Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale e quella araba

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 16:03:44

Il grande obiettivo stabilito alla COP21 di Parigi nel 2015, cioè mantenere l’aumento della temperatura globale entro gli 1,5 gradi centigradi è, ormai, irraggiungibile: secondo l’Economist le emissioni prodotte dal 2015 ad oggi indicano chiaramente che i percorsi immaginati per attuare le decisioni della conferenza parigina non hanno più, oggi, alcuna credibilità. 

 

È in questo contesto che la COP27 ha preso il via a Sharm el-Sheikh, in Egitto. Secondo le prime ricostruzioni fatte da al-Monitor, i punti più importanti emersi durante i primi giorni di lavoro riguardano il finanziamento delle politiche climatiche, la crescente insicurezza alimentare dovuta in parte all’aumento della desertificazione, l’emergenza alimentare e quella idrica. Per quel che riguarda i finanziamenti, uno degli elementi fondamentali emersi in questi giorni è la quantità insufficiente di denaro destinato alle politiche climatiche: queste somme hanno raggiunto gli 850 miliardi di dollari nel 2018, ma dovrebbero aumentare del 200-400% per essere adeguate agli obiettivi stabiliti durante la COP21. Queste cifre sono «necessarie per raggiungere un’economia resiliente a zero emissioni entro il 2050», hanno affermato le Nazioni Unite, mentre il capo del Fondo Monetario Internazionale Kristalina Georgieva ha dichiarato che il prezzo fatto pagare per le emissioni di anidride carbonica deve ancora aumentare significativamente così da incentivare la transizione energetica verso le fonti non fossili. Queste affermazioni, tuttavia, non colgono quello che Ted Nordhaus, Vijaya Ramachandran e Patrick Brown su Foreign Policy ritengono essere il punto più importante: anziché insistere sulla necessità di finanziare la lotta al cambiamento climatico, occorrerebbe riconoscere che la priorità è lo sviluppo economico dei Paesi del Sud globale (che, come si legge su al-Jazeera, necessitano di 2.000 miliardi di dollari all’anno per combattere i cambiamenti climatici). Quella dello sviluppo è, secondo gli autori del saggio pubblicato dal magazine americano, la via migliore per permettere alle popolazioni locali di sopportare i cambiamenti climatici che già li affliggono.

 

In questa puntata del focus ci concentriamo, più che sul contenuto delle discussioni della COP27, su due elementi che sono emersi con forza a margine della conferenza: il primo è proprio lo stato attuale della crisi climatica e i suoi effetti che già colpiscono il bacino del Mediterraneo allargato. Il secondo riguarda un aspetto su cui la stampa si è soffermata a lungo: le violazioni dei diritti fondamentali da parte del Paese ospitante, l’Egitto.

 

Come si legge sul sito di MED, «la regione MENA (Medio Oriente e Nord Africa) sta bruciando»: nell’area mediterranea «il riscaldamento è del 20% più veloce della media globale» e problemi come «devastanti ondate di caldo, scarsità d’acqua, perdita di biodiversità e pericoli alla produzione di cibo» stanno già colpendo duramente l’area. Marocco, Algeria e Tunisia stanno faticosamente avviando piani di costruzione di impianti di desalinizzazione e dighe, ma Francisco Serrano, giornalista specializzato sul Nord Africa, concorda nel ritenere che la scarsità d’acqua resterà un problema strutturale nel Maghreb. Tuttavia, se nel breve periodo la mancanza d’acqua «continuerà a essere l’innesco di disordini sociali», nel medio periodo essa porterà «una minaccia alle operazioni economiche e alla stabilità politica».

 

Nel Levante arabo la situazione non è migliore: Karen Zraick (New York Times) si è soffermata sulla situazione in Giordania, dove l’acqua è sempre più scarsa a causa dell’effetto combinato dei cambiamenti climatici, della crescita demografica, «di un’infrastruttura danneggiata e inefficiente, e delle considerevoli sfide poste dalla geografia e topografia specifiche» del Paese. Tutto ciò fa sì che tra la popolazione cresca la preoccupazione di rimanere senza acqua: «se vuoi sentirti libero, hai bisogno di tre taniche» per fare scorte, ha detto Rajaa al-Bawabiji, avvocato di Amman. Per di più, le poche risorse idriche si trovano vicino ai confini, ciò che ne rende necessario il trasporto verso i centri abitati, una pratica definita dal New York Times «energy-intensive». Inoltre, in ragione dell’aumento dei prezzi del carburante, è sempre più costoso spostare le risorse idriche da dove si trovano a dove vengono consumate.

 

Come accade di frequente, l’impatto negativo dei cambiamenti climatici è causato o quantomeno amplificato da attività antropiche che troppo spesso sono spregiudicate e incuranti. Un esempio è la zona di Santa Caterina, in Egitto, che dal 1989 è dichiarata riserva naturale. Secondo MadaMasr i progetti di costruzione avviati in questa zona naturale mettono in serio pericolo l’ambiente locale. Lo schema è lo stesso in Iran, Paese che si classifica al sesto posto mondiale tra quelli che contribuiscono maggiormente alle emissioni di gas serra e che non ha ratificato gli impegni della COP 21 di Parigi: il contesto ambientale è danneggiato da «decenni di cattiva gestione ed esacerbato dal cambiamento climatico», per usare le parole di Sanam Mahoozi su al-Jazeera. Così, un fiume che scorreva a Teheran è ormai scomparso, e la stessa sorte, si legge, è toccata al lago di Urmia.

 

Un altro esempio di come le scelte dell’uomo influenzino i cambiamenti climatici arriva dallo Yemen. In questo Paese della penisola arabica devastato dalla guerra e segnato dalla scarsità d’acqua, una popolazione allo stremo coltiva una pianta chiamata Qat, le cui foglie contengono sostanze stimolanti che danno dipendenza. Il Qat, si legge in un’analisi pubblicata da Reuters, è in grado di generare ricavi molto superiori a qualsiasi altra coltura che potrebbe essere effettuata in Yemen, ma necessita per la crescita di un «uso sproporzionato di acqua». Questo rende sempre più precario l’approvvigionamento idrico della popolazione, costretta a scavare pozzi che, stando a quanto pubblicato dalla Reuters, arrivano a 500-1000 metri di profondità.

 

Nonostante tutto questo, nel corso di questa settimana diversi media hanno denunciato come l’appetito per la vendita di idrocarburi, specialmente ora che i prezzi sono elevati, non sia venuto meno. Al contrario, come ha scritto Viviane Yee, «vendere combustibili fossili [gas in particolare] è una priorità» anche per l’Egitto che ospita la COP27. Tanto che il Cairo ha chiesto ai propri cittadini di ridurre al minimo i propri consumi, così da poter esportare il più possibile verso l’Europa. Del resto questa è l’indicazione che arriva proprio dai Paesi occidentali che, come ricorda Middle East Eye, sulla scia dell’invasione russa dell’Ucraina continuano a spingere i Paesi produttori, specialmente quelli del Golfo, a estrarre più petrolio. In questo scenario di «rinnovate preoccupazioni per la sicurezza energetica», i Paesi del Golfo (come gli Emirati, che ospiteranno la prossima COP) hanno buon gioco a definire come «non realistici» gli obiettivi della lotta al cambiamento climatico.

 

Per l’Egitto, una nazione che deve fare i conti con una difficile situazione economica e frequenti critiche per la situazione dei diritti umani, «ospitare la COP27 è un’opportunità per proiettare influenza, attrarre investimenti e promuovere il proprio ruolo di leader regionale». Per dare credibilità a questa posizione le autorità egiziane hanno cercato di dare un volto green a Sharm, città che si sostenta grazie a un turismo di massa alimentato – come ha scritto Heba Saleh sul Financial Times – dalla possibilità di raggiungere la costa del Mar Rosso con voli molto economici. Così, un nuovo impianto solare è stato inaugurato ad ottobre, mentre una flotta di bus elettrici è stata recentemente messa in funzione. Inoltre, proprio durante i giorni della conferenza, il Cairo ha lanciato il suo primo progetto per produrre idrogeno verde in un impianto nella zona economica del Canale di Suez.

 

Come però anticipavamo in apertura, gran parte dell’attenzione mediatica relativa alla COP27si è concentrata sul Paese ospitante e sulle sue violazioni dei diritti umani. «Con gli occhi puntati sull’Egitto, la COP è un’opportunità per parlare e ottenere dello spazio per respirare. Può salvare vite se il riflettore continuerà a restare puntato sui diritti umani e se i governi terranno in considerazione [questo aspetto] nel loro coinvolgimento con le autorità egiziane», ha dichiarato la sorella di Alaa Abdel Fattah, uno dei più noti prigionieri politici incarcerati in Egitto. Domenica scorsa Alaa, che da 220 giorni porta avanti uno sciopero della fame, ha smesso anche di assumere acqua, mentre sua sorella Mona Seif si è appellata al presidente americano Joe Biden affinché questi sollevi il caso di Alaa nel corso dell’incontro con al-Sisi, che dovrebbe avvenire venerdì. Secondo le cifre diramate da Agnès Callamard, segretario generale di Amnesty International, a fronte del rilascio di oltre 700 detenuti politici nell’arco del 2022, il Cairo ne avrebbe arrestati oltre 1500 da aprile ad oggi. Consapevoli di essere attaccabili su questo aspetto, le autorità egiziane hanno cercato in ogni modo, attraverso i controlli, la sorveglianza, e la complessità burocratica, di impedire agli attivisti, tanto quelli per il clima quanto quelli per i diritti umani, di partecipare alle conferenze organizzate a Sharm.

 

Le proteste in Iran segnano la fine… del riformismo

 

In Iran le giornaliste Niloufar Hamedi e Elaheh Mohammadi sono state accusate dai magistrati di «collusione in azioni contro la sicurezza nazionale e propaganda contro la Repubblica Islamica». Rischiano ora fino a cinque anni di carcere. Di cosa sono responsabili Hamedi e Mohammadi? In estrema sintesi, di aver fornito copertura giornalistica alla morte di Mahsa Amini. In particolare, Hamedi si era soffermata su come Mahsa fosse entrata in coma dopo l’arresto da parte della polizia religiosa, mentre Mohammadi aveva raccontato i funerali della ragazza nella sua città natale nel Kurdistan iraniano. Circa un mese fa un comunicato dei servizi segreti iraniani aveva affermato che le due giornaliste avrebbero svolto attività di “training” con la CIA.

 

Nonostante la repressione, nelle città dell’ovest del Paese mercoledì sono stati indetti nuovi scioperi per commemorare i quaranta giorni dal massacro avvenuto a Zahedan, dove il 30 settembre le forze di sicurezza hanno ucciso almeno 92 manifestanti. Le proteste (e le contro-manifestazioni spesso animate da donne pro-regime, descritte da Anchal Vohra su Foreign Policy) proseguono e il Fronte Riformista iraniano, fondato l’anno scorso da figure vicine a Mohammad Khatami, ha chiesto alle autorità «cambiamenti coraggiosi e innovativi», tra cui un referendum, nel tentativo di porre fine alla crisi. Secondo Henri Rome (Washington Institute), tuttavia, il regime è del tutto incapace di operare anche le minime riforme e l’appello cadrà nel vuoto. Lo sforzo riformista di influenzare l’andamento degli eventi non ha finora avuto successo perché anche i politici di questo campo risultano ormai screditati «dopo anni di falliti tentativi di produrre qualche cambiamento» del sistema politico iraniano, si legge in un’analisi pubblicata da Reuters. Se lo scopo delle manifestazioni di questi ultimi due mesi è quello di porre fine alla Repubblica islamica, ciò che è avvenuto finora è piuttosto la definitiva sconfitta del movimento che aveva generato grandi speranze di cambiamento durante le presidenze Khatami (1997-2005). Paradossalmente, dunque, il risultato finora ottenuto dai manifestanti non dovrebbe dispiacere troppo proprio ai segmenti più conservatori del sistema teocratico.

 

L’estremo è diventato mainstream in Israele

 

Benjamin Netanyahu ha vinto le elezioni in Israele ma, per poter governare, il suo partito, il laico Likud, dovrà stringere un’alleanza con i partiti del Sionismo religioso che fino a poco tempo fa erano confinati «ai margini della società israeliana» e oggi sono invece al centro della vita pubblica del Paese. Secondo il Wall Street Journal il risultato delle ultime elezioni permetterà agli ultranazionalisti israeliani di «avanzare idee un tempo considerate estreme ma che ora fanno parte del mainstrem di Israele: annettere parti della West Bank occupata, affermare una più forte presenza ebraica nei luoghi santi contesi di Gerusalemme, ed espandere drasticamente gli insediamenti» in Cisgiordania.

 

Sorte diametralmente opposta è toccata alla sinistra israeliana, sul cui stato si sofferma il New York Times: il partito laburista ha ottenuto a malapena quattro seggi, mentre Meretz non è riuscito a entrare alla Knesset. Il declino di quest’area politica in Israele non è certo una novità di queste elezioni, ma l’entità della débâcle ha scioccato molti elettori, si legge. Ora i leader della sinistra israeliana affermano la necessità di cambiamento, ma sono in disaccordo su come metterlo in atto.

 

 

“Solo inchiostro su carta”. I commenti dei giornalisti arabi a margine del COP-27

Rassegna dalla stampa araba a cura di Mauro Primavera

 

La conferenza sul clima del COP-27 in corso a Sharm al-Sheikh (appuntamento che mancava da sei anni nel continente africano) ha avuto grande risalto sulle testate arabofone. L’interesse non è dovuto soltanto al Paese ospitante, l’Egitto, ma anche al fatto che il Medio Oriente è una delle zone del pianeta tra le più colpite dagli effetti del riscaldamento globale, a cui si aggiungono criticità sociopolitiche ed economiche. Come ricorda Al Jazeera, l’Egitto ha introdotto negli ultimi trent’anni una serie di norme, tra cui delle modifiche alla Costituzione, per tutelare l’ambiente e soprattutto il Nilo, il corso d’acqua che garantisce la sopravvivenza di quasi tutta la popolazione. Ciononostante, «la domanda fondamentale riguarda il grado di efficacia di queste norme», che non sono aggiornate o non vengono applicate. Sono però le pessime condizioni ambientali e igieniche la vera piaga del Paese, soprattutto quelle «dei villaggi e dei bassifondi», che «contrastano completamente con quanto viene ripetuto con insistenza nelle sale dei congressi dotate di aria condizionataata, oppure negli studi dei canali satellitari».  

 

Numerosi i commenti di al-Ahram, il principale governativo egiziano, in cui la celebrazione dell’evento si alterna alla preoccupazione per il cambiamento del clima. ‘Abd Allah Zalta scrive, infatti, che l’innalzamento del livello dei mari potrebbe portare all’allagamento di una parte del centro urbano di Alessandria e della zona limitrofa del Delta entro il 2050, «obbligando un quarto degli alessandrini ad abbandonare le proprie abitazioni», anche se inondazioni e alluvioni avevano costretto i cittadini a lasciare le loro dimore già nel 2015 e di nuovo nel 2020. «Secondo gli studi [delle Nazioni Unite] – prosegue il commento – Alessandria sprofonda di 3 millimetri all’anno a causa delle dighe costruite sul Nilo, che hanno bloccato il deposito del limo, fondamentale in passato per la stabilità del terreno e per le operazioni di estrazione del gas nei fondali marini». La conclusione di Zalta suona come un ammonimento: «è giunto il momento di prendere questi report con serietà, e di non distogliere lo sguardo dal pericolo che potrebbe cogliere di sorpresa l’Egitto fra meno di trent’anni».

 

Khaliq Qandil e Osama Saraya sottolineano sullo stesso giornale la valenza politica che ha l’evento per il Cairo. Il primo si sofferma sul «ruolo cruciale» giocato dall’Egitto in questo ambito a livello regionale e mondiale («attuando una serie di misure a favore dell’energia pulita e della transizione verde») dopo essere diventato un punto di riferimento nel contrasto al terrorismo e nella gestione della pandemia. Il secondo è ancora più esplicito: grazie alla conferenza, l’Egitto si è collocato «nel posto più alto del mondo». Sharm el-Sheikh da città di pace (qui venne firmato nel 1999 il memorandum per l’attuazione degli accordi israelo-palestinesi degli anni Novanta) diviene «verde e globale», come dimostrano la rete di trasporti pubblici e gli hotel alimentati da energia pulita: una vera e propria «città modello», non più luogo «di negoziato, bensì di implementazione» e di azioni concrete.

 

Molto critico, come sempre quando si parla di al-Sisi, al-‘Arabi al-Jadid. Secondo il giornale panarabo con sede a Londra, il tema del vertice sarebbe, in linea teorica, «di estrema importanza per l’Egitto, inteso sia come Stato che come Nazione, in quanto figura tra i Paesi più colpiti dai cambiamenti climatici». Tuttavia, il Cop27 è diventato «terreno di scontro tra il regime e le opposizioni» che, insieme ad alcune organizzazioni umanitarie, hanno approfittato dell’incontro per riportare all’attenzione dell’opinione pubblica mondiale il caso dei prigionieri politici, tra cui figura ‘Ala ‘Abd al-Fattah, cittadino anglo-egiziano che da più di duecento giorni sta praticando uno sciopero della fame e, da qualche ora, anche quello della sete. Provocatorio il titolo di un altro articolo della testata («prima di salvare la Terra, salvate ‘Abd al-Fattah») in cui si sostiene come non ci possa essere una giustizia climatica senza il rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo.

 

A differenza di al-Ahram, al-‘Arabi non vede nel vertice reali possibilità di cambiamento: certamente l’idea proposta dal Cairo di un finanziamento da parte Paesi industrializzati e avanzati a quelli in via di sviluppo come sorta di compensazione per l’inquinamento di cui questi non sono responsabili è «lodevole», anche se potrebbe essere interpretata come un escamotage del Cairo per porre rimedio alla sua ben poco felice situazione economica. A parte questo, però, non vi sono «obblighi internazionali chiari» e il vertice, come quelli precedenti, non è altro che un «impegno di carattere morale». Occorre poi fare i conti con la pessima congiuntura geopolitica, caratterizzata dall’aumento dei costi dell’energia a causa dell’invasione russa dell’Ucraina. Infine, la realtà dell’Egitto è molto lontana da quella della città di Sharm el-Sheikh, con centri urbani fortemente inquinati e progettati per il trasporto privato, piuttosto che per quello pubblico. I propositi della conferenza sarebbero quindi hibr ‘ala waraq, ovvero “inchiostro su carta”, per utilizzare un’espressione araba del giornale, equivalente al nostro “lettera morta”.

 

Come si è visto, il vertice ha inoltre riaperto la vecchia diatriba fra i Paesi vittime dei cambiamenti climatici e altri responsabili del riscaldamento globale. Al-Sharq al-Awsat, giornale panarabo finanziato dall’Arabia Saudita, respinge le accuse spesso rivolte a Riyad su questo punto e, al contrario, elenca le numerose iniziative adottate dal principe ereditario Mohammed bin Salman per ridurre le emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera. L’articolo, poi ripreso da altri siti del Golfo, aggiunge che «qualsiasi successo umano, qualunque esso sia, dipende dalla “partecipazione collettiva” nell’affrontare le crisi. Sotto questo aspetto, l’Arabia Saudita ha messo sotto la propria ala i Paesi della regione, impegnandosi a raggiungere gli obiettivi climatici mondiali».    

 

Anche l’emiratino al-Ittihad, riprendendo un report dell’Emirates Center for Strategic Studies and Research, esalta i progetti attuati da Abu Dhabi, come Prosperity, la cooperazione con Israele e la Giordania per la produzione di energia solare e idroelettrica, la città avveniristica di al-Masdar e costruzione di impianti fotovoltaici. Tutto questo senza dimenticare che il prossimo anno il vertice si terrà proprio negli Emirati.

 

 

Il disincanto di Algeri e una nota finale sul Forum in Bahrein

 

Riportiamo in chiusura qualche notizia che commenta, con alcuni giorni di ritardo, il vertice della Lega Araba tenutosi ad Algeri e il Forum interreligioso di Awali al quale ha partecipato Papa Francesco la settimana scorsa. Quanto al primo evento, Al-Ahram lo analizza in chiave egitto-centrica, soffermandosi sul discorso di al-Sisi, che menziona termini ormai molto obsoleti come “panarabismo” e “unità araba”, declinati in varie forme di cooperazione già avviate o future. Tuttavia si coglie, leggendo l’articolo, un senso di disillusione mescolato a nostalgie novecentesche – quando l’idea di un mega-Stato arabo era all’ordine del giorno nelle agende di molti Paesi. L’autore sa che queste ambizioni non potranno realizzarsi e infatti precisa che «i sogni [del vertice] erano grandi, ma i risultati sono stati di gran lunga inferiori rispetto alle attese» per poi concludere, in maniera quasi speranzosa: «Algeri ha ridato ai popoli arabi un po’ di ricordi dei vertici passati […] è difficile che il passato ritorni, ma di fronte ai problemi, alle crisi e alle divisioni che sta vivendo il mondo arabo, resta il sogno di una concordia decisionale» su alcuni temi, come la liberazione della Palestina, le libere elezioni in Libia e la fine della crisi in Iraq e Siria. Molto meno idealista, invece, al-Quds al-‘Arabi che afferma brutalmente come sia ormai «preferibile riunire un vertice con il minor numero possibile di capi di Stato», onde evitare impasse e ridurre al minimo le dispute.

 

Al-Masri al-Youm collega, anch’esso in ottica nazionale, la visita del Papa in Bahrein con il Cop27, evidenziando il fil rouge che lega i concetti di fratellanza e tolleranza al rispetto dell’ambiente e alla sostenibilità delle risorse della terra e dell’acqua.             

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