Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale e quella araba

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 16:06:15

Mentre la nazionale di calcio tedesca polemizzava mettendosi una mano sulla bocca a indicare il presunto bavaglio imposto ai giocatori, ai quali è stato impedito l’utilizzo della fascia “one love”, il governo di Berlino negoziava con le autorità di Doha per la fornitura del gas naturale liquefatto estratto dai giacimenti di South Pars East, condivisi con l’Iran. Le trattative si sono concluse e Berlino si è assicurata la fornitura di GNL da parte del Qatar grazie a un accordo della durata di 15 anni. Come si legge su ABC News, non sono trapelate indicazioni circa il valore economico dell’affare, ma il Qatar si impegna a fornire fino a due milioni di tonnellate di GNL all’anno, che transiteranno in Germania attraverso l’impianto in costruzione di Brunsbuettel. Le forniture, stima il Financial Times, inizieranno nel 2026 e secondo i dati riportati dal Guardian copriranno circa il 3% del consumo energetico annuo della Germania. Cionondimeno, quanto concordato è significativo perché indica che la «Germania ha deciso di focalizzare la propria strategia sulla diversificazione delle fonti di approvvigionamento e in questo senso preferisce volumi più piccoli ma da fonti diverse e affidabili», ha affermato Cinzia Bianco, intervistata da al-Monitor. Ma soprattutto, quanto avvenuto è significativo per il Qatar, che è riuscito a convincere uno dei fautori più convinti della transizione energetica «a importare combustibili fossili oltre la fatidica data del 2035, un segnale politico chiave [inviato] agli investitori nel settore oil&gas: è ancora possibile scommettere sugli idrocarburi e finanziare l’espansione di progetti» voluti dal Qatar e dalle altre monarchie del Golfo.

 

Mentre il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha definito l’accordo (che coinvolge QatarEnergy, la quale venderà il gas all’americana Conoco Phillips, che a sua volta lo trasporterà in Germania) un passo fondamentale verso la sicurezza energetica tedesca, messa a dura prova dall’interruzione delle forniture russe, il ministro dell’energia qatarino Saad Sherida Al-Kaabi ha sottolineato che quindici anni è la durata minima dell’accordo e che l’emirato, nel suo modo di operare, distingue chiaramente tra business e politica. Quello siglato tra Qatar e Germania è anche il primo accordo a lungo termine formalizzato da un Paese europeo dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Gli Stati europei sono infatti restii a firmare intese di lungo periodo sulla fornitura di combustibili fossili, in considerazione della dichiarata intenzione di proseguire il percorso verso la decarbonizzazione. 

 

I mondiali di calcio in Qatar, intanto, proseguono e non sono soltanto occasione di polemica. Come ha osservato Vivian Nereim sul New York Times, la Coppa del Mondo ha anche permesso ad Arabia Saudita e Qatar, che solo recentemente hanno riallacciato i rapporti dopo la crisi del 2017, di fare bella mostra della loro ritrovata sintonia. Lo ha testimoniato la presenza a Doha di Muhammad bin Salman insieme all’emiro del Qatar Tamim bin Hamad Al Thani. Nereim ha sottolineato però come, sebbene la crisi tra il Qatar e gli altri Paesi del Golfo sia formalmente terminata, non tutto è risolto: continuano a non esserci voli diretti da e per il Bahrein, le relazioni con gli Emirati restano complicate e perfino con i sauditi non tutto fila liscio, se consideriamo che la sera dell’inizio della competizione le autorità di Riyad hanno bloccato lo streaming del diffusissimo canale satellitare qatarino beIN Sport.

 

Il New York Times si è soffermato anche sul sistema di ospitalità che è stato organizzato negli stadi qatarini per il Mondiale. La novità descritta dal quotidiano newyorkese è che il tanto discusso divieto di consumo di alcolici negli stadi non sembra valere per gli ospiti degli spazi denominati VVIP, ovvero quelli che siedono un gradino ancora più in alto dei posti dedicati alle very important people, riservati solo a pochi capi di Stato e ai loro ospiti. In queste sale riservate degli stadi, affittate a migliaia di dollari, è possibile trovare non solo la birra che tanto ha fatto discutere, ma anche champagne e superalcolici.

 

Intanto si continua a parlare non solo dei diritti delle persone LGBT ma anche del numero degli operai morti nel corso dei lavori per la costruzione delle infrastrutture necessarie per lo svolgimento dei mondiali. Hassan Al-Thawadi, il funzionario qatarino responsabile delle costruzioni per la Coppa del Mondo, ha affermato durante un’intervista televisiva che il numero di lavoratori stranieri deceduti si attesta tra i 400 e i 500, un numero ben più alto dei tre finora riconosciuti dal Qatar. Subito dopo, come riporta il Financial Times, il “Supreme Committee for Delivery and Legacy” ha diramato un comunicato in cui ribadisce che sono soltanto tre le persone morte nei siti di costruzione del mondiale, e che i numeri menzionati da Al-Thawadi si riferivano invece «a tutte le fatalità avvenute in ambito lavorativo in Qatar, in ogni settore e di ogni nazionalità nel periodo dal 2014 al 2020».

 

Khamenei loda i basij

 

Appena dopo che l’alto commissario ONU per i diritti umani Volker Turk ha avvertito che l’Iran si trova nel pieno di una «crisi dei diritti umani», la guida suprema Ali Khamenei ha tenuto a lodare l’attività repressiva del corpo dei basij, ala dei guardiani della rivoluzione dispiegata nelle strade per cercare di mantenere l’ordine. «Di fronte al nemico sul campo di battaglia i basij hanno sempre dimostrato di essere coraggiosi», ha detto Khamenei, il quale, in un completo rovesciamento dei fatti, ha anche affermato che «i nostri innocenti e oppressi basij sono diventati l’obiettivo dell’oppressione per impedire alla nazione» di essere colpita da «rivoltosi, criminali e da coloro che sono a libro paga del nemico». Più o meno lo stesso copione messo in scena dal generale Hossein Salami, comandante dei pasdaran, il quale si è recato in visita a Zahedan, nella provincia orientale del Baluchistan. Qui Salami, dopo aver minacciato un’ulteriore repressione violenta delle manifestazioni, ha promesso di trasformare questa «scena della sedizione in un terreno di sepoltura per le politiche degli Stati Uniti, di Israele e dei loro alleati». Teheran è preoccupata di quanto avviene nelle sue regioni periferiche, abitate da minoranze etniche e in alcuni casi teatri di pulsioni indipendentiste. È in quest’ottica che va letto anche l’incontro tra Ebrahim Raisi e il primo ministro iracheno Mohammed al-Sudani. Quest’ultimo ha reso noto che l’Iraq rafforzerà la cooperazione militare con l’Iran e soprattutto che Baghdad non permetterà «l’uso del proprio territorio per minacciare la sicurezza» del vicino persiano. Si tratta di dichiarazioni pienamente in linea con la visione di Teheran, secondo cui le proteste di questi mesi prendono forza proprio a causa delle infiltrazioni dal Kurdistan iracheno.

 

Opinione diametralmente opposta quella dell’attivista Farideh Moradkhani, la quale ha definito «omicida» il regime guidato da Khamenei e ha invitato la comunità internazionale a interrompere ogni rapporto con la Repubblica Islamica. Farideh è stata arrestata mercoledì dopo essersi presentata in tribunale per notificare un’ordinanza. Da notare che Farideh è nipote di Khamenei, essendo figlia della sorella della guida suprema e del chierico Ali Tehrani, membro dell’opposizione a Khamenei morto un mese fa.

 

Preoccupazione per l’annunciata offensiva turca in Siria

 

Abu al-Hassan al-Hashemi al-Qurashi, leader dello Stato Islamico, è stato ucciso in Siria, nella provincia sud-occidentale di Deraa in un’operazione condotta secondo fonti statunitensi dall’Esercito Libero Siriano, senza il coinvolgimento di militari americani. L’organizzazione terroristica ha immediatamente nominato il successore in Abu al-Hussein al-Husseini al-Qurashi. Come ha scritto la BBC, si tratta di un altro «nome di guerra», mentre il vero nome, la nazionalità e il background del nuovo leader di ISIS non sono stati rivelati. Del resto, ben poco si sapeva anche del defunto predecessore, che non aveva rilasciato comunicati ufficiali nella sua funzione di capo dello Stato Islamico.

 

Come ha sottolineato Jared Szuba su al-Monitor gli Stati Uniti sono preoccupati per quanto potrebbe avvenire nelle regioni settentrionali della Siria dove è stata annunciata una nuova offensiva turca. In particolare, si legge, l’operazione potrebbe mettere a repentaglio la vita dei soldati americani presenti nella zona e comunque rallenta e in alcuni casi ferma le azioni che vengono condotte contro lo Stato Islamico. Peggio ancora, scrive sempre al-Monitor, è a rischio la sicurezza in un carcere dove sono detenuti circa 10.000 ex combattenti dell’organizzazione jihadista.

 

In breve

 

Almeno dieci studenti sono morti in un attacco che ha avuto luogo in una madrasa nella provincia afghana di Samangan (Washington Post).

 

A due giorni dalla fine del cessate-il-fuoco tra i talebani pakistani e il governo di Islamabad, il gruppo Tehreek-e-Taliban Pakistan ha compiuto un attacco a Quetta nel quale sono rimaste uccise tre persone che erano incaricate di garantire la sicurezza del personale impegnato nelle vaccinazioni anti-polio (Al-Jazeera).

 

Visto il “successo” dei droni turchi Bayraktar, Ankara starebbe considerando la realizzazione di una classe di navi da guerra “porta-droni” (War On The Rocks).

 

Su indicazione di Amin Maalouf, l’Académie Française ha assegnato al quotidiano libanese L’Orient le Jour la Gran Medaglia della Francofonia

 

 

 

La “qatarsi” di Doha

Rassegna della stampa araba a cura di Mauro Primavera

 

Chi pensava che l’agonismo e l’adrenalina dei gironi a eliminazione avrebbero silenziato il brusio delle tante voci critiche nei confronti della Coppa del Mondo dovrà ricredersi. Anzi, più il Mondiale entra nel vivo della competizione, più la polemica divampa sulle pagine dei giornali panarabi, infastiditi dal clamore, a loro dire ingiustificato, sulla questione dei diritti umani in Qatar. Il più attivo e meno diplomatico fra tutti è senza dubbio al-‘Arabi al-Jadid, che difende a spada tratta il Paese organizzatore, nonché suo principale finanziatore. Eloquente il titolo di un articolo pubblicato lunedì 28 novembre : “Questa sistematica campagna razzista contro il Mundial del Qatar”, accompagnato da una vignetta che mostra una partita in cui a sfidarsi non ci sono calciatori, ma cartelli e insegne di contestazioni e rivendicazioni extra-sportive, insomma slogan politici al posto dei tradizionali messaggi di incoraggiamento alle nazionali.

 

Questo risentimento diventa sempre più evidente man mano che si scorre il testo dell’articolo. In maniera simile a quanto avevamo segnalato nella rassegna della scorsa settimana, si sostiene che il Qatar, per il solo fatto di essere un Paese arabo e musulmano, sia vittima di una «metodica campagna razzista» perpetrata fin dall’assegnazione del torneo dalla Fifa di Blutter, nel lontano 2010. Qualsiasi pretesto risulta quindi buono per mettere in cattiva luce Doha, da quello «trito e ritrito» sul divieto di consumare bevande alcoliche dentro e fuori gli stadi («la Francia aveva fatto la stessa cosa a Euro 2016 [..] senza suscitare reazioni») alla decisione di organizzare i Mondiali «in inverno (sic)», idea che al-‘Arabi trova invece «creativa, innovativa e opportuna» poiché si sostituisce alla pausa dicembrina già presente nei calendari dei campionati europei.

 

Veniamo ora al nodo centrale delle polemiche, ossia il tema delle libertà e dei diritti umani per i lavoratori, per le donne e per gli omosessuali. Il giornale smonta punto per punto ogni singola accusa, ricordando come il Paese, in quanto «membro delle Nazioni Unite e della Comunità Internazionale, ha contribuito, grazie alla sua mediazione, a “spegnere incendi” e a risolvere numerose crisi regionali, persino internazionali»; la condizione di donne e gay non viene approfondita, ma si fa notare il doppiopesismo rispetto a quanto avvenuto nella precedente edizione del torneo svoltasi nel 2018 in Russia, Paese «coinvolto nell’invasione e nell’intervento militare della Siria, dove si è macchiata di crimini di guerra», come quello della «terra bruciata», riapplicato in questi mesi in Ucraina. 

 

Al Jazeera sottolinea, pur con toni meno accesi, i risultati concreti portati dal torneo. A livello di diritti, spicca la nomina di tre «arbitri donne» che, per la prima volta nella storia della FIFA, dirigeranno alcune partite della competizione sportiva più importante del mondo. A livello geopolitico, grande risalto ha avuto la foto che ritrae il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan mentre stringe la mano al suo omologo egiziano ‘Abd al-Fattah al-Sisi, in quello che potrebbe segnare un punto di svolta nelle relazioni tra Turchia ed Egitto (che però non partecipano alla fase finale della Coppa del Mondo); anche se questo riavvicinamento era già in corso, l’emittente qatariota non si è lasciata sfuggire l’occasione di esaltare la «diplomazia del pallone», uno dei tanti strumenti di soft power a disposizione dell’Emirato. Da un punto di vista culturale e identitario, una seguitissima rubrica del canale televisivo dell’emittente, Fawq al-Sulta (“Sopra il potere”), ha evidenziato il ruolo dell’ambasciatore ufficiale della Coppa del Mondo Ghanim Muftah, “ispiratore qatariota” affetto da gravi disabilità che alla cerimonia di apertura ha recitato alcuni versetti del Corano, tra cui il numero 13 della sura 49 “Le Stanze” («O uomini! Vi abbiamo creato da un uomo e da una donna e abbiamo fatto di voi nazioni e tribù perché vi conosceste l’un l’altro»): messaggio che oltre a essere in linea con il tema dei diritti e dell’inclusività – un invito a «conoscere l’altro, piuttosto che a rifiutarlo» – dà all’evento una forte connotazione culturale e segnala che «l’identità è più di un passatempo», espressione che in arabo diventa un gioco di parole: «al-huwiyya fawq al-hiwāya».         

 

Anche al-Quds al-‘Arabi condivide la visione di al-‘Arabi al-Jadid e Al Jazeera: il torneo, tra partite avvincenti e composti festeggiamenti di tifosi e turisti, procede senza intoppi, malgrado le voci «di chi aveva interesse a vedere uno Stato mediorientale fallire la gestione organizzativa». Il giornale, in primo luogo, minimizza la polemica sollevata «da coloro che si fanno chiamare “omosessuali”, rientrata rapidamente per lasciar spazio alle partite». In secondo luogo, procede a “estrarre” alcuni cartellini metaforici: uno giallo alla ministra degli interni tedesca per le sue dichiarazioni «infantili» sull’arretratezza del Paese in materia di diritti dei lavoratori, seguiti da altri dello stesso colore ai media occidentali per la loro faziosità. Rosso diretto, invece, ai giornalisti israeliani presenti a Doha per il fatto di aver mostrato, durante la loro corrispondenza, un «clima ostile e inospitale» innescando dei «sentimenti di odio» che a loro appaiono «incomprensibili, perché si sono illusi che l’ipocrita accoglienza a loro riservata da più di un Paese arabo e la firma dei cosiddetti “Accordi di Abramo” bastasse a creare uno spirito arabo nuovo, dimenticando del tutto il nocciolo del problema che è cosa nota da decenni». Al-Quds auspica che questo «sentimento poco conciliante faccia riflettere i decisori politici dello Stato ebraico sul fatto che la normalizzazione con alcuni Stati arabi non ha alcun valore fintantoché continuerà a perdurare la loro detestabile occupazione e le loro azioni ostili».

 

In effetti il Mundial ha permesso ai tifosi arabi (e non) di manifestare il loro sostegno a favore della causa palestinese, riportando all’attenzione un tema che negli ultimi tempi non figurava più tra le priorità dei governanti arabi. Eloquente, a tal proposito, la prima pagina di Sawt el-Azhar, settimanale della moschea-università cairota, su cui compare una immaginaria squadra di “martiri” – tra cui la giornalista Shireen Abu Aqleh e il reporter italiano Simone Camilli, ucciso a Gaza nel 2014 – che, imitando il gesto della nazionale tedesca, si copre la bocca con la mano per denunciare il silenzio sulla Palestina. Il direttore di ‘Arabi21 Firas Abu Hilal ha espresso soddisfazione di fronte a questi spontanei esempi di solidarietà, aggiungendo che a livello mediatico «la Palestina batte Israele per uno a zero», con tanto di cartellino rosso (le metafore si sprecano) agli accordi di Abramo. Resta però una domanda: se la linea ufficiale di Doha è quella di evitare qualsiasi questione extra-calcistica negli stadi, come si possono allora giustificare i cori pro-Palestina? Hilal ammette che «non bisogna mischiare sport e politica», ma precisa che esistono «criteri diversi a seconda della causa», e che, dopotutto, «anche gli europei hanno manifestato a favore dell’Ucraina». Per al-Quds al-‘Arabi i tifosi hanno «espresso in maniera palese il loro dissenso nei confronti di quei Paesi che hanno deciso di avviare il processo di normalizzazione con Israele, in quanto rappresenta un’occasione per leggere i sentimenti dei popoli della Terra».   

 

In definitiva i Mondiali, come ricorda in un articolo per al-‘Arabi al-Mahdi Mabruk – accademico ed ex ministro della cultura del governo tunisino nel 2012-13 – dovrebbero svolgere una funzione ben precisa, dal significato quasi “catartico”, lasciandosi alle spalle, almeno momentaneamente, le crisi e le divergenze in seno al mondo arabo-musulmano per celebrare, attraverso lo sport, l’unità di cultura e valori: «naturalmente lo sport non può essere distaccato dalla politica e come arabi vogliamo mettere a segno delle vittorie calcistiche in modo da dimenticare certe nostre delusioni e croniche sconfitte. A prescindere dal peso della vittoria, sia essa ampia o di misura, noi la viviamo come un’ossessione che ci domina ogni quattro anni […] riteniamo che lo sport ci stia concedendo una “occasione più unica che rara” per annullare questo triste ritardo storico». A tal proposito segnaliamo l’entusiasmo della testata marocchina al-Sabah per il passaggio agli ottavi dei “Leoni dell’Atlante” e la gioia dell’omonimo quotidiano tunisino nell’omaggiare la propria nazionale che, seppur non qualificata, battendo la Francia si merita con orgoglio questo titolo: «non siamo usciti dalla porta piccola».

 

Tutto ciò a conforto della tesi di Mabruk, il quale arriva addirittura a sostenere che il pallone abbia unito gli arabi come nessun altro ha saputo fare nel passato e nel presente: né Gamal ‘Abd al-Nasser negli anni Cinquanta e Sessanta con la sua retorica panaraba, né il recente vertice di Algeri che, al contrario, ha fatto emergere le molteplici linee di frattura all’interno della Lega Araba.         

 

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