Una guida ai fatti della settimana nel Mediterraneo allargato e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 16:39:09

L’OPEC+ ha annunciato che a partire da maggio la produzione giornaliera di petrolio sarà ridotta di circa 1,16 milioni di barili. La notizia ha colto molti di sorpresa perché dopo l’ultima decisione di questo tipo avvenuta nel novembre scorso (che aveva scatenato le ire di Washington) i Paesi produttori avevano garantito che non ci sarebbero stati ulteriori tagli nel corso del 2023. Dopo l’annuncio il prezzo del Brent è aumentato di circa 4 dollari al barile. Secondo alcuni analisti nel prossimo futuro il prezzo potrebbe attestarsi sopra i 100 dollari, mentre per Goldman Sachs la fascia di riferimento sarà quella compresa tra i 90 e i 95 dollari al barile.

 

Perché l’OPEC+, e in particolare i suoi due membri più importanti, Russia e Arabia Saudita, hanno preso questa decisione, e perché proprio ora? La risposta più naturale è che entrambi i Paesi hanno tutto l’interesse a mantenere elevato il prezzo, dopo che nel mese scorso il barile veniva scambiato intorno ai 70 dollari. Ma come ha sottolineato il Financial Times, da quel momento il prezzo era già risalito ad almeno 80 dollari e dunque quella a cui stiamo assistendo «non è soltanto a una mossa difensiva da parte del cartello, ma una assertiva dei suoi più grandi membri come l’Arabia Saudita». Volendo riassumere, possiamo affermare che in questa settimana sono emerse principalmente due interpretazioni della decisione dell’OPEC+: per la prima il fattore decisivo sono le necessità interne saudite, mentre per la seconda il taglio alla produzione va compreso alla luce degli allineamenti internazionali. Il Wall Street Journal, per esempio, in un editoriale a firma della redazione parla di un pugno allo stomaco sferrato all’America di Joe Biden. David Ignatius sul Washington Post si è espresso in termini non troppo dissimili.

 

Tuttavia, come sempre avviene per i fenomeni complessi come questo, è probabile che la decisione dell’OPEC+, e in particolare dell’Arabia Saudita, non possa essere ricondotta a una singola spiegazione, quanto piuttosto a una combinazione di tanti, diversi, fattori. Lo stesso Wall Street Journal, in un altro articolo, ha sottolineato come la decisione sia in linea con la necessità saudita di incassare un quantitativo sufficiente di fondi per finanziare i suoi «giga-progetti» come la New Murabba o The Line. È dunque necessario che i prezzi del petrolio resteranno elevati «per i prossimi cinque anni», si legge. Ci sono poi motivazioni politiche più “spicce”: da un lato è nota la preferenza della casa reale saudita per Donald Trump e i repubblicani in generale, dall’altro filtra – come ricordato dal Financial Times – una certa irritazione saudita per la dichiarazione dell’amministrazione Biden secondo cui serviranno «anni» per il riempimento delle riserve strategiche americane, parzialmente utilizzate l’anno scorso nel tentativo di aumentare l’offerta di greggio.

 

La decisione di tagliare la produzione nasce anche dal fatto che oggi è meno sentito il rischio che ciò porti alla perdita di posizioni di mercato a favore di altri produttori, come ha notato tra gli altri Reuters. Infatti, fino a poco tempo fa il rapido aumento della produzione americana di shale-oil poteva “ammortizzare” i tagli dell’OPEC. Oggi questo non può avvenire, come evidenziato da questo grafico che mostra come la produzione shale non sia stata in grado di crescere agli stessi ritmi del periodo 2016-2020. Siamo di nuovo al posto di comando, ha affermato un funzionario del cartello commentando la capacità dell’organizzazione di influenzare i mercati globali energetici.

 

Che si tratti di influenzare il mercato petrolifero, o di raggiungere un accordo con l’Iran, il tentativo del principe ereditario saudita Mohammed bin Salman (MbS) di delineare una nuova configurazione del potere in Medio Oriente appare sempre più evidente. Come ha scritto Aziz El Yaakoubi (Reuters), questa strategia «serve gli interessi sauditi» ed è pianificata per «creare le condizioni che permettano all’Arabia Saudita di focalizzarsi sul vasto piano di trasformazione economica di MbS, Vision 2030, nel quale ha riversato miliardi di dollari». A questo scopo, sono proseguiti i contatti tra le figure apicali di Iran e Arabia Saudita, come stabilito dall’accordo mediato dalla Cina. Giovedì si è svolto, proprio a Pechino, l’incontro tra Faisal bin Farhan Al Saud, il ministro degli Esteri saudita, e l’omologo iraniano Hossein Amirabdollahian, i quali hanno confermato l’intenzione di riaprire le rispettive ambasciate. Come ha scritto il New York Times, inoltre, non è da escludere che Riyad, dopo aver a lungo insistito per una partnership con Washington, decida di rivolgersi a Mosca o Pechino per sviluppare un programma nucleare civile.

 

Intanto, i sauditi continuano a mettere in chiaro quali saranno i principi che guideranno la loro rinnovata azione all’estero. Nonostante l’amichevole accoglienza che il presidente egiziano al-Sisi ha ricevuto a Gedda in occasione del suo arrivo in Arabia Saudita, da Riyad hanno fatto chiaramente intendere che sebbene l’Egitto stia sprofondando in una crisi economica sempre più acuta, non sono più disponibili a staccare «assegni in bianco». MbS sta ponendo condizioni affinché l’aiuto estero si materializzi: è necessaria una «ristrutturazione economica [che preveda] il taglio dei sussidi e la privatizzazione delle aziende di proprietà statale». Non che il Regno abbia smesso di inviare fondi all’estero: anzi, forse ne invia persino più di prima, ma ora assumono la forma di investimenti da cui trarre profitto.

 

 

Razzi dal Libano verso Israele

 

Abbiamo parlato a lungo del licenziamento del ministro della Difesa israeliana Yoav Gallant per la sua richiesta di fermare l’iter di riforma della giustizia deciso da Netanyahu. Ora si apprende che, al di là degli annunci e delle iniziali ricostruzioni, Gallant è ancora al suo posto: l’ufficio del Primo ministro ha comunicato che a causa della particolare situazione securitaria in cui si trova Israele, il licenziamento è posticipato. Un segno, ha scritto Anshel Pfeffer, della inedita debolezza di Netanyahu. Situazione securitaria che peraltro è gravemente peggiorata giovedì, quando dal sud del Libano sono state lanciate decine di razzi (la maggior parte intercettati dall’Iron Dome) contro Israele in ritorsione contro l’incursione israeliana ad al-Aqsa. Nella serata di giovedì si è riunito il gabinetto per la sicurezza israeliano. Al termine Netanyahu ha dichiarato che la reazione israeliana imporrà il pagamento di un «prezzo significativo» ai nemici dello Stato ebraico. Così, nella notte Israele ha bombardato Gaza, mentre venerdì mattina l’obiettivo è stato il sud del Libano. Secondo le comunicazioni israeliane l’obiettivo sono le infrastrutture di Hamas.

 

Come accennato, mercoledì sono scoppiate nuove violenze nei pressi del complesso di al-Aqsa. La polizia israeliana è entrata nella moschea alla ricerca – stando alla ricostruzione israeliana – di «agitatori mascherati» che si sarebbero barricati nella sala di preghiera dopo che si erano verificati dei disordini durante la giornata. In risposta al raid israeliano nella moschea, tanto più grave considerando che avviene nel periodo di Ramadan, sono stati lanciati dei razzi anche da Gaza, mentre ulteriori disordini hanno avuto luogo nella città di Beit Ummar, in Cisgiordania.

 

Il potere guadagnato dalle forze di estrema destra in Israele e le violenze nei confronti dei palestinesi pongono un punto interrogativo circa il proseguimento delle relazioni tra Israele ed Emirati Arabi Uniti. Le notizie di questi ultimi giorni fanno pensare che nonostante alcune difficoltà tutto proceda in modalità business as usual. Netanyahu e Mohammed bin Zayed hanno infatti avuto un colloquio telefonico questa settimana, nel corso del quale hanno riaffermato l’impegno di entrambi i Paesi nel rafforzamento delle relazioni bilaterali. Pesano in questa decisione le reciproche opportunità economiche. A proposito di economia: il caos generato dalla riforma della giustizia potrebbe avere gravi ripercussioni proprio sulla crescita israeliana. La Banca Centrale ha elaborato due diversi scenari a fronte della «tremenda incertezza dovuta al processo legislativo di riforma del sistema giudiziario e alle sue implicazioni economiche». Nel primo scenario, che prende in considerazione l’eventualità di una risoluzione delle controversie sul potere giudiziario, la Banca Centrale prevede una crescita del 2,5% nel 2023 e del 3,5% nel 2024. Al contrario, nel caso in cui la riforma si accompagni a un «incremento del premio per il rischio del Paese, a un impatto negativo sulle esportazioni,  a un declino degli investimenti domestici e del consumo privato», la Banca Centrale stima un effetto negativo sulla crescita del Pil israeliano che può variare tra lo 0,8% e il 2,8% (qui il comunicato della Banca Centrale).

 

Intanto continua a essere oggetto di discussione il progetto di istituzione di una guardia nazionale alle dipendenze di Itamar Ben Gvir. Domenica scorsa il governo ha approvato in principio la proposta di istituzione della milizia (come la chiamano i critici) anche se, secondo la ricostruzione di Patrick Kingsley (The New York Times), serviranno mesi prima che un comitato di funzionari governativi definisca forma e leadership del nuovo corpo di sicurezza. Secondo quanto affermato invece dal leader di Otzma Yehudit, la guardia sarà in parte composta da truppe a tempo pieno e in parte da «volontari che potrebbero essere chiamati [in servizio] con breve preavviso». In precedenti occasioni Ben Gvir ha sottolineato che con ogni probabilità l’utilizzo della guardia avverrebbe soprattutto in contesti dove è «coinvolta la minoranza araba israeliana». È proprio questo aspetto che ha portato Gadeer Nicola, capo del dipartimento arabo dell’Associazione per i Diritti civili in Israele, a concludere che l’obiettivo principale della milizia ideata da Ben Gvir è prendere di mira gli arabi.

 

Un altro dei possibili problemi derivanti dalla creazione di questo nuovo corpo è legato alla confusione che potrebbe crearsi a livello di suddivisione dei compiti e della catena di comando nell’ambito della gestione della sicurezza del Paese. Non a caso Kobi Shabtai, capo della polizia israeliana, ha bollato l’iniziativa come «nient’altro che uno spreco di risorse». C’è poi un altro punto che vale la pena sottolineare: indipendentemente da quale forma assumerà questa guardia nazionale, l’iter che ha portato fin qui mostra la crescente influenza sul governo di un attivista come Ben Gvir, un tempo ai margini dello spettro politico israeliano. Infine, emerge con forza sempre maggiore l’interrogativo circa la capacità di Netanyahu di controllare le forze presenti all’interno del suo stesso governo.

 

 

Un nuovo candidato per le elezioni in Turchia

 

Muharrem Ince, ex membro del partito nazionalista CHP – lo stesso di Kemal Kılıçdaroğlu – ha deciso di candidarsi alle elezioni presidenziali turche. Secondo i sondaggisti citati dalla Reuters, Ince potrebbe ottenere tra il 5 e il 10% delle preferenze: non certo un candidato in grado di puntare alla vittoria. Nondimeno, la sua discesa in campo è gravida di conseguenze. Anzitutto perché la maggior parte dei suoi (eventuali) elettori avrebbe con ogni probabilità sostenuto Kılıçdaroğlu. In secondo luogo, perchè la dispersione del 5-10% dei voti su un candidato terzo avrebbe con ogni probabilità l’effetto di portare Erdoğan e Kılıçdaroğlu al ballottaggio. Per questo motivo Ince è stato criticato da molti esponenti del CHP, che lo accusano di favorire indirettamente il leader dell’AKP. Ince ha però difeso la sua volontà «genuina» di sfidare il presidente uscente e messo in dubbio i meccanismi di «democrazia interna» del CHP. Una possibilità è, però, che Ince ritiri la candidatura all’avvicinarsi delle elezioni, favorendo in questo modo le opposizioni. Al momento, naturalmente, il diretto interessato smentisce questa eventualità. A oggi, dunque, Ince si aggiunge a Kılıçdaroğlu, Erdoğan e Sinan Oğan nella corsa alla presidenza turca (le figure chiave di queste elezioni sono brevemente descritte qui).

 

In questi giorni si è espresso dalla prigione in cui si trova anche il leader curdo Selahattin Demirtaş. Il partito curdo HDP di cui Demirtaş fa parte ha ottenuto poco più del 10% alle elezioni del 2018 e secondo le previsioni riportate dal Financial Times potrebbe arrivare al 12% quest’anno. Il voto dei curdi è dunque decisivo e l’HDP non ha ufficialmente preso parte all’alleanza dei partiti che si oppongono a Erdoğan. Tuttavia, Demirtaş ha ricordato che «Erdogan è riuscito a rimanere al potere dividendo la società. L’unità dell’opposizione alle urne non è importante soltanto per eliminare questa polarizzazione, ma anche per vincere le elezioni» e per questo, ha proseguito il leader curdo, è fondamentale che l’opposizione colga l’occasione per sconfiggere l’AKP. «Passo dopo passo, la Turchia è scivolata verso un regime autoritario. Se Erdogan vince queste elezioni, la Turchia avrà effettuato la transizione verso una nuova forma di dittatura», ha affermato Demirtaş. Non sorprende allora osservare che le autorità turche abbiano effettuato diversi raid a Smirne e Istanbul, nel corso dei quali hanno arrestato 19 persone tra cui dei membri del gruppo giovanile dell’HDP.

 

Nell’analisi della studiosa Gönül Tol emerge l’importanza dell’unità delle opposizioni, come richiamato dal leader curdo. Infatti, argomenta Tol, mentre le democrazie necessitano di una maggioranza per continuare a essere tali, alle autocrazie è sufficiente la divisione delle opposizioni per prosperare. Questo è ciò che è successo finora in Turchia: non va pertanto sottovalutata né la decisione delle opposizioni di sostenere unitariamente Kılıçdaroğlu né l’implicito sostegno che giunge da Demirtaş. Le prossime elezioni turche, poi, sono un appuntamento cruciale ben al di fuori del Paese in cui si svolgono. Esse, infatti, pongono un interrogativo fondamentale del nostro tempo, perché – sostiene Tol – mentre viene prestata molta attenzione alla crisi in cui versano tante democrazie, sarà importante vedere se una nazione che sta scivolando verso l’autoritarismo possa invertire la rotta. Questo avrà delle implicazioni non solo per la Turchia, ma anche per come Ankara si comporterà all’estero. Tuttavia, secondo la maggior parte degli analisti interpellati da Turkey Recap, la tendenza a stemperare le tensioni con i rivali regionali e il tentativo di mantenere una posizione bilanciata nei confronti di Russia e Ucraina saranno una costante anche nel caso in cui Erdoğan perda le elezioni. Ciò che invece cambierebbe è probabilmente il ritorno a uno stile di politica estera maggiormente istituzionalizzato, e dunque a un nuovo protagonismo del ministero degli Esteri a scapito della Presidenza.

 

 

Tunisia: Kais Saied contro il Fondo Monetario

 

Come scrive il New Arab, «è significativamente aumentato, spesso con conseguenze letali, il numero di africani che dalla Tunisia intraprendono un viaggio pericoloso per raggiungere l’Italia dopo il giro di vite istigato dalle dichiarazioni a sfondo razziale del presidente Kais Saied». Il Financial Times aggiunge che l’aggravarsi delle condizioni economiche del Paese sta spingendo anche molti tunisini a partire. E non ci sono prospettive di miglioramento in vista. Ieri il presidente tunisino ha di fatto respinto il prestito del Fondo Monetario Internazionale in discussione da mesi: «i diktat dell’FMI sono inaccettabili […], l’alternativa è contare su noi stessi», ha dichiarato Saied.

 

 

In breve

 

Gli Emirati Arabi Uniti hanno revocato la licenza alla banca russa MTS citando i rischi derivanti dalle sanzioni occidentali. Nonostante questa decisione secondo Jean Pierre Filiu (Sciences Po) gli Emirati si collocano chiaramente nel campo russo. Intanto, riporta il Financial Times, crescono le preoccupazioni in vista di COP28 dopo che i relatori dell’evento “Forecasting Healthy Futures” sono stati invitati a non protestare e a non criticare l’Islam, il governo degli Emirati e le grandi compagnie.

 

Per porre una reale sfida al potere in Iran, i manifestanti hanno bisogno di denaro. Le sanzioni occidentali, da questo punto di vista, sono controproducenti. L’analisi di Esfandyar Batmanghelidj per Foreign Affairs.

 

I diplomatici di Russia, Turchia, Siria e Iran si sono incontrati a Mosca nell’ambito del tentativo del Cremlino di portare a un riavvicinamento tra Damasco e Ankara (Associated Press).

 

Le soap opera sono un grande classico che scandisce le sere di Ramadan in molti Paesi musulmani. Dopo la rottura del digiuno, ci si ritrova davanti alla tv per passare del tempo insieme. Così, queste fiction televisive permettono anche di cogliere quali sono i temi più significativi delle società in cui vengono proiettate: dall’immigrazione alla situazione della donna, scrive Les Echos.

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