Una guida ai fatti della settimana in Medio Oriente e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale e quella araba

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 15:29:04

Tradizione rispettata: seguendo suo malgrado l’esempio di tutti i suoi predecessori, anche il primo ministro pachistano Imran Khan non ha concluso il proprio mandato, nonostante al momento dell’elezione nel 2018 questo «eroe nazionale sin da quando giocava a cricket» avesse «quasi tutto in suo favore», come ha scritto la BBC. L’incarico è terminato con un voto di sfiducia in Parlamento, dove alcuni alleati hanno abbandonato Khan (come il Partito Awami del Balochistan, o la Pakistan Muslim League - Quaid). Ma è all’esterno dell’organo legislativo che l’ex primo ministro ha perso i sostenitori più importanti: l’esercito e l’intelligence, alienati a causa dell’andamento economico del Paese, del dissenso intorno alla nomina del capo dei servizi segreti e delle scelte di politica estera. Secondo Secunder Kermani, corrispondente della BBC da Islamabad, sono stati esercito e servizi segreti a rendere possibile l’elezione di Khan nel 2018, ma è bastato che venisse meno il loro sostegno e l’ex campione di cricket ha dovuto abbandonare il suo incarico.

 

Una nuova grande svolta per il Pakistan? A giudicare dal voto di sfiducia, dalla riunione d’emergenza della Corte suprema, da misteriose corse in elicottero e da un incontro clandestino notturno tra Imran Khan e i capi di esercito e intelligence si direbbe di sì. Al contrario, secondo Ahsan I Butt (al-Jazeera) non c’è niente di nuovo: «la transizione dal governo di Khan all’opposizione è il risultato di una lotta di potere intra-élite, non di una mobilitazione popolare […]. La musica resta la stessa: i generali promuovono qualcuno con il quale pensano di potere fare affari [Imran Khan nel 2018, ndr] perché sono minacciati dall’alternativa popolare. Più tardi, un altro generale scopre che i suoi predecessori si sbagliavano: il “junior partner” [sempre Khan, ndr] non è malleabile come inizialmente presunto». È dalla scoperta dei tentativi di indipendenza del primo ministro che cominciano gli intrighi per la sua rimozione, in una dinamica molto simile a ciò che si è verificato nei casi di Zulfiqar Ali Bhutto (deposto dal generale Zia dopo essere stato “promosso” da Ayub Khan) e di Nawaz Sharif, cresciuto sotto l’ala di Zia e in seguito deposto in un colpo di Stato militare ordito da Pervez Musharraf.

 

Questa volta l’estromissione del primo ministro non è stata direttamente operata dall’esercito, bensì da una normale procedura parlamentare. Ciò non ha impedito a Khan di imporre ai membri del proprio partito le dimissioni dal Parlamento: «neppure un cambiamento democratico è accettabile per il suo ego. Abbandonando l’Assemblea Nazionale, [Khan] cerca di distruggere l’intero edificio», ha affermato Zahid Hussein sul quotidiano pakistano Dawn. È sulla stessa linea Mohammed Hanif sul Guardian, secondo cui «Khan si è comportato come un bambino che scopre che anche gli altri festeggiano il compleanno». Va però notato che, nel congedarsi, Imran Khan ha evitato di attaccare direttamente l’esercito o i servizi, rivolgendo le sue invettive verso avversari all’estero: l’ex primo ministro sa che se un giorno vorrà tornare al potere dovrà nuovamente sedersi al tavolo dei generali. Una prospettiva non così fantasiosa secondo Foreign Policy, che riferisce di come le dimissioni in massa dei membri del partito Tehreek-e-Insaf (quello di Khan) aumentino le possibilità di elezioni anticipate. Intanto nelle maggiori città sono state organizzate numerose manifestazioni di sostegno al primo ministro uscente. Parate e sit-in che, secondo i corrispondenti del New York Times, , sembravano «dare l’inizio alla prossima campagna elettorale di Khan». Del resto la posizione in cui si trova ora Khan è la migliore per preparare il suo ritorno: se infatti manca delle caratteristiche necessarie per governare, ha scritto Pamela Constable sul Washington Post, Khan è estremamente preparato quando si tratta di arringare le folle, di essere persuasivo e di criticare dall’esterno il sistema di potere. Una campagna elettorale in cui Khan sembra inoltre intenzionato a giocare una carta sempre efficace in Pakistan, soprattutto nelle regioni al confine con l’Afghanistan: l’antiamericanismo. Nel suo ruolo all’opposizione Khan sarà facilitato dal fatto che il nuovo primo ministro Shehbaz Sharif, fratello del tre volte primo ministro Nawaz, dovrà fare i conti con una coalizione eterogenea, composta da partiti che vanno dalla sinistra alla destra religiosa estrema, ciò che fa dubitare della sua capacità di rispondere alle crisi che attraversano il Paese. A favore di Shehbaz Sharif vi è tuttavia il fatto che, a differenza del fratello Nawaz, mantiene buoni rapporti con l’esercito.

 

Per una volta però, le famiglie Sharif e Bhutto saranno dalla stessa parte: oltre alla Pakistan Muslim League di Sharif, fa parte infatti della coalizione di governo anche il Pakistan People’s Party guidato dal marito e dal figlio di Benazir Bhutto. Un ritorno al potere delle principali «dinastie politiche» del Paese, come le ha definite il Financial Times, celebrato da Bilawal Bhutto Zardari con le parole «bentornati nel vecchio Pakistan».

 

Il cibo c’è, ma i prezzi aumentano. E il Medio Oriente soffre

 

Medio Oriente e Nord Africa sono particolarmente vulnerabile agli aumenti dei prezzi dei beni alimentari e alle interruzioni delle catene di approvvigionamento, duramente messe alla prova da due anni di pandemia e dal blocco temporaneo del traffico attraverso il canale di Suez. Ora la guerra in Ucraina rischia di dare un colpo decisivo alle capacità di approvvigionamento di molti Paesi dell’area.

 

Nel breve periodo, Stati come Egitto, Algeria, Marocco e Turchia cercano di proteggersi vietando l’export di altri beni come zucchero, pasta, cereali, pomodori, olio vegetale, lenticchie e fagioli. Tuttavia, come ha spiegato Anna L. Jacobs, non-resident fellow all’Arab Gulf States Institute, si tratta solo di misure di corto respiro. Purtroppo niente indica che la guerra possa finire velocemente, e perciò occorre che i problemi delle catene di approvvigionamento alimentare siano gestiti attraverso politiche più lungimiranti: è necessario migliorare le capacità di stoccaggio, investire maggiormente nell’agricoltura, nella lotta contro il cambiamento climatico e contro la scarsità d’acqua. I Paesi più dipendenti dal grano russo e ucraino sono quelli del Golfo, ma il benessere economico di cui godono li protegge dall’aumento dei prezzi. Ciò evidenzia che il problema di cui stiamo parlando non è una reale mancanza di materia prima, perché nel 2022 la diminuzione della produzione di grano da parte di Russia e Ucraina sarà compensata dall’aumento di quella di altri produttori, India in primis. Il problema è invece l’aumento dei prezzi causato dalla rottura di alcune catene di approvvigionamento e dalla necessità di sostituirle con altre. Che però sono più lunghe e, conseguentemente, più costose. Se prendiamo ad esempio il Libano, una nave impiega circa una settimana a portare il grano russo-ucraino attraverso il Mar Nero, la metà del tempo che impiega il grano indiano a raggiungere Beirut. Addirittura un mese è il tempo stimato per compiere il tragitto Australia-Libano. L’aumento della durata del viaggio non si traduce soltanto in un aumento dei costi (di trasporto, e infine al consumatore): significa anche che il numero di tratte che ciascuna nave può compiere in un arco temporale prestabilito è inferiore. Dunque, è minore la materia prima che raggiungerà, nel nostro esempio, il Libano.

 

Al contrario di ciò che avviene nel Golfo, nei Paesi più poveri un aumento – anche non eccessivo – dei prezzi causerà enormi difficoltà, esacerbate dal fatto che anche alcune agenzie umanitarie internazionali come il World Food Program sono solite rifornirsi in Ucraina. Lo scenario è peggiorato dal fatto che la Russia è anche il primo esportatore al mondo di azoto, il secondo di fosforo e potassio, fertilizzanti fondamentali per l’agricoltura. Come ha documentato l’Associated Press vi sono già luoghi – come il Kenya – nei quali gli agricoltori non possono svolgere il loro lavoro di semina e raccolta non per via della presenza di insetti infestanti o a causa del maltempo, ma per il costo quintuplicato dei fertilizzanti.

 

Saranno i Paesi più poveri a scontare le conseguenze più gravi. L’Egitto, con i suoi 100 milioni di abitanti deve diversificare i fornitori e per questo sta considerando di aggiungere l’India all’elenco dei paesi da cui importa il grano. Inoltre, se l’Ucraina è considerato il granaio d’Europa, la provincia di Deir ez-Zor è l’omologo per la Siria. Ma qui, come riporta al-Monitor, «gli abitanti lottano contro la fame e la sete». Per lunghe ore infatti il flusso di acqua è interrotto e l’aumento dei prezzi della farina e del pane è un problema sempre più sentito anche nel Nord-Est della Siria e nelle zone vicine all’Eufrate. Inoltre, come ha documentato un recente report elaborato dall’organizzazione olandese Pax, la mancanza d’acqua e l’impossibilità di mietere il raccolto crea ulteriori problemi socioeconomici e securitari. La mancanza d’acqua non colpisce però solo gli agricoltori: senz’acqua infatti non cresce la vegetazione, ciò che si ripercuote sulla capacità dei piccoli allevatori di provvedere al reperimento del cibo per gli animali, che quindi soffrono doppiamente, per la mancanza d’acqua da bere e per gli effetti di questo sull’ambiente circostante.

 

Turchia tra economia e lezioni di religione

 

Spinto dall’aumento del prezzo delle materie prime, a febbraio il disavanzo commerciale della Turchia è aumentato di più di cinque miliardi di dollari, un dato significativamente maggiore rispetto allo stesso periodo del 2021. Al contrario, il dato sulla disoccupazione è leggermente migliorato, attestandosi al 10,7%.

 

Intanto la Corte Costituzionale turca ha stabilito che le lezioni obbligatorie di religione a scuola violano la libertà religiosa. La sentenza pone fine a una battaglia legale iniziata più di 10 anni fa, quando Huseyin El, un alevita, sollevò il caso, affermando il proprio diritto di non far partecipare la figlia alle lezioni. All’epoca lo Stato turco rispose affermando che solo cristiani ed ebrei potevano avanzare una simile richiesta. Non è chiaro come agirà adesso il governo di Erdogan, perché la scelta di rendere obbligatorie le lezioni è diventata «uno dei barometri del graduale rovesciamento dell’educazione secolare introdotta dai primi governi repubblicani in Turchia».

 

Un altro ricercatore ucciso in Egitto

 

Il Consiglio Nazionale per i diritti umani, organo statale egiziano, ha chiesto un’indagine sulla morte dell’economista Ayman Hadhoud, deceduto dopo essere stato internato in un ospedale psichiatrico. Hadhoud era stato arrestato con l’accusa di aver tentato di entrare illegalmente in un appartamento nel quartiere di Zamalek al Cairo e in seguito mandato in ospedale, dove sarebbe morto per arresto cardiaco il 5 marzo. Tuttavia, la famiglia di Hadhoud è stata informata della scomparsa dell’economista soltanto il 9 aprile. Inoltre, due fonti anonime citate da Reuters affermano che Hadhoud è stato arrestato non per un tentativo di intrusione, ma per l’accusa di aver diffuso notizie false e di essere entrato in contatto con un’organizzazione fuorilegge, riferimento generico che solitamente in Egitto indica la Fratellanza musulmana.

 

La morte di Hadhoud desta dunque parecchi sospetti in un Paese nel quale – come ha ricordato La Croix – numerose persone (cittadini e non) sono vittime di tortura e sparizioni forzate. Nondimeno un Paese con cui si fanno affari: se Israele sta cercando di imparare dagli Emirati Arabi Uniti come fare business con il Cairo (Haaretz), anche l’Italia gioca la sua parte, come evidenziato dall’annuncio di una nuova fornitura di GNL dall’Egitto verso l’Europa.

 

Rassegna della stampa araba, a cura di Chiara Pellegrino

Le elezioni francesi viste dal mondo arabo

 

Questa settimana la stampa panaraba ha dato grande rilievo alle elezioni presidenziali in Francia, pubblicando decine di articoli di opinione sui risultati del primo turno, che ha decretato il ballottaggio tra Emmanuel Macron e Marine Le Pen. In linea generale, i commenti riflettono la diffidenza araba verso un presidente uscente che durante il suo mandato ha spesso preso posizioni dure verso i musulmani di Francia, e verso una candidata, Marine Le Pen, che nella campagna elettorale ha promesso di adottare misure ancora più rigide nei confronti della componente islamica del suo Paese qualora dovesse approdare alla presidenza.

 

In ogni caso, tanta attenzione per le elezioni si spiega anche alla luce dell’influenza che la Francia esercita in Europa, Medio Oriente e Africa, come ha spiegato su al-‘Arabī al-Jadīd Ernest Khoury, il quale però ha lamentato l’incapacità dei media arabi di dare un giudizio oggettivo sulle elezioni. I giornalisti, ha spiegato, si dividono tra quanti si sono limitati a commentare stralci di discorsi di Macron e Le Pen, definendo i due candidati molto «simili nelle loro posizioni di destra» e invocando l’aiuto di Dio, «affinché ci liberi dagli oppressori», e chi invece ha semplicemente riportato, il più delle volte con toni populisti, le loro posizioni sulle questioni che riguardano più da vicino gli arabi. Posto che entrambi i candidati sono problematici per gli arabi – Macron «non ha problemi a consolidare le posizioni delle più potenti dittature nel terzo mondo se questo serve gli interessi della Francia»; Le Pen è «un simbolo di incitamento all’odio, al fanatismo, all’isolamento e al razzismo verso tutto ciò che non è francese, non è cristiano e non è bianco e biondo» – secondo al-Khoury gli arabi dovrebbero formarsi un’opinione sulla base di un «criterio etico» anziché lasciarsi guidare dall’ideologia o da discorsi populisti. A differenza dell’ideologia, il «criterio etico» consente infatti di schierarsi contro il fascismo, il razzismo e l’intolleranza in senso ampio e quindi anche contro tiranni del calibro di Vladimir Putin, Bashar al-Assad e Abdel Fattah al-Sisi, e permette di passare da una posizione di risentimento puro a un ruolo attivo, per riuscire a incidere davvero sugli eventi.

 

Sullo stesso quotidiano, il giornalista marocchino ‘Ali Anouzla ha commentato l’exploit di Jean-Luc Mélenchon, leader del partito di sinistra La France Insoumise, arrivato terzo con il 22% dei voti. Definito «l’eroe per eccellenza della campagna elettorale», Anouzla ne ha celebrato «la retorica popolare, la capacità di mobilitare le masse e di persuaderle». A Mélenchon, «uscito dalla battaglia senza glorie», viene anche riconosciuto il merito di aver salvato la faccia della sinistra francese. Questo risultato, tuttavia, non può nascondere la grande sconfitta dei partiti tradizionali di sinistra (socialista e comunista), che vivono uno dei momenti più bui della loro storia essendosi dimostrati incapaci di fornire soluzioni politiche e sociali credibili.

 

Al-Quds si è interrogato su che cosa accadrebbe se a vincere le elezioni dovesse essere Le Pen. Tra Macron e Le Pen, spiega, non ci sono grandi differenze: entrambi hanno adottato politiche interne che sono state fonte di rabbia popolare ed entrambi hanno sostenuto i regimi autoritari arabi e imposto restrizioni ai musulmani francesi in nome della guerra al “terrorismo islamico” (ragion per cui il 70% dei musulmani in Francia ha votato per Mélenchon). Ma soprattutto, entrambi i candidati hanno coltivato i rapporti con Putin. Le Pen però, scrive al-Quds, più di Macron è considerata una candidata filo-russa. Tuttavia, una sua vittoria alle elezioni non significherebbe in automatico anche un allentamento delle sanzioni imposte dall’Occidente alla Russia a seguito della guerra in Ucraina, perché Le Pen potrebbe trovarsi costretta dalle pressioni interne a rivedere le sue posizioni (ciò che sta già in parte avvenendo).

 

Lo stesso quotidiano ha titolato “Uno spettro affligge il mondo: lo spettro del neo-fascismo”. Partendo dal risultato delle elezioni francesi, il politologo franco-libanese Gilbert Achcar ha proposto una più ampia riflessione sull’ascesa delle destre in Occidente e in Medio Oriente e sulla diffusione del neo-fascismo che, ha spiegato, a differenza del fascismo di vecchio stampo agisce nel rispetto delle regole della democrazia elettorale. La responsabilità dell’ascesa delle destre (in Austria, Ungheria, Italia con il governo di Salvini, India e Stati Uniti con il presidente Trump) viene attribuita ai «partiti capitalisti tradizionali che persistono nelle politiche neoliberiste alienando un numero sempre maggiore di persone» le quali, per reazione, votano l’estrema destra. Quest’ultima cerca di indirizzare il malcontento popolare contro capri espiatori: i musulmani nel caso dell’India, della Cina, dell’Europa e della Russia, i neri nel caso degli Stati Uniti. Achcar ha concluso dicendo che le dittature di destra non prevarranno per il semplice fatto che, sul lungo periodo, la storia dell’umanità procede in direzione della libertà, della democrazia e del miglioramento delle condizioni di vita delle società. La speranza è che il prezzo da pagare per porre fine al neo-fascismo non sia però una terza guerra mondiale.

 

Chi è responsabile della caduta di Imran Khan?

 

Su al-Arabī al-Jadīd, il ricercatore saudita Muhanna al-Hubayl ha indagato i rapporti di forza tra l’esercito pakistano e i primi ministri che si sono susseguiti nella breve storia del Pakistan (indipendente dal 1947) e ha cercato di rispondere alla domanda su chi davvero ha decretato la caduta di Imran Khan. Tra gli arabi, ha spiegato, si è diffusa l’idea che Washington sia responsabile della caduta del governo pakistano, come peraltro lo stesso Imran Khan ha voluto far credere ai suoi cittadini nel tentativo di mobilitare a proprio favore il sostegno dell’opinione pubblica. La verità, tuttavia, sarebbe un’altra: la decisione di rimuoverlo, ha spiegato al-Hubayl, è stata presa dall’esercito pakistano seppure con il benestare degli Stati Uniti, entrambi preoccupati dalle politiche estere adottate da Khan, che stava pian piano allontanando il Paese dalla NATO e dalla storica alleanza con Washington. Il ricercatore conclude dicendo che l’esercito ha di fatto tradito lo spirito del fondatore del Pakistan Mohammad Ali Jinnah e del filosofo Muhammad Iqbal, i quali credevano in uno Stato la cui identità e il cui valore supremo fosse l’Islam, ma fondato sulla vita parlamentare. Se la loro idea di Paese non si è realizzata è perché l’esercito ha impedito la nascita di uno Stato civile.

 

Sulle vicissitudini storiche del Paese e il ruolo giocato dall’esercito si è concentrato anche Hazem Saghieh su al-Sharq al-Awsat, che ha ripercorso brevemente le tre guerre combattute e perse dal Pakistan contro l’India (1965, 1971 e 1999), le tensioni nate con l’Afghanistan, la serie di colpi di stato militari e la tragica fine di alcuni dei capi di Stato e dei capi di Governo, che si sono susseguiti dal 1947 a oggi, morti di morte violenta.

 

Secondo il quotidiano libanese al-Nahār, «Imran Khan è una vittima dell’esercito e degli americani». Da tempo, ha scritto l’editorialista Mohammad Hussein Abu al-Hasan, Washington considerava il primo ministro pakistano una minaccia per gli interessi occidentali in Asia centrale e sperava nella formazione di un governo la cui agenda fosse coerente con i propri orientamenti. Da parte sua, il leader pakistano non ha mai nascosto la sua ostilità verso gli Stati Uniti. In passato Khan aveva descritto i governanti del mondo islamico come «burattini nelle mani di Washington» ed è arrivato al governo con un programma politico fondato sul rifiuto di subordinare il suo Paese agli USA. Secondo l’editorialista di al-Nahār, nell’ultimo mese Khan avrebbe fornito agli americani l’occasione di eliminarlo politicamente rifiutandosi di condannare l’invasione russa dell’Ucraina e intensificando contestualmente le sue relazioni con Mosca e con Pechino, a scapito degli Stati Uniti.

 

In breve

 

Come ha scritto David Ignatius sul Washington Post, il primo ministro iracheno Mustapha al-Khadimi è uno dei pochi leader favorevoli a lavorare con gli Stati Uniti rimasti in Medio Oriente. Ma la sua posizione è minacciata dall’impasse politica in cui si trova l’Iraq e, soprattutto, dall’esito dei negoziati sul nucleare iraniano: se falliscono «l’Iraq sarà probabilmente una vittima».

 

Secondo quanto appreso da L’Orient-Le Jour, spinta dalle richieste francesi e dai timori per la conclusione di un accordo sul nucleare, l’Arabia Saudita sta tornando a esercitare la sua influenza sul Libano, per provare a favorire alle prossime elezioni le forze politiche che si oppongono a Hezbollah.

 

Le sanzioni imposte dall’ECOWAS al Mali per via del colpo di stato militare stanno avendo importanti ripercussioni anche sul Senegal, scrive Le Monde.

 

Continua a crescere la tensione tra israeliani e palestinesi: tra mercoledì e giovedì almeno cinque palestinesi sono stati uccisi dalle forze di sicurezza israeliane, scrive la BBC. Nelle ultime settimane sono invece 12 gli israeliani deceduti in attacchi palestinesi.

 

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