Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale e quella araba

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 15:56:49

Oltre alle proteste, gli attentati. L’Iran continua a essere scosso da avvenimenti drammatici. Mercoledì alcuni uomini armati hanno attaccato il santuario sciita di Shah Cheragh a Shiraz uccidendo almeno 15 persone. L’agenzia statale IRNA ha immediatamente accusato i «terroristi takfiri», come Teheran è solita chiamare gli esponenti dei gruppi estremisti sunniti. Poco dopo, lo Stato Islamico ha postato su Telegram la sua rivendicazione dell’attacco. Tre persone sono state arrestate e, secondo quanto si legge sul Guardian, non si tratta di cittadini iraniani. Le autorità della Repubblica Islamica tentano, per ovvia convenienza, di creare un collegamento tra l’attentato e le proteste per la morte di Mahsa Amini. Lo ha fatto per esempio il presidente della Repubblica Ebrahim Raisi, secondo il quale le manifestazioni avrebbero «reso possibile» l’attacco. Si è espresso similmente il portavoce del majlis iraniano, Mohammad Qalibaf, ex generale dei pasdaran: «generando disordini nelle scorse settimane [i manifestanti] hanno preparato il terreno per i piani del nemico».

 

Le manifestazioni, comunque, non si placano, al contrario. A quaranta giorni dalla morte di Mahsa Amini, e nonostante imponenti misure messe in atto dalle forze dell’ordine, un lunghissimo corteo di persone si è recato sul luogo di sepoltura della giovane ragazza curda. Nella sua città natale di Saqqez oltre 10.000 si sono riuniti scandendo slogan come «morte al dittatore» e, soprattutto, «donna, vita, libertà». Le manifestazioni, ha riportato l’agenzia ISNA, vicina allo Stato iraniano, sono state largamente pacifiche, anche se alcuni scontri si sono verificati quando i manifestanti stavano lasciando il luogo delle proteste. A quel punto le autorità hanno bloccato internet nella zona. Secondo un’altra versione la polizia avrebbe sparato sui manifestanti quando un gruppetto si è diretto verso la sede del governatorato di Saqqez. Il Washington Post pubblica oggi due notizie, una che è riuscito a verificare indipendentemente e una no. La prima è che i manifestanti hanno assaltato gli uffici governativi a Mahabad, nella regione curda dell’Iran, e la polizia ha risposto sparando sulla folla. La seconda, quella su cui una verifica indipendente non è stata possibile, riguarda il numero di morti, che secondo un attivista sarebbero almeno due. Intanto anche gli scioperi sembrano intensificarsi anche se restano molto forti gli ostacoli alla realizzazione di grandi scioperi nazionali, che giocarono un ruolo chiave nel successo della rivoluzione del 1979.

 

Secondo il giornalista dell’Independent Borzou Daragahi quella di mercoledì è stata una giornata «spartiacque» per l’opposizione al regime teocratico degli Ayatollah. Daragahi ha riportato il commento di una donna iraniana che mostra piuttosto chiaramente il “salto di qualità” nelle richieste dei manifestanti, non più indirizzate soltanto a migliorare la condizione delle donne o, più in generale, a promuovere una riforma dall’interno del sistema: «abbiamo provato a riformare [il sistema]. Abbiamo votato per Khatami. Abbiamo votato per Mousavi. Abbiamo persino votato per Rouhani. Ora mi unisco agli eversivi. Rovesceremo il regime. Lasciate che le persone all’interno [del carcere di] Evin decidano come debba cambiare l’Iran». Anche Najmeh Bozorgmehr sul Financial Times sostiene che ormai la contestazione riguardi l’intero nizam: «i giovani dicono di non credere che la Repubblica islamica sia capace di cambiare rotta, e vogliono porre fine a 43 anni di quello che essi considerano un governo malvagio e repressivo». Stesso concetto espresso da un manifestante all’interno di un’università: «non siamo più un movimento. Siamo una rivoluzione che sta stando vita a una nazione». Oltre al già citato «zan, zendegi, azadi» (donna, vita, libertà), i giovani iraniani che manifestano hanno trovato nella canzone Baraje (qui la canzone, il cui titolo significa “per”) il loro “inno”. Come ha scritto Nahid Siamdoust su Foreign Policy, Baraje «indica la fine della pazienza nei confronti dello status quo e apre prospettive su un nuovo futuro, con un crescendo vocale che culmina nella parola “libertà”». La canzone rivela «la natura semplice, ordinaria» di ciò per cui gli iraniani manifestano e muoiono, e denuncia un regime «che sembra essere contro la vita stessa, punendo balli, baci e facce sorridenti», scrive ancora Siamdoust. Se poi i manifestanti avranno successo nel loro intento resta purtroppo tutto da vedere. I fattori che incideranno sull’esito delle proteste sono molti, ma il più importante è probabilmente il ruolo giocato dal corpo dei Guardiani della Rivoluzione (IRGC). Come ha ricordato Afshon Ostovar su Foreign Policy, la rivoluzione del ’79 ebbe successo anche grazie alla scelta dell’esercito di rimanere neutrale, ciò che – di fatto – decretò la fine della dinastia Pahlavi. Oggi però l’IRGC difficilmente si comporterà nello stesso modo perché, a differenza dell’esercito monarchico, i pasdaran sono stati creati per «difendere la Repubblica Islamica, non l’Iran». Per questo, ha scritto Ostovar, «i Guardiani della Rivoluzione non possono esistere in una forma di governo che non sia più definita dalla Repubblica Islamica». Ecco perché il rischio che le proteste si trasformino in un bagno di sangue è purtroppo reale. Ma, intanto, si continua a manifestare, incuranti delle violenze delle forze del regime.

 

Ricalibrare la relazione Stati Uniti-Arabia Saudita? «Una cosa positiva»

 

Le relazioni tra Arabia Saudita e Stati Uniti restano al centro dell’attenzione globale. Il New York Times, in particolare, torna sul periodo precedente alla decisione dell’OPEC+, invisa a Washington, di tagliare la produzione di petrolio. Il quotidiano newyorkese ha appreso da fonti interne all’amministrazione Biden che tra Washington e Riyad era stato finalizzato un accordo informale che avrebbe dovuto portare a un considerevole aumento della produzione di petrolio tra settembre e dicembre 2022. Come noto, le cose sono andate nella direzione opposta, provocando l’ira della Casa Bianca (il quotidiano newyorkese ha scelto la parola “fuming” per descrivere la reazione della squadra di Biden), che si è sentita «ingannata da Muhammad bin Salman». Secondo i funzionari americani interpellati dal New York Times, anche nei giorni immediatamente precedenti alla decisione dell’OPEC+ i vertici sauditi rassicuravano l’alleato americano che l’accordo sarebbe stato rispettato. Uno dei punti fondamentali è che Washington e Riyad non si capiscono più: la Casa Bianca e il Dipartimento di Stato non riescono più a decifrare le modalità di funzionamento del decision-making saudita. «Analizzare il processo decisionale saudita oggi è come la Cremlinologia all’ennesima potenza» perché, ha detto Hussein Ibish dell’ Arab Gulf States Institute in Washington, a decidere sono soltanto una manciata di persone nell’entourage del re e del principe. La conseguenza è che «anche le persone meglio informate negli Stati Uniti spesso non sanno» come la Casa Reale saudita prenda le sue decisioni.

 

Ci avviamo, dunque, verso la fine della stretta cooperazione tra Stati Uniti e Arabia Saudita che ha contribuito a dare forma al mondo come lo conosciamo almeno a partire dal famoso incontro tra Roosevelt e Ibn Saud a bordo della USS Quincy nel 1945? Non è affatto detto. I legami sono profondi e diversificati. Lo ha detto chiaramente la principessa Reema bint Bandar Al Saud, ambasciatrice del Regno negli Stati Uniti, in un’intervista alla CNN: non è più tempo di descrivere le relazioni tra i due Paesi come uno scambio «oil-for-security». Gli interscambi sono complessi e se alcuni esponenti politici americani (Biden incluso) hanno usato la prospettiva di ricalibrare le relazioni tra i due Paesi come una minaccia, al contrario per l’ambasciatrice saudita la revisione è una necessità, perfino una «cosa positiva» perché «questo Regno non è il Regno che era cinque o dieci anni fa».

 

Ciò che è successo questa settimana lo testimonia. A livello politico Riyad e Washington sono ai ferri corti, ma questo non ha impedito ai principali attori economici americani, come i vertici di Goldman Sachs, di JP Morgan o del fondo Blackstone solo per citarne alcuni, di partecipare alla “Davos del deserto”, la Future Investment Initiative svoltasi nella capitale saudita tra il 25 e il 27 ottobre. Stephen Schwarzman di Blackstone e Jamie Dimon di JP Morgan erano tra coloro che nel 2018, in seguito all’affaire Khashoggi, avevano ritirato la loro partecipazione alla FII. Ora sono tornati, convinti, come ha affermato Dimon al Wall Street Journal, che i problemi tra Stati Uniti e Arabia Saudita sono «esagerati e saranno risolti». Probabilmente sarà così, di certo però a Washington non saranno entusiasti del titolo della conferenza: «permettere un nuovo ordine globale». Non è forse un caso quindi che a differenza di quanto avvenuto nel 2021 non sono presenti elementi dell’amministrazione americana, mentre ci sono invece il genero di Donald Trump, Jared Kushner, e Steven Mnuchin, ex segretario del Tesoro dell’amministrazione repubblicana. Monica Malik, capo economista della Abu Dhabi Commercial Bank, ha sottolineato che mentre i politici americani sono furenti nei confronti di Riyad, il settore privato a stelle e strisce manda il messaggio opposto: «vogliamo fare più affari nella regione». Banchieri e fondi di investimento non sono però i soli a proseguire business as usual nei rapporti con l’Arabia Saudita. Secondo quanto riporta infatti Middle East Eye, anche dopo l’omicidio di Jamal Khashoggi le università americane hanno continuato a ricevere ingenti finanziamenti dal Regno: sono 440 i milioni di dollari versati dall’Arabia Saudita alle università americane dal 2018 a oggi, contando soltanto i fondi che sono stati già versati, e tralasciando invece quelli già messi a budget ma non ancora erogati.

 

Tuttavia, mentre Khalid al-Falih, ministro saudita che ha il compito di attrarre investimenti esteri, ha usato toni concilianti e cercato di sminuire l’importanza del disaccordo tra i due Paesi, il ministro dell’energia Abdulaziz bin Salman è stato decisamente più duro. In un’occasione ha affermato: «continuiamo a sentire “siete con noi o contro di noi”, ma non c’è spazio per [dire che] “noi siamo per l’Arabia Saudita e per le persone dell’Arabia Saudita”?». In un’altra occasione ha invece usato toni quasi minacciosi per commentare la decisione americana di utilizzare le riserve strategiche per cercare di abbassare il prezzo del petrolio: «sprecare le scorte di emergenza potrebbe risultare doloroso nei mesi a venire».

 

Israele nella Tana del Leone

 

Migliaia di palestinesi nella striscia di Gaza hanno manifestato per denunciare l’uccisione di sei persone in Cisgiordania. Secondo quanto scrive Al-Jazeera i negozi e gli uffici pubblici sono rimasti chiusi, in sciopero, mentre nella West Bank e a Gerusalemme est i palestinesi sono scesi nelle strade e nelle piazze. Due delle persone uccise erano barbieri che stavano tornando a casa dal lavoro, mentre tre persone, tra i 27 e i 35 anni, facevano parte dell’organizzazione Tana del Leone, basata nella zona vecchia di Nablus e responsabile secondo Israele dell’incremento degli attacchi da parte dei palestinesi. Come riporta il New York Times, l’organizzazione ha confermato che nel raid israeliano ha perso la vita il leader della Tana del Leone. Mentre crescono le tensioni, Israele si avvicina a nuove elezioni che, secondo l’Associated Press, assomigliano sempre di più alle ultime quattro: un referendum pro o contro Netanyahu. La novità è che sembra sempre più probabile che il politico estremista Itamar Ben-Gvir possa giocare un ruolo chiave nella formazione di un eventuale governo di destra.

 

A livello regionale segnaliamo che in seguito all’incontro tra il ministro della Difesa israeliano Benny Gantz ed Erdoğan Turchia e Israele hanno riallacciato i legami in materia di sicurezza.

 

Israele-Libano: firmato ufficialmente l’accordo sui confini marittimi

 

Mentre il parlamento non ha trovato l’accordo per l’elezione del presidente della Repubblica libanese, Libano e Israele hanno ufficialmente firmato l’accordo per la delimitazione dei confini marittimi, che è stato poi consegnato alle forze ONU presenti in Libano. Come ha ricordato l’inviato speciale americano Amos Hochstein, che ha mediato tra le diverse posizioni, è abbastanza singolare che sia stato raggiunto un accordo di delimitazione dei confini marittimi «tra due Paesi che non hanno relazioni diplomatiche» e che, formalmente, sono in guerra. Ciò ha reso particolarmente orgoglioso il primo ministro israeliano Yair Lapid, il quale ha affermato: «non capita ogni giorno che un nemico riconosca [l’esistenza] dello Stato di Israele in un accordo scritto davanti all’intera comunità internazionale».

 

 

Una crisi annunciata: la Tunisia ricorre al Fondo Monetario Internazionale

Rassegna dalla stampa araba a cura di Mauro Primavera

 

Quello che la maggior parte della stampa internazionale temeva, all’indomani della vittoria del sì al referendum costituzionale si è avverato: la Tunisia è di nuovo afflitta dalla crisi economica, questa volta così grave da costringere lo Stato a richiedere un prestito di quasi due miliardi di dollari al Fondo Monetario Internazionale al fine di calmierare i prezzi di carburanti e grano. Il rincaro di questi beni sta peraltro avendo ripercussioni in ambito sociale (le prime proteste risalgono al 14 ottobre) e politico, con le critiche al presidente della repubblica Kais Saied.

 

Rafiq bin ‘Abd Allah, firma del giornale tunisino al-Sabah, scrive sulla prima pagina dell’edizione del 25 ottobre che il governo appare del tutto impreparato a proporre riforme e misure in grado di contenere gli effetti negativi della crisi. Il disastro, però, può esser ancora evitato: «la cosa più importante – spiega in conclusione – è che vi sia l’apertura di un dibattito nello spazio pubblico con le organizzazioni nazionali, della società civile, del settore privato e degli esperti», al fine di raggiungere una «partecipazione consensuale che ponga le basi per un programma di sviluppo che non si pieghi ai diktat esteri delle organizzazioni finanziarie mondiali e che preservi gli interessi dello Stato e la sua sovranità».

 

Meno ottimista un’altra testata nazionale, Kapitalis, che si domanda, piuttosto, se le nuove manifestazioni popolari non siano «i semi di una seconda rivoluzione». In effetti, osserva il giornale, la profondità della crisi è testimoniata dal fatto che uno degli epicentri delle proteste è il quartiere della capitale al-Tadamun, considerato fino a poco tempo fa un importante bacino elettorale del capo dello Stato. L’articolo elenca, sotto forma di domande retoriche, le numerose carenze del governo centrale, ma al contempo guarda con scetticismo alle opposizioni, segnatamente Ennahda e il Fronte di Salvezza Nazionale, che pure hanno «i loro interessi» politici nel sostenere le manifestazioni.

 

Del tutto pessimista, invece, la visione di Al-Jazeera, secondo cui il responsabile delle attuali difficoltà del Paese è uno solo: il presidente Kais Saied, promotore della nuova Carta costituzionale che ha talmente ampliato i suoi poteri da rendere il Paese una repubblica iperpresidenziale. «La serie di crisi consecutive – si legge in un approfondimento del giornale – riflette la mancanza di un progetto economico di Saied, che si è invece aggiudicato tutti i poteri [istituzionali]»; alla deriva autoritaria si aggiunge la scarsa preparazione del ra’is negli affari di Stato e la mancata consultazione con i corpi intermedi della società, tra cui i sindacati, che in effetti lamentano da tempo di essere stati esclusi tanto dall’iter costituzionale quanto dalle decisioni del governo in ambito socioeconomico. L’emittente qatariota non crede che l’accordo con il Fondo, qualora venisse definitivamente approvato, risolverebbe la situazione, anzi: «questa politica di assoggettamento ai dettami del FMI avrà conseguenze devastanti sul piano sociale, aprendo il futuro del Paese all’ignoto e annunciando una sollevazione popolare senza precedenti».

 

Siria e Hamas sempre più vicini

 

Prosegue il processo di normalizzazione del regime siriano con il resto del mondo arabo. Dopo il viaggio di Assad negli Emirati Arabi Uniti dello scorso marzo e le aperture giordane (in realtà senza esito) ora è la volta del movimento palestinese Hamas, che il 19 ottobre ha inviato una delegazione in visita ufficiale a Damasco per ripristinare le relazioni con Assad dopo dieci anni di silenzio e tensioni, scoppiate quando nel dicembre 2012 l’allora capo dell’ufficio politico del movimento, Khaled Mesh‘al, sventolò di fronte e a centinaia di persone la bandiera dei rivoluzionari siriani. L’imminente vertice della Lega Araba, come accenna il giornale del regime siriano al-Ba‘th, potrebbe aver giocato un ruolo fondamentale nell’apertura dei colloqui fra le due parti. Ma per la testata al-‘Arabi al-Jadid, storicamente schierata con i dissidenti siriani, il rapprochement appare, nella migliore delle ipotesi, poco sincero, e, in quella peggiore, una completa farsa: «Assad ha ripreso i contatti con alcuni paesi arabi, ma queste relazioni, oltre al fatto di essere  “congelate”, non sono state stabilite con la stessa gioia e lo stesso orgoglio che è stato invece esibito da Hamas». Ad uscire più indebolito, secondo il quotidiano, è proprio il movimento palestinese che, rinnegando le sue posizioni sulla Primavera Araba siriana, si è piegato a una alleanza innaturale per assecondare il volere dell’Iran. Assad, invece, viene descritto come un leader piuttosto astuto, capace di far leva su espressioni chiave come “asse della resistenza” e “pericolo sionista”, una retorica a metà tra l’antiquato retaggio panarabista e le direttrici geopolitiche dello Stato siriano, caratterizzate dall’alleanza con la Repubblica Islamica e la Russia di Vladimir Putin.   

 

Anche Al-Jazeera, ostile al regime di Assad e allo stesso tempo favorevole l’organizzazione islamista palestinese, ha cercato di comprendere le motivazioni che stanno alla base della decisione di Hamas, dedicando all’argomento una rubrica in sei parti. L’ultima puntata sottolinea, dopo un lungo excursus storico sulle relazioni tra il movimento palestinese e la Siria, come il riavvicinamento voluto non sia giustificabile da un punto di vista ideologico e neppure da quello politico, dal momento che Hamas ha sempre cercato di adottare un approccio equilibrato e moderato nelle relazioni interarabe, un modus operandi che in questo caso, a causa di una «ingiustificata devozione», è venuto a mancare.  

 

 

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