione Generale Tunisina del Lavoro (UGTT) si è sfilata dal Fronte di Salvezza Nazionale, noto anche come Khalas, coalizione guidata dal partito d’ispirazione islamica Ennahda, fornendo come motivazione il fatto che alcuni membri del Fronte continuano a essere dei «nemici» per il sindacato: «la base popolare dell’Unione rifiuta qualsiasi apparentamento con Ennahda, su cui grava la responsabilità principale dello stato di degrado che il Paese sta sperimentando a livello economico e securitario dal 2012 in avanti». Di tutt’altro avviso al-‘Arabi al-Jadid, di proprietà qatariota, che chiede a gran voce le scuse del presidente Kais Saied per le sue posizioni al limite del razzismo; se non lo farà, la Tunisia perderà ancora più credibilità all’estero e complicherà la sua già non florida situazione socioeconomica.               

 

Una festa sottotono in Siria: greatest hits (and flops) del Ba‘th

 

Anche in Siria l’8 marzo è un anniversario molto sentito. Con una piccola differenza, però, rispetto al resto del mondo: non è dedicato alla donna, bensì al partito di regime, il (fu) panarabo e socialista Ba‘th, che quest’anno celebra, seppur malconcio, i sessant’anni dalla Thawrat Ādhār, la “rivoluzione di marzo”. Detto più prosaicamente, si tratta del colpo di Stato che portò nel 1963 i baathisti al potere poco tempo dopo la deludente e fallimentare unione con l’Egitto di Nasser. In passato la data veniva ampiamente celebrata con parate militari e commemorazioni, ma quest’anno, con il trauma del terremoto ancora vivo, l’aria di festa manca del tutto, comprensibilmente. Ne è consapevole lo stesso Comando Centrale del Ba‘th, tanto che nello scarno comunicato pubblicato sul suo sito ufficiale prova a giustificarsi, non senza un certo imbarazzo, in questo modo: «alcuni potrebbero domandarsi se oggi sia opportuno ricordare l’8 marzo 1963; eppure noi stiamo affrontando una guerra che è molto più crudele delle altre e una catastrofe che è molto più distruttrice e mortale delle altre. Può darsi che qualcuno si affretti a contestare tale scelta, dal momento che non approva la validità della logica per cui “non è possibile comprendere quello che sta succedendo adesso senza conoscere il contesto storico”». Anche il giornale del partito, al-Ba‘th, dedica all’8 marzo un succinto articolo in prima pagina, al cui interno si menzionano i “successi” baathisti: l’opposizione alla presenza dell’esercito francese negli anni Quaranta, il “Movimento Correttivo” di Hafez al-Assad, la “lotta contro il terrorismo” vinta da Bashar al-Assad, il presidente in carica. Ma la retorica deve lasciar spazio, persino nel giornale di partito, a questioni più urgenti: le succursali provinciali del partito sono infatti impegnate a cercare una soluzione ai problemi del settore idro-agricolo – l’Eufrate è in secca, con grande sofferenza delle coltivazioni – e della ricostruzione post-bellica e post-sisma.

 

Della giornata internazionale della donna nessuna traccia, o quasi. In realtà, un trafiletto compare nella penultima pagina, dove si ripercorrono in maniera approssimativa le tappe storiche che hanno portato al riconoscimento della giornata. Le ultime righe sono dedicate alla condizione femminile in Siria: un tema, ci tiene a precisare il giornale, di elevato interesse per il governo centrale, dal momento che la donna «ha ricoperto alti incarichi politici e amministrativi, lavora come deputata, consigliera della presidenza, deputata della Camera, ministra del governo e direttrice in varie agenzie governative, per non parlare del fatto che ha imbracciato, al pari dell’uomo, il fucile per combattere il terrorismo internazionale che si è diffuso nel Paese».   

 

Questo tipo di retorica viene invece smontata pezzo dopo pezzo dall’intellettuale e dissidente siriano Yassin al-Haj al-Salih, che su al-Quds al-‘Arabi “celebra” la Thawrat Ādhār con un articolo dal titolo “Patriottismo e tradimento dopo sessant’anni di baathismo”. Il Ba‘th ha infatti tradito l’ideale panarabo, fonte della sua legittimazione politica, vessando la popolazione: «la patria si eleva come un’astrazione sulle teste della gente». Al-Hajj Salih contesta in particolare ad Assad il suo abuso dell’accusa di terrorismo, sistematicamente lanciata contro uomini, donne e giovani che semplicemente gli si oppongono e che per questo vengono costantemente torturati, stuprati e uccisi: «oggi il terrorista è chi partecipa in modi diversi alla rivoluzione: se anche uno partecipasse a un’operazione di soccorso, sarebbe lo stesso un traditore come nel periodo prerivoluzionario». Anche al-‘Arabi al-Jadid si concede un lungo e caustico articolo, interamente dedicato alla sfilza di insuccessi collezionati dalla “Resurrezione” (questa la traduzione del nome del partito) nel corso del Novecento. Sintetizzato in poche parole: «il Ba‘th ha cambiato i suoi obiettivi “unità, libertà socialismo” nel suo esatto contrario, per entrare nel campo del sarcasmo più amaro». Il partito versa in un grave stato di decadenza, ed è ormai buono soltanto per fare da “tappezzeria” (dikūr) al regime, anch’esso sfibrato da anni di guerra e dal recente sisma.

 

 

 

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